QUERINI, Andrea
QUERINI, Andrea. – Nacque a Venezia, nella parrocchia di Sant’Angelo, da Pietro di Paolo (ignoto il nome della made) nel 1382. Il padre fu mercante e comandò la squadra navale che nel 1378 condusse a Cipro Valentina Visconti, destinata sposa al re Pietro II Lusignano, recuperando inoltre Famagosta caduta in mano genovese.
Querini seguì le orme paterne e si dedicò al commercio sino all’età matura, per poi volgersi alla carriera politica, che percorse prevalentemente nel settore marittimo. Purtroppo la presenza di tre suoi omonimi che operarono all’incirca nello stesso periodo (figli rispettivamente di Giovanni, Marco e Girolamo) rende talvolta difficile l’identificazione del personaggio. Le prime notizie certe che abbiamo su di lui riguardano la sua vita domestica: nel 1409 sposò Giustiniana Giustinian di Federico, da cui ebbe almeno due figli, Paolo e Angelo. La Giustinian morì presto (il testamento, che la rivela ammalata, è del 28 giugno 1421). Querini passò nel 1426 a nuove nozze con Barbarella Dandolo di Antonio, a sua volta vedova e con un figlio, Nicolò, avuto dal primo marito Girolamo Giustinian di Bianco.
Andrea Querini aveva certamente superata la quarantina allorché si volse al servizio dello Stato nella flotta navale: il 16 maggio 1437 risulta comandare una galera e il Senato gli ordina di recarsi a Livorno, dove resterà in attesa di nuove disposizioni; qualche mese dopo (18 ottobre) figura reduce dall’affondamento di una nave di pirati biscaglini, come vicecapitano in Golfo.
Il servizio pubblico convive in Querini con l’attività mercantile: nel gennaio del 1438, riferisce Marino Sanudo (Le vite dei dogi 1423-1474, I, 1999, p. 151), naufragò una sua nave da 300 botti e qualche settimana dopo (8 febbraio) risulta aver messo due galere, delle quali era armatore, a disposizione dell’imperatore bizantino Giovanni VIII Paleologo, giunto a Venezia per partecipare al Concilio di Ferrara. Qualche mese dopo (16 agosto) andò, in veste di provveditore, a Corone, nel Peloponneso, dove rimase sino al novembre del 1440.
Al rientro in patria entrò a far parte del Senato, quindi il 27 dicembre 1441 venne eletto conte a Zara, ma non vi si recò se non dopo quasi due anni. Il 9 novembre 1442, infatti, fu nominato comandante di due galere grosse con il compito di garantire la sicurezza delle navi mercantili che operavano nella rotta per la Siria. Lasciò Venezia il 20 marzo 1443; nelle acque di Tunisi riuscì a liberare una nave dei Vitturi e in autunno tornò in patria. Scrive Sanudo che Querini «zonse in questa terra, venuto a desarmar […], lo qual fo molto ben visto per lo suo bon portamento che ’l aveva fatto» (Le vite dei dogi 1423-1474, cit., p. 391). Si portò infine a Zara, dove il 4 agosto 1444 presenziò alla ratifica dell’acquisto di una fortezza giunta in mano veneziana tre anni prima. Nuovamente in patria, il 14 novembre 1445 fu eletto capo del sestiere di Cannaregio, ma la mancanza tra le fonti del nome del padre pone il dubbio se si tratti di lui, mentre è certo che nell’ottobre del 1446 entrò a far parte del Consiglio dei Dieci, carica che ricoprì fino a tutto il settembre del 1447.
Qualche settimana prima, la morte di Filippo Maria Visconti (13 agosto) aveva aperto un turbolento periodo per la successione al Ducato milanese, culminata con la presa del potere da parte di Francesco Sforza. Nel settembre del 1447 Querini venne eletto comandante della flotta sul Po, che contava trentadue galere, alle quali si aggiunsero altre quattro del provveditore Giorgio Loredan. Con quest’armata Andrea Querini risalì il fiume, nel tentativo di soccorrere Piacenza, da poco occupata dai veneziani e attaccata dallo Sforza, ma non fece in tempo a impedire che il 16 novembre la città cadesse in mano al nemico; pertanto si ritirò a Casalmaggiore, non lontano da Sabbioneta, dove passò l’inverno.
Nella primavera del 1448 Sforza prese l’iniziativa delle operazioni e conquistò tutta la Ghiara d’Adda, donde l’ordine a Querini di attaccare Cremona. Pertanto nel maggio, con audace azione, assalì il ponte di barche che Sforza aveva fatto costruire sul Po, il cui controllo poteva aprire l’accesso alla città; i veneziani parvero sul punto di ottenere la vittoria, se la moglie dello Sforza, Bianca Maria, con grande determinazione non fosse riuscita a organizzare la difesa, in attesa che il marito inviasse i soccorsi. Allora, intimorito dall’imminente arrivo delle navi nemiche, nonostante il loro numero fosse inferiore a quelle a sua disposizione, Andrea ripiegò su Casalmaggiore. Fu un grave errore («Quae quidem res iniucunda ei fuit et permolesta», annota Giovanni Simonetta nei Rerum gestarum Francisci Sfortiae Commentari, p. 220), perché le truppe di Francesco Piccinino riuscirono in tal modo a liberare Cremona anche dalla parte di terra; dopo di che, sopraggiunto lo Sforza, si rivolsero a Casalmaggiore, dove si giocò la partita decisiva.
Querini attendeva qui soccorso da parte di Michele Attendolo, accampato a poche miglia con l’esercito veneziano, ma questo aiuto non giunse in tempo perché Sforza attaccò contemporaneamente da terra e dal fiume, bombardando la flotta veneziana, divenuta ormai facile bersaglio della sua artiglieria e delle navi comandate da Biagio Assereto. Di fronte al vigoroso assalto, Querini non trovò soluzione migliore che far portare nel castello di Casalmaggiore, sulla riva sinistra del fiume, tutte le armi e le bombarde imbarcate nella flotta e incendiarla, onde evitare che cadessero nelle mani del nemico. Era il 17 luglio e fu una disfatta: a Querini non rimasero che sette navi delle trentadue che aveva (altre fonti parlano di cinquanta e addirittura di settanta), e così riparò a Venezia, dove fu posto sotto accusa dagli avogadori di Comun.
Il processo ebbe luogo il 2 agosto; il dispositivo della sentenza parla di 17 galere nemiche «male in ordine» che Querini, «obstinatus et vilis animi» non ebbe il coraggio di attaccare nonostante le esortazioni dei suoi ufficiali, benché «levissime obtineret victoriam» (Archivio di Stato di Venezia, Avogaria di Comun Raspe, cc. 59v-60r). Neppure seppe reagire contro le bombarde che colpivano da terra, anzi «stabat sicut mortuus»: in sostanza, non aveva accettato di battersi. Al termine del dibattito prevalse l’opinione dell’avogador Andrea Morosini, per cui Querini venne condannato a tre anni di carcere forte, al pagamento di una multa di 3000 lire e a essere privato in perpetuo da ogni ufficio o rettorato. È questa l’ultima notizia a lui riferibile; il resto è ignoto, compreso l’anno della sua morte.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Venezia, Misc. Codd., II, 23, St. veneta: M. Barbaro - A.M. Tasca, Arbori de’ patritii..., VI, p. 322; Venezia, Civico Museo Correr, Cod. Cicogna 3783: G. Priuli, Pretiosi frutti del Maggior Consiglio, cc. 99r-100r; Venezia, Biblioteca nazionale Marciana, Mss. Ital., cl. VII, cod. 17 (=306): G.A. Capellari Vivaro, Il Campidoglio Veneto, III, c. 260r; Archivio di Stato di Venezia, Avogaria di Comun: G. Giomo, Matrimoni patrizi per nome di donna, s.v.; Notarile Testamenti, b. 986/170 (è il testamento 12 maggio 1453 della moglie Barbarella, che la rivela assai ricca); Segretario alle voci. Misti, reg. 4, cc. 78v, 84r, 113r, 125v, 129r, 132v; reg. 5, cc. 19r, 195r; Senato delib. Misti, reg. 60, c. 10v; Avogaria di Comun. Raspe, reg. 3649, anno 1448, cc. 59v-60r; R. Predelli, I libri commemoriali della Repubblica di Venezia. Regesti, III, Venezia 1883, p. 350; Johannis Simonetae Rerum gestarum Francisci Sfortiae Commentarii, a cura di G. Soranzo, in RIS2 XXI, 2, Bologna 1933, pp. 216, 220, 222 s., 505; M. Sanudo, Le vite dei dogi 1423-1474, I, 1432-1457, a cura di A. Caracciolo Aricò, Venezia 1999, pp. 133, 138, 151, 162, 367, 376, 387 s., 391, 429, 432, 494, 496, 627.
C. Cipolla, Storia delle Signorie italiane dal 1313 al 1530, Milano 1881, pp. 431 s.; F. Cognasso, La Repubblica di S. Ambrogio, in Storia di Milano, VI, Milano 1955, pp. 418 s.; G. Gullino, La saga dei Foscari. Storia di un enigma, Sommacampagna 2005, p. 52.