PONTI, Andrea
PONTI, Andrea. – Nacque a Gallarate, in provincia di Varese, il 17 febbraio 1821 da Giuseppe (1786-1853) e da Maria Antonia Longhi, sesto di undici figli: Gerolamo (1815-1874), Orsola Maria (nata nel 1816), Bartolomeo (1817-1860), Antonio (1818-1862), Michele (nato nel 1820), Francesca (nata nel 1822), Francesco (nato nel 1824), Luigi (1826-1888), Giovanni Battista (1827-1882), Francesco (1832-1895).
Dal suo matrimonio (1854) con Virginia Pigna (1832-1907), figlia di Giovanni ed Elisabetta Turati, nacquero due figli maschi, Ettore (1855-1919) ed Eligio (1867-1881), e tre femmine, Maria (1856-1938), Ester (1858 -1933) e Antonia (1860-1938).
Figura di primo piano tra gli imprenditori lombardi dell’Ottocento, Andrea Ponti trascorse i primi 41 anni della sua vita nel distretto cotoniero della valle Olona, allora caratterizzato dallo straordinario sviluppo innescato dalla nascita delle prime fabbriche meccanizzate di filati impiantate da mercanti-imprenditori di Busto Arsizio (Varese) e Gallarate. Forse iniziato alla carriera ecclesiastica, si laureò in giurisprudenza a Pavia nel 1845. Destinato a succedere al padre nella direzione degli impianti produttivi di famiglia, intraprese – con il futuro cognato e patriota mazziniano Luigi Borghi – un lungo viaggio di studio in Europa, visitando in particolare gli stabilimenti dell’Alsazia. Nel 1848 parteciparono entrambi al movimento insurrezionale dei giovani che, dai laghi e dal Varesotto, si erano concentrati a Gallarate per soccorrere i milanesi. Per tutta la vita fu un liberale convinto, attento alle vicende pubbliche, ma rifiutò ogni carica, pur prestigiosa, a eccezione del posto di consigliere a Gallarate nelle prime elezioni del 1860 e di comandante della guardia nazionale tra il 1859 e il 1864.
Negli anni della sua giovinezza, la direzione della grande fabbrica di Solbiate Olona (Varese), avviata nel 1823, dell’opificio di Gallarate e delle centinaia di tessiture a domicilio era in mano al padre Giuseppe, che aveva fondato con i fratelli Bartolomeo (1785-1860) e Francesco (1794-1874) una ditta di produzione e commercio – denominata Andrea Ponti – sin dal 1819, subito dopo la morte del nonno Andrea (1752-1819). Lo zio Francesco risiedeva a Trieste per occuparsi dell’importazione dei cotoni greggi, e sin dal 1827 furono inviati agenti rappresentanti a New Orleans per acquistarli direttamente alla fonte, seguiti dal fratello Antonio. Lo zio Bartolomeo era il capo dell’impresa, che guidava dalla sua residenza di Milano, coordinando i commerci di materia prima e la distribuzione dei tessuti.
Andrea affiancò il padre fin dal suo ritorno dal viaggio europeo, dirigendo lo stabilimento di Solbiate, trasformato nel corso degli anni nella più importante filatura di cotone della Lombardia, un impianto che, con l’opificio di Gallarate, riforniva una rete flessibile di 1600 telai domestici che produceva tessuti rivenduti nel Lombardo-Veneto. Favorito dalla forte caduta dei prezzi della materia prima sul mercato internazionale e dal dimezzamento del dazio, e sostenuto dalle continue innovazioni nel cotonificio di Solbiate, il successo della ditta Andrea Ponti si rivelò straordinario, tanto che nel 1851 il capitale accumulato superò i ventuno milioni di lire milanesi, una sostanza difficilmente eguagliabile all’epoca.
Un quinto dell’ingente patrimonio era costituito da terreni e aziende agricole, un investimento molto fruttuoso, poiché il valore della terra decollò seguendo l’andamento della seta che, tra gli anni Venti e Trenta, superò il doppio del proprio valore di mercato; anche le tenute furono ben amministrate, con investimenti in bonifiche e piantagioni di gelsi, una linea proseguita da Andrea dopo il 1862.
Alla morte del padre Giuseppe, nel 1853, i figli Antonio e Andrea fondarono, come disposto da tempo, una nuova impresa – la Antonio e Andrea Ponti – che ereditava tutte le attività industriali della vecchia Andrea Ponti in liquidazione. La sede di Gallarate e il coordinamento delle attività produttive in valle Olona furono affidati ad Andrea, mentre a Milano fu aperta una «figliale» diretta da Antonio. Nel capoluogo la nuova ditta ebbe modo di partecipare ai grandi affari dell’epoca, come la società concessionaria delle ferrovie del Lombardo-Veneto, la ferrovia a cavalli di Tornavento, la Cassa interinale per le sete e la progettata Banca di sconto della Lombardia; Antonio, inoltre, entrò nel Consiglio di Reggenza della sede milanese della Banca nazionale degli Stati Sardi. Tra il 1852 e il 1854 i Ponti resero possibile l’edificazione della grande fabbrica di Castellanza dei Cantoni concedendo un’ampia apertura di credito per la fornitura di cotoni sodi e un finanziamento di 650.000 lire; un appoggio così rilevante da essere ricordato ventiquattro anni dopo come momento decisivo della loro ascesa imprenditoriale (A perenne memoria del cavaliere Costanzo Cantoni, Milano 1876). Inoltre, i due fratelli non mancarono di partecipare alla battaglia contro la pebrina (la gravissima e prolungata malattia del baco da seta), importando seme bachi giapponese per i loro poderi e finanziando con 250.000 mila lire italiane l’edificazione di tre filande di seta «all’europea» nelle Indie orientali inglesi.
La vecchia ditta in liquidazione fu amministrata da Bartolomeo fino alla sua morte (1860), poiché dalla seconda metà degli anni Quaranta era stata avviata un’attività ‘bancaria’, cioè di prestiti garantiti da ipoteche a grandi possidenti e imprese industriali che aveva raggiunto un ammontare superiore ai sette milioni di lire austriache. Una forte spinta in tale direzione era venuta dalla crisi del 1848, quando Bartolomeo si era reso artefice di un vero e proprio salvataggio della Cassa di risparmio delle provincie lombarde, un’occasione per acquisire contratti di mutuo ipotecario ben garantiti e di notevole entità. Alla sua morte, Bartolomeo, celibe, destinò tutto il suo patrimonio, una decina milioni, ai due nipoti, ma improvvisamente, al principio del 1862, morì anche Antonio, che lasciava numerosi figli ancora in tenera età. Ponti fu perciò obbligato, a 41 anni, a dare una svolta alla sua vita, trasferendosi a Milano in un momento particolarmente difficile per la ‘casa’, poiché – dopo anni di favorevole congiuntura – era iniziata la cotton famine (la penuria di cotoni greggi provocata dalla guerra civile americana); inoltre, le numerose spettanze ereditarie avrebbero ancora una volta decurtato il capitale della famiglia-impresa.
Nel 1862 il prezzo del greggio s’impennò, la maggior parte degli opifici di Legnano si fermò e a Busto 1/3 dei telai rimase inattivo. In tale difficile contesto Andrea, ora unico titolare della Antonio e Andrea Ponti e «stralciatario» della vecchia Andrea Ponti, s’insediò nell’antico palazzo Taverna di via Bigli, nelle cui sale nel 1848 si era riunito il comitato insurrezionale capeggiato da Carlo Cattaneo.
Il suo ruolo nella comunità d’affari milanese divenne subito centrale non soltanto per i grandi mezzi di cui disponeva, le relazioni d’affari intrattenute nel commercio all’ingrosso di cotoni sodi, il prestigio acquistato dalla famiglia nei decenni precedenti e per i legami parentali che lo univano, direttamente o indirettamente, alle grandi famiglie imprenditoriali della città; fu un punto di riferimento anche perché nelle sue mani passarono numerosi e cospicui crediti ipotecari vantati da Bartolomeo nei confronti di influenti famiglie patrizie e imprenditoriali.
Superata la cotton famine, completata l’unificazione nazionale, negli anni Settanta Andrea Ponti dispiegò un’attività ad ampio raggio. Fu azionista e primo presidente della SpA Cotonificio Cantoni (1872), un’impresa che godette ampiamente del suo credito, specie per la fornitura di materia prima (per somme anche superiori al milione annuo); partecipò alla costituzione del Lanificio Rossi, sottoscrivendo 500.000 lire; nel 1879 finanziò la filatura di cotone Crespi e C., aperta da Pio Benigno Crespi (futuro proprietario del Corriere della sera) a Nembro (Bergamo), conferendo un capitale in azioni di 300.000 lire su un totale di 500.000. Sostenne direttamente la fondazione di imprese meccaniche che potevano contribuire a rendere meno dipendente il Paese dalle forniture estere, in particolare la Cantoni e Krumm (1875, poi Franco Tosi e C.) e la Luigi Pomini di Castellanza, ditta avviata da un giovane meccanico di talento impiegato nella fabbrica di Solbiate e divenuta poi una delle più reputate produttrici di motori idraulici e macchine tessili.
Nel 1870, con la fondazione della Ceriani e C. – nata per erigere a Fara d’Adda uno stabilimento di circa 20.000 fusi – Ponti diede inizio a un progetto grandioso, volto a trasformare radicalmente il comparto nazionale del lino e della canapa. La lavorazione di queste fibre era molto diffusa, potendo avvalersi, tra l’altro, di un milione di quintali di canapa greggia di ottima qualità raccolta nel Paese, ma essa manteneva un carattere artigianale e domestico.
Ponti ebbe l’obiettivo ambizioso di assorbire tanti diversi impianti sparsi nel territorio italiano per dare vita a un’impresa integrata capace di controllare il mercato nazionale e di concorrere a livello internazionale. Nel gennaio 1873 fondò il Linificio e canapificio nazionale con un capitale di venti milioni di lire, in cui impegnò personalmente oltre otto milioni, assicurandosene il controllo grazie alla partecipazione azionaria di parenti e imprenditori a lui strettamente legati.
La società nacque riunendo gli stabilimenti di Fara e di Cassano (ex Cusani e C.) e aggregando quello di Crema (ex Maggioni e C.) nel 1875, anno in cui si raggiunsero 59.000 fusi; non riuscì invece ad assorbire l’altro grande impianto del Bergamasco, quello di Villa d’Almè, pur riuscendo a sottrargli l’ing. Edoardo Brambilla, che divenne reggente dell’impresa (mantenendo l’incarico fino al 1918) e che, sin dagli anni Settanta e Ottanta, procedette a un’efficace riorganizzazione aziendale. La qualità della produzione guadagnò continuamente in reputazione, ma la congiuntura degli anni Settanta e Ottanta fu molto sfavorevole. Ponti si servì dei suoi potenti mezzi e diede prova di una certa tenacia per salvare e rilanciare un progetto che, nei primi quattordici anni di vita, assicurò agli azionisti una deludente remunerazione del capitale (3%). I successi del trentennio successivo, comunque, sarebbero stati impossibili senza il consolidamento, la ricerca di nuovi mercati e la crescita del quindicennio in cui egli guidò l’impresa; un periodo difficile che comunque vide quasi triplicare il giro d’affari.
ll Linificio e canapificio nazionale fu poi presieduto dal figlio Ettore fino alla morte, nel corso di un trentennio nel quale – sotto la guida degli uomini in buona parte scelti da Ponti – si espanderà a tal punto da esportare in tutto il mondo, integrare altri venti stabilimenti e guadagnare la leadership europea del settore.
Queste e altre iniziative sono stupefacenti se si considera che Andrea Ponti era afflitto da una sordità che peggiorò con il tempo e che probabilmente lo indusse, nel 1879, ad affidare al figlio Ettore la procura illimitata di tutti i suoi affari. Ma Ponti possedeva un’altra fonte di capitale accumulata negli anni: la reputazione, rafforzata dalla fitta rete di relazioni – parentali, d’affari, culturali – che lo legavano a una larga parte dei ‘milionari’ dell’imprenditoria lombarda. Pur conducendo vita ritirata e dedita al lavoro, i contemporanei lo descrivono come popolare tra i capitalisti e tra gli operai, amante del progresso e filantropo, uomo di notevole cultura, intelligenza e intraprendenza. A questa immagine contribuirono le molteplici opere sociali e filantropiche delle quali si rese protagonista rispondendo ai nuovi bisogni sociali ed educativi imposti dalla grande fabbrica accentrata, costruendo case operaie, mense e spacci cooperativi, sovvenzionando gli asili che ospitavano i figli delle donne impegnate in fabbrica, promuovendo – in particolare a Solbiate, Fara e Cassano – società operaie di mutuo soccorso e casse di previdenza presso le sue imprese, scuole primarie e professionali. Se, da un lato, tali iniziative coincidevano con i bisogni aziendali e legittimavano il ruolo dell’imprenditore, dall’altro ottemperavano a un preciso dovere d’assistenza delle classi dirigenti, centrale nella sua mentalità.
Analoghe iniziative contribuì a realizzare a Gallarate – l’ospedale, l’asilo infantile Ponti, la scuola tecnica, la chiesa di Santa Maria, il teatro, il casino sociale, la nascita della società operaia di mutuo soccorso – versando somme superiori al milione di lire. A Biumo superiore, Solbiate Olona, Cornaredo sovvenzionò, anche con rendite perpetue, gli asili infantili e altre provvidenze; a Milano fondò, presso l’Ospedale Maggiore, l’istituto antirabbico, l’istituto oftalmico e quello di pneumoterapia, oltre a sostenere numerose società di mutuo soccorso.
Fu anche uomo di cultura e mecenate in campo artistico. Incaricò Giuseppe Bertini e Luigi Cavenaghi di restaurare il suo palazzo di via Bigli; all’amico Camillo Boito fece realizzare il mausoleo di famiglia a Gallarate; Giuseppe Balzaretto progettò la villa di Biumo superiore, arricchendola con affreschi di Bertini, con pitture e statue di Tranquillo Cremona, di Odoardo Tabacchi e di Roberto Focosi. Appassionato cultore di scienza e tecnica, non esitò a salvare dal fallimento, nei primi anni Sessanta, la prestigiosa rivista di Carlo Cattaneo, Il Politecnico, pagando 100.000 lire all’editore Daelli e consentendone il passaggio di proprietà a Ernest Stamm e poi a Francesco Brioschi e al suo gruppo. Appoggiò uno dei primissimi tentativi dell’aviazione, «l’elicoptero» dell’ing. Enrico Forlanini. Socio sostenitore della Società d’incoraggiamento d’arti e mestieri per 35 anni, nel 1880 destinò 120.000 lire e una rendita perpetua alla fondazione della scuola agraria Ponti di frutticoltura.
Restò sempre legato alla sua Gallarate e all’Alto Milanese. Nel 1865 acquistò il lago di Varese e incaricò Alessandro Pestalozza di studiare la possibilità di «abbassarne» il livello immettendo le sue acque in un canale che le avrebbe portate sul fiume Olona per accrescerne la portata, progetto poi non realizzato per la mancanza della pendenza necessaria. Nel 1875 fu finanziato uno studio con analoghe finalità per il lago di Lugano, ma anch’esso rimase senza seguito. Nel lago di Varese promosse comunque un’opera di risanamento, proseguita dal figlio Ettore, e sostenne economicamente la cooperazione tra i pescatori del lago e la piscicoltura. Fece eseguire ricerche che portarono alla realizzazione, nel lago stesso, del Museo preistorico dell’isola Virginia. Concorse inoltre alla costruzione del canale Cavour e fu tra i primi patrocinatori degli studi che portarono allo scavo del canale Villoresi; dopo il costruttore Tallacchini, figurò come il maggior sottoscrittore della ferrovia Gallarate-Varese (con 160.000 lire), inaugurata nel 1865; non poté mancare, infine, la sua partecipazione alla fondazione della Banca di Gallarate.
Anche in campo agricolo ebbe modo di manifestare la sua passione per le innovazioni. Divenuto proprietario di estesi poderi, effettuò coraggiosi investimenti – in particolare a Cornaredo (Milano) e a Pontepossero, tra Verona e Mantova – finanziando costose opere di bonifica, rinnovando metodi e tecnologie, introducendo il prato stabile irriguo, nuove colture come il lino, piantando gelsi, costruendo nuove case coloniche, insomma applicò in campo agricolo le sue doti d’industriale e amministratore. Mentre curava l’allevamento razionale del bestiame, studiò la possibilità di incrociare mucche olandesi e svizzere, incoraggiò la produzione di latte condensato e fu il primo a introdurre in Italia la produzione dell’Emmenthal, allora monopolio della Svizzera tedesca, ma destinato a rappresentare una parte importante dell’industria casearia italiana. Assunse due casari specializzati che, adottando il «sistema Swartz», ottennero un prodotto di qualità premiato all’Esposizione universale di Milano del 1881, un’iniziativa seguita ben presto da altri produttori.
Pur sempre legato alle sue origini, Ponti appare come l’incarnazione del ‘mito’ della capitale morale, di una città con al centro i valori dell’intraprendenza e del lavoro produttivo, l’efficienza operativa, la professionalità tecnica e gli studi scientifici, il rifiuto della possidenza parassitaria. Nella sua visione della comunità d’affari, la ricchezza di Milano derivava non solo dalle grandi e piccole imprese, ma anche dalla compresenza e dai legami tra una ricca agricoltura e un’industria destinate a coadiuvarsi a vicenda. Insieme all’interesse per le tecniche agricole, in questa ideologia erano comprese la solidarietà e la filantropia, manifestazioni concrete di quelle virtù morali che una classe dirigente deve possedere per essere legittimata a esercitare il potere.
Morì il 26 settembre 1888 a Biumo (Varese), lasciando erede universale della sua fortuna il figlio Ettore.
Secondo la Gazzetta di Treviso (28 settembre 1888) aveva accumulato una fortuna superiore ai cinquanta milioni di lire. Certamente essa non ammontava a tredici milioni e mezzo come si legge nella denuncia di successione, che comunque rappresentavano di gran lunga la sostanza più cospicua dichiarata a Milano tra il 1862 e il 1900. Il figlio Ettore continuò a partecipare alle imprese di famiglia, ma fu soprattutto un uomo al centro della vita politica, amministrativa e culturale di Milano (di cui sarà sindaco dal 1905 al 1909) e del Paese.
Quanto alle figlie, anch’esse dovettero contribuire a rafforzare i legami relazionali – Maria divenne moglie del conte Pietro Desiderio Pasolini di Ravenna, Ester del cavaliere Luigi Esengrini di Milano, Antonia del conte e senatore Gianforte Suardi di Bergamo – e a distinguersi in opere sociali e filantropiche.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Milano, Atti notarili ultimi versamenti, V. Missaglia, 734 n. 4868 (21 dicembre 1852), 944 n. 2903 (8 giugno 1855), 945 n. 3037 (23 gennaio 1856), 970, n. 5267/1093 (25 novembre 1857), 965 (8 agosto 1865), 966 n. 4927/653 (2 dicembre 1865); G. Alberti, 736 n. 4973 (5 aprile 1853); G. Gaslini, 1229 n. 545 (25 settembre 1860), 774 n. 7829 (28 novembre 1861); V. Strambio, 6933 n. 1670 (5 gennaio 1873); A. Lazzati, 3297 n. 7152/5655 (30 giugno 1879), 3319 n. 10925/9040 (24 gennaio 1889); Fondo successioni, A.P., vol. 301, 163 n. 77 (1888); Alla memoria di A.P. nell’anniversario della sua morte, Milano 1889; Onoranze ad A. P., primo presidente del Linificio e Canapificio nazionale, maggio-giugno 1900, Milano 1903.
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