Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Ultimo grande erede della tradizione umanistica italiana, Andrea Palladio integra una solida preparazione teorica a una collaudata esperienza di cantiere. Comunemente indicata come la più perfetta incarnazione della tradizione classica, la sua opera riassume le principali esperienze del XVI secolo, proponendo soluzioni destinate a riscuotere un duraturo successo in tutto il mondo occidentale.
La formazione
Destinato a diventare il più imitato artista nella storia dell’architettura occidentale, Andrea di Pietro della Gondola detto Palladio comincia la sua lunga carriera come semplice scalpellino. Abbandonata Padova, dove nasce nel 1508, dopo alcuni anni di apprendistato presso il tagliapietre Bartolomeo Cavazza, nel 1523 il giovane si trasferisce a Vicenza ed entra in contatto con i cosiddetti maestri di Pedemuro. Giovanni da Porlezza e Girolamo Pittoni sono abili lapicidi, informati sulle novità portate in terra veneta dagli artisti di formazione centro-italiana. Frequentando la loro bottega per circa quattordici anni, Andrea lavora su repertori aggiornati e fa esperienza della vita di cantiere. Fra gli incarichi a cui si dedica nel corso degli anni Trenta devono essere ricordati l’altare maggiore della cattedrale di Vicenza (1534-1536) e il portale della Domus Conestabilis (1536), il cui disegno spetterebbe proprio alla mano del giovane.
Ma l’episodio determinante per la carriera di Andrea è costituito dall’incontro con Giangiorgio Trissino, raffinato umanista vicentino dilettante di architettura. Durante i lavori di modernizzazione della propria villa di Cricoli (intorno alla metà degli anni Trenta), Trissino trova un valido collaboratore nel giovane Palladio e decide di farsi carico della sua formazione culturale. Al dotto mecenate Andrea deve gran parte della sua fortuna: nell’ambito artigianale degli scalpellini, infatti, difficilmente avrebbe potuto raggiungere quella consapevolezza critica che contraddistingue la sua opera. Ammesso a frequentare l’Accademia Trissiniana, nonostante le sue umili origini, Andrea della Gondola viene ribattezzato con l’ambizioso nome di Palladio e designato a incarnare l’ideale dell’architetto umanisticamente inteso come "uomo universale". Palladio diviene degno erede della tradizione umanistica: accompagnando gli interessi letterari a quelli più propriamente scientifici, assimila le teorie armonico-proporzionali riproponendole nelle sue opere attraverso uno studio accurato.
Fra il 1538 e il 1541 effettua numerosi viaggi al seguito di Trissino; frequenta i circoli culturali e si confronta con quanto il Rinascimento ha prodotto nei più aggiornati centri del Nord Italia. Le opere di Giulio Romano Jacopo Sansovino, Michele Sanmicheli e Giovanni Maria Falconetto, nonché i primi libri del trattato di Sebastiano Serlio (editi a Venezia rispettivamente nel 1537 e nel 1540) introducono Palladio alla Maniera moderna. Ma sono soprattutto i soggiorni romani a svolgere un ruolo chiave per la sua crescita artistica. Oltre a recuperare l’originaria e fondamentale lezione di Donato Bramante e Raffaello, durante i soggiorni nella Città Eterna – rispettivamente nel 1541, nel 1545-1547 e nel 1554 – Palladio approfondisce la lettura di Vitruvio e lo studio dell’antico. Avviando un’articolata ricognizione delle architetture romane antiche e moderne, pone le basi di tutta la produzione architettonica futura. Comunemente indicate come la migliore incarnazione della tradizione classica, le opere palladiane sono il frutto di una straordinaria libertà inventiva che rinnova lo spirito delle esperienze cinquecentesche.
Insigne architetto, è anche autore di importanti testi, quali la Descritione de le chiese, stationi, indulgenze et reliquie de corpi sancti, che sono in la città de Roma e soprattutto le Antichità di Roma. Entrambe le opere – che risalgono al 1554 – si inseriscono nella tradizione dei Mirabilia urbis, aggiornandone l’impostazione. Queste guide costituiscono un precedente nei confronti delle tavole palladiane che Daniele Barbaro acclude al suo commentario vitruviano del 1556.
Al fallimento editoriale dei Commentari di C. Giulio Cesare, curati da Palladio in ricordo dei due figli morti in giovane età (1575), si contrappone il grandissimo successo dei Quattro libri dell’architettura. Oggetto di numerose riedizioni, il trattato di architettura vede la luce nel 1570 dopo una lunga gestazione. Oltre a riprendere gli argomenti divenuti consueti dopo gli scritti di Sebastiano Serlio e Jacopo Barozzi, il testo di Palladio presenta interessanti spunti "autobiografici"; vi sono incluse infatti molte opere progettate dallo stesso architetto: avulse dal contesto e modificate rispetto alla realtà, esse vengono proposte come modelli ideali, emblematici nella loro perfezione.
Palladio a Vicenza: interventi pubblici e architetture private
Vicentino di formazione e non di nascita, Andrea Palladio intrattiene un legame molto particolare con la sua patria elettiva. Egli sa interpretare al meglio le esigenze della committenza locale e diviene così il protagonista del rinnovamento architettonico della cittadina veneta. Accomunati dal singolare destino di essere rimasti incompiuti, gli edifici di Vicenza illustrano l’evoluzione stilistica dell’architetto.
Probabilmente già dal 1542, Palladio si cimenta in una impresa di grande impegno: la residenza cittadina per i conti Thiene. Frutto di un lavoro autonomo o, secondo alcuni, di una collaborazione con Giulio Romano, il grandioso edificio avrebbe dovuto estendersi su un intero isolato. Se l’uso del bugnato richiama il linguaggio di Romano, l’assetto dei prospetti e l’organizzazione planimetrica si ispirano chiaramente alle architetture romane del Rinascimento maturo che Andrea ha visitato di recente.
Concorrendo con i migliori architetti attivi nell’Italia del nord (fra gli altri Michele Sanmicheli e Giulio Romano), nel 1549 Palladio si aggiudica il primo incarico pubblico di rilievo: la ricostruzione delle logge del Palazzo della Ragione (noto come Basilica). Si tratta di un’impresa delicata sia sotto il profilo tecnico che sotto quello estetico. Assicurandosi il favore dell’intera comunità, Palladio progetta un ingegnoso involucro architettonico che risolve i problemi statici della vecchia struttura, conservandola integralmente. Con evidente richiamo alla lezione bramantesca, le serliane che scandiscono i due piani dell’arioso e armonico loggiato connotano in senso moderno la nuova immagine della "Basilica".
A partire dagli anni Cinquanta le opere palladiane mostrano una nuova maturità progettuale e stilistica. Rientrato dai soggiorni romani del 1545-1547 e del 1554, l’architetto si esprime per un classicismo via via più plastico e ricco, in cui prevarrà l’uso della colonna e della decorazione.
Un’ortodossa sovrapposizione degli ordini caratterizza la facciata del palazzo per Valerio Chiericati (1550); prospiciente una piazza pubblica, l’edificio amplifica il suo valore urbanistico aprendosi in un profondo loggiato trabeato. Anche Palazzo Iseppo da Porto risale alla medesima fase stilistica: probabilmente commissionato nel decennio precedente, ma modificato durante i lavori di costruzione (entro il 1552), esso riprende in facciata il modello del bramantesco Palazzo Caprini.
Alimentata dall’ultimo viaggio romano (1554), un’evidente ispirazione michelangiolesca caratterizza invece il più tardo palazzo Valmarana (1565-1566). Orientando la propria produzione verso una nuova concezione della superficie muraria, Palladio unifica il prospetto mediante l’uso di paraste giganti che spartiscono campate strette e dense di elementi. La cosiddetta Loggia del Capitanato costituisce lo sviluppo maturo di questa poetica. Come nel contemporaneo Palazzo Porto Breganze (1570-1580), la colonna corinzia gigante diventa il motivo conduttore della composizione, ma a parità di plasticismo dei partiti architettonici, la loggia presenta un’esuberanza decorativa che trova un corrispettivo solo in palazzo Barbarano (1570-1571). Edificata proprio di fronte alla Basilica, la loggia è frutto di una commissione pubblica del 1571.
In occasione della vittoria riportata nella battaglia di Lepanto, Palladio viene incaricato di ristrutturare la sede del rappresentante cittadino della Serenissima; la facciata secondaria dell’edificio sembra più strettamente connessa all’evento ricordato: ornata di statue e trofei militari essa ripropone la forma dell’arco di trionfo.
Se nelle planimetrie di palazzi e ville Palladio applica le ipotesi ricostruttive delle antiche abitazioni, nella progettazione dell’ultima opera della sua vita mette a frutto sia la conoscenza dell’antico che le sue cognizioni nel campo della scienza prospettica. Commissionato dall’omonima accademia, il Teatro Olimpico – cominciato nel 1580, ma portato a termine da Vincenzo Scamozzi dopo la morte del maestro avvenuta nello stesso anno – segna una tappa fondamentale nella storia dell’architettura del teatro moderno. L’architetto interpreta le ambizioni dei suoi colleghi accademici, realizzando una struttura lignea permanente comprensiva di tutte le parti proprie delle antiche strutture. Seguendo un andamento semiellittico, la cavea fronteggia il palco e la scaenae frons. Oltre a celebrare i committenti, la ricca decorazione caratteristica dell’ultimo Palladio funge da utile espediente per dissimulare le irregolarità del sito e unificare visivamente l’intera struttura.
Le ville
La fioritura delle ville nella campagna veneta durante il XVI secolo – riconducibile agli investimenti intrapresi nell’entroterra dalle classi più abbienti della Repubblica – costituisce la sintomatica conseguenza di un ben più vasto fenomeno economico e sociale. Palladio diviene il geniale regista di questa fioritura, rinnovando profondamente la tradizione costruttiva locale con la razionalizzazione degli impianti e con espliciti riferimenti alla classicità. La dignitas classica delle ville palladiane è in realtà affidata a pochi elementi ricorrenti che l’architetto combina con grande sapienza compositiva, realizzando una serie di "variazioni sul tema" senza mai tradire i principi a cui si ispira.
Sviluppando la lezione della Villa Trissino e gli spunti già presenti nella villa Godi di Lonedo (1538-1542), nel corso degli anni Quaranta Palladio progetta un nutrito gruppo di edifici per la campagna vicentina. Accomunati da un severo rigore formale e da una compatta volumetria, essi presentano una gerarchica differenziazione delle parti: pur contraddistinta dalla presenza di due torri angolari, la Villa Pisani di Bagnolo (1544) presenta una triplice arcata di ingresso bugnata e timpanata. Attraverso gli esempi di Bertesina e Caldogno, Palladio arriva a realizzare quel piccolo capolavoro di astrazione linguistica che è la Villa Poiana a Poiana Maggiore (cominciata intorno al 1548): pur riducendo al minimo gli apparati architettonici, ricrea la serena armonia del classicismo mediante un attento studio metrico-proporzionale. Il riferimento all’antico diventa più esplicito nelle opere successive.
Partendo dall’errata convinzione che in epoca antica le abitazioni presentassero un fronte simile a quello degli edifici sacri, Palladio nobilita le proprie ville, e quindi le famiglie committenti con un frontone di ascendenza classica. Preceduto solo da Giuliano da Sangallo in quest’ardita operazione (nella quattrocentesca Villa Medici di Poggio a Caiano), egli sviluppa il motivo realizzando in molti casi dei veri e propri pronai. Già sperimentato a Piombino Dese in una poco ortodossa versione su due piani (Villa Cornaro), nella Villa Foscari (1560), nota come "La Malcontenta", il pronao ionico assume un tono decisamente monumentale: posto sopra un alto basamento, esso è pensato per qualificare il prospetto principale, singolarmente orientato verso il corso d’acqua navigabile.
Anche le planimetrie sono caratterizzate dalla medesima volontà di ordinare gerarchicamente gli elementi della composizione. Legati fra loro da un preciso rapporto proporzionale, gli ambienti secondari si dispongono intorno al salone principale rispettando un rigido geometrismo e, a sua volta, il corpo abitabile della costruzione costituisce il nucleo da cui si dipartono i fabbricati deputati al ricovero del personale e degli utensili (le cosiddette "barchesse" con le relative torri colombaie).
Diversamente da quanto avviene in ambito romano, la villa veneta del Cinquecento è il cuore pulsante di un’azienda che necessita di essere amministrata. Forse influenzato dall’incontro giovanile con l’imprenditore agricolo padovano Alvise Cornaro e dalla lettura del suo originale trattato di architettura, Palladio riserva una grande attenzione agli aspetti pratici della vita in villa. Disposte secondo una linea retta nella Villa Emo a Fanzolo, piegate a un andamento semicircolare a Fratta Polesine (Villa Badoer), le barchesse affiancano il nucleo padronale integrandone il disegno.
Probabilmente privati dell’originaria destinazione utilitaristica, in Villa Barbaro a Maser (realizzata intorno al 1560) i due corpi di fabbrica laterali assolvono un importante ruolo estetico, bilanciando gli assi di sviluppo della composizione.
Personaggi colti e raffinati, i fratelli Barbaro influiscono forse sul risultato finale: decorata dagli affreschi di Paolo Veronese e da ricchi stucchi, la loro villa si presenta come sede ideale per gli otia umanistici.
Neanche l’edificio costruito per il canonico Paolo Almerico (1567 ca.) può essere considerato una villa alla stregua delle altre.
Come ricorda lo stesso Palladio nei Quattro libri essa sembra piuttosto "un molto grande teatro", una sorta di belvedere da cui ammirare il panorama dei colli circostanti.
La cosiddetta Rotonda è l’esempio più compiuto di villa palladiana e insieme uno degli edifici più emblematici della produzione dell’architetto. Nella ripetizione identica dei quattro prospetti, nell’esatta simmetria della pianta, come nella sala circolare sormontata da una cupola la perfezione del cosmo trova una dimensione tutta umana.
Palladio a Venezia: le architetture religiose
Se l’attività vicentina di Andrea Palladio comprende principalmente edifici civili, a Venezia egli realizza solo architetture di carattere religioso. Nonostante gli insuccessi delle proposte per la ricostruzione del ponte di Rialto e per la scala d’Oro del Palazzo Ducale, negli ultimi decenni di attività Palladio riceve numerosi incarichi nella città lagunare. Architetto affermato, intorno al 1562, è chiamato a Venezia per sostituire Jacopo Sansovino nei lavori della chiesa di San Francesco della Vigna. Dovendo risolvere il complicato problema di una facciata capace di armonizzare le differenti altezze della navata centrale e delle parti laterali, l’architetto trae ancora una volta ispirazione dagli esempi antichi. Risultato della sovrapposizione di prospetti tipologicamente simili ma di dimensioni diverse, lo schema proposto si caratterizza per la presenza di due frontoni intrecciati.
Riprendendo il medesimo motivo in facciata, seppure con alcune variazioni, nella chiesa di San Giorgio Maggiore, Palladio avvia le ricerche intorno a una nuova concezione dello spazio ecclesiale.
Alla morte di Jacopo Sansovino (1570) l’anziano maestro viene nominato proto della Serenissima, divenendo responsabile delle iniziative pubbliche.
In tale veste egli attende alla progettazione della Chiesa del Redentore, commissionata dal Senato veneziano per adempiere a una promessa espressa durante la peste del 1575-1576. Portando a maturazione quanto anticipato negli interventi precedenti, Palladio realizza un organismo di rara perfezione formale. Affidata alle cure dei Cappuccini, la chiesa doveva rispondere sia alle esigenze monastiche che a quelle votive, implicanti fra l’altro una solenne processione annuale. Palladio organizza allora una serie di spazi indipendenti, coordinandone la sequenza in un calcolato percorso visivo, rifacendosi agli insegnamenti appresi dallo studio delle terme romane.
Anche esternamente la struttura è trattata con grande competenza prospettica: i piani sovrapposti della monumentale facciata in pietra d’Istria conducono lo sguardo fino alla grande cupola che corona tutto l’edificio.
In sintonia con le esperienze condotte dai suoi illustri colleghi – Jacopo Vignola, Galeazzo Alessi e Pellegrino Tibaldi) –, in San Francesco della Vigna e nel Redentore, Andrea Palladio risponde alle esigenze della liturgia controriformata, mediando l’impianto centralizzato con la planimetria longitudinale.
Figlio della cultura umanistica, nella cappella Barbaro a Maser (1579-1580) l’architetto non rinuncia alla perfezione geometrica dello schema circolare. Preceduto da un fastoso pronao corinzio e caratterizzato da una ricca decorazione a stucco, il cosiddetto "Tempietto" chiude le esperienze rinascimentali anticipando per alcuni versi quelle barocche.