SALVADORI, Andrea
– Nacque a Marciano in Val di Chiana il 6 novembre 1588 da Francesco di Marco e da Olimpia di Bartolomeo Nassetti (cfr. copia dell’atto battesimale in Archivio di Stato di Firenze, Magistrato dei pupilli del principato, 709, c. 470r).
La famiglia, proprietaria terriera, era coinvolta da decenni nel governatorato della cittadina, sottoposta al dominio granducale. Nel marzo 1589 rimase orfano di padre e nel 1592, insieme all’unica sorella, fu affidato dal magistrato dei Pupilli alla tutela dello zio Salvatore Salvadori, residente a Firenze. Nel 1604, con tre composizioni in latino in lode dell’autore, partecipò a una pubblicazione di Odoardo Cybo di argomento giuridico, dedicata al duca Francesco Maria di Urbino e stampata dall’editore fiorentino Cosimo Giunta. Dal novembre 1605 prese lezioni a Roma da un istitutore privato per un anno e poi frequentò il Collegio romano, dove rimase fino al 1612, costretto a vendere parte del patrimonio di famiglia per mantenersi agli studi. In quello stesso anno si stabilì definitivamente nel capoluogo toscano, ma per tutta la vita mantenne relazioni con l’ambiente culturale capitolino.
Cominciò quindi a lavorare come poeta di corte; compì le prime prove al fianco di Jacopo Peri, tra i musici più anziani al servizio dei Medici, che forse aveva già avuto contatti con la famiglia Salvadori in virtù di alcuni possedimenti lasciatigli in eredità dalla prima moglie a Marciano. Andrea sarebbe stato suo principale collaboratore per gli spettacoli teatrali della corte tra il 1616 e il 1620 e tra il 1624 e il 1628. Avviò poi uno stabile sodalizio professionale con Marco da Gagliano, epigono di Peri. Di indole intrigante e arrivista, ebbe screzi con vari musici, letterati e personalità addette alla preparazione degli spettacoli, come Francesca Caccini, Michelangelo Buonarroti il giovane e Giulio Parigi.
Come autore di testi per musica, Salvadori contribuì all’evoluzione del nuovo stile di canto teatrale. Dal repertorio mitologico classico, cui avevano attinto Ottavio Rinuccini e Iacopo Corsi, passò all’elaborazione di quello cavalleresco, di prevalente matrice ariostesca, in auge dal secondo decennio del secolo negli intrattenimenti operistici di varie corti dell’Italia centro-settentrionale. Creò, infine, un’inedita variante sacra e agiografica del genere, foriera di sviluppi successivi. Caratteristico della sua produzione, di soggetto vuoi epico vuoi religioso, fu l’uso di inserti comici.
Compì la prima parte della carriera sotto il patrocinio della granduchessa Cristina di Lorena, all’epoca la referente primaria della spettacolarità medicea. Esordì nel 1613, con la Comparsa d’Araspe, settima entrata della barriera, allestita il 17 febbraio al teatro degli Uffizi per il battesimo di Giovan Carlo de’ Medici, le cui altre parti furono composte da Giovanni Villifranchi, Ottavio Rinuccini, Alessandro Adimari e Iacopo Cicognini; con l’esclusione di Rinuccini, gli altri poeti erano in diretta competizione con Salvadori per l’acquisizione di una stabile posizione a corte. Compose poi il testo di due balletti equestri, per le musiche di Peri, Paolo Grazi e Giovan Battista Signorini, Guerra d’amore e Guerra di bellezza (quest’ultimo musicato solo dai primi due), rappresentati in piazza S. Croce l’11 febbraio e il 16 ottobre 1616; il primo fu una sorta di prova generale per il secondo, che fu offerto per la visita del principe Federico Ubaldo Della Rovere. Il 23 ottobre dello stesso anno, dopo il buon esito delle prove d’esordio, divenne salariato dei granduchi come «provvisionato di vesta lunga e cappa corta» (Archivio di Stato di Firenze, Guardaroba medicea, 309, c. 13v); con quel titolo, che era conferito ai dipendenti delle classi sociali più elevate, fu chiamato ad affiancare Gabriello Chiabrera (il quale aveva goduto di analoga formazione al Collegio romano e che non viveva stabilmente a Firenze) nel ruolo di poeta di corte fino al momento della scomparsa.
Tra i letterati suoi predecessori al servizio dei Medici, Chiabrera fu per Salvadori un punto di riferimento fondamentale, come dimostra l’elevato numero di testi dell’autore savonese presenti nella sua biblioteca privata (cfr. il lascito ereditario in Archivio di Stato di Firenze, Magistrato dei pupilli del principato, 2719, cc. 89v-96v).
Per i granduchi Salvadori svolse anche l’attività di istitutore dei principi e, in alcuni casi, di supervisore delle prove degli spettacoli.
Compose La liberazione di Tirreno e d’Arnea, veglia musicata da Gagliano ed eseguita il 6 febbraio 1617 agli Uffizi per le nozze di Caterina de’ Medici e Ferdinando Gonzaga. In quegli anni stilò operine didattiche per i principi medicei (come la Rappresentazione fatta dal Serenissimo Principe di Toscana al Serenissimo Leopoldo Arciduca d’Austria, villa di Poggio Baroncelli, 9 marzo 1618, e palazzo Pitti, 12 maggio 1618), lavori minori per l’intrattenimento privato dei granduchi (come le Lodi della befana, palazzo Pitti, 6 gennaio 1620 e 1621) e versi per alcune feste fluviali allestite in Arno (come la Battaglia del ponte fra Abido e Sesto nell’Ellesponto e la Battaglia tra tessitori e tintori, allestite tra i ponti S. Trinita e alla Carraia, 25 luglio 1618 e 1619, per la festa di s. Jacopo).
Per l’incoronazione dell’imperatore Ferdinando II produsse il testo del suo primo dramma per musica, Lo sposalizio di Medoro e Angelica, narrativamente fedele al celebre episodio dell’Orlando furioso, su partitura di Gagliano con il contributo di Peri e scene di Giulio Parigi, rappresentato il 25 settembre 1619 a palazzo Pitti. Anni dopo (1624), il lavoro fu lodato da Giovanni Battista Doni come esempio riuscito di opera interamente realizzata in stile recitativo, sia nelle parti solistiche sia in quelle corali (Doni, 1763, p. 148). Lo spettacolo fu replicato l’estate 1620 in Palazzo Vecchio; avrebbe dovuto seguire una ripresa mantovana all’inizio del 1622, per le nozze di Eleonora Gonzaga con lo stesso Ferdinando II, che fu annullata per l’anticipata partenza della sposa per l’Austria. Epurandolo delle parti comiche, Salvadori pubblicò il testo nel gennaio 1623 con dedica al duca Ferdinando Gonzaga, cui inviò personalmente copia della composizione con una raccolta di poesie spirituali, previa intercessione di Gagliano.
Tra il settembre e l’ottobre del 1620 elaborò La regina Sant’Orsola, per le nozze di Federico Ubaldo Della Rovere e Claudia de’ Medici, su partitura principale di Gagliano, rimasta ineseguita per la scomparsa di Cosimo II (28 febbraio 1621); il luttuoso evento segnò l’inizio della reggenza di Cristina di Lorena e di Maria Maddalena d’Austria e comportò una lunga sospensione della spettacolarità cortigiana. In quella fase collaborò con il mondo accademico fiorentino, patrocinato dai principi Carlo e Lorenzo de’ Medici, e produsse spettacoli su tematiche cavalleresche che privilegiarono le discipline coltivate in quell’ambito, come il ballo, l’equitazione e l’armeggeria. Per il carnevale 1622 compose quattro intermedi, Olimpia abbandonata da Bireno – anch’essi fedeli all’originale ariostesco –, per la commedia La pertica di Antonio Folchi, allestita il 7 febbraio nell’abitazione di Giulio Parigi in via Maggio, sede di un’accademia di matematica, disegno e arti militari. Il 26 dicembre 1622, nella chiesa dei gesuiti di S. Giovannino, declamò l’orazione devozionale La natura al presepe, pubblicata l’anno seguente con I fiori del Calvario, una raccolta di sonetti di argomento sacro; dedicò entrambi i lavori alla principessa Maria Maddalena de’ Medici, monaca nel monastero della Crocetta. Per il carnevale 1623 produsse Le fonti d’Ardenna, barriera il cui spunto iniziale rimandava all’Orlando innamorato di Matteo Maria Boiardo e al Furioso, con musica di Gagliano, allestita il 3 febbraio dagli Accademici Rugginosi in casa Rinaldi per la visita di Enrico II di Borbone-Condé. In quegli anni sviluppò una forte rivalità con Iacopo Cicognini, con il quale condivise protettori, occasioni e sedi performative.
Nel 1624 l’attività teatrale di corte riprese, gestita dalla granduchessa Maria Maddalena d’Austria, vedova di Cosimo II, che in gioventù, alla corte di Graz, era stata educata alla musica sacra e alla pratica teatrale gesuitica. In quel periodo, segnato nel 1623 dall’elezione al soglio pontificio di Urbano VIII (Maffeo Barberini), ex allievo del Collegio romano, Salvadori si affermò definitivamente come il poeta più idoneo a esplicitare gli orientamenti politico-culturali filopapali del governo di reggenza. A tale scopo riprese stilemi drammaturgici propri della pratica di collegio, come il dramma a soggetto sacro o agiografico; non secondaria la successiva elaborazione di lavori su tematiche floreali, il cui valore simbolico era in auge nell’ambiente pontificio.
Per la visita di Carlo il Postumo, fratello di Maria Maddalena, scrisse la Canzone delle lodi d’Austria, musicata da Peri ed eseguita il 7 ottobre 1624 nella villa di Poggio Imperiale. Riprese, inoltre, il testo della Regina Sant’Orsola, recitato il 6 ottobre agli Uffizi con musica di Gagliano – con il contributo di Francesca Caccini, Muzio Effrem e forse di Peri – e scene di Parigi. L’allestimento servì a mo’ di prova generale per la rappresentazione in pompa magna dell’opera, avvenuta il 25 gennaio successivo per la visita del principe polacco Ladislao Sigismondo Vasa; per la stessa occasione il poeta predispose il testo della barriera La precedenza delle dame, eseguita il 10 febbraio al Casino di S. Marco con musica di Peri. Con La regina Sant’Orsola, Salvadori inaugurò un nuovo filone del cosiddetto ‘recitar cantando’, di soggetto sacro e agiografico. Come dicono l’Argomento e il Prologo anteposti all’edizione del testo, pur sempre nella linea tracciata da Rinuccini e Chiabrera, si puntava ad aprire «un nuovo campo, di trattare con più utile e diletto, lasciate le vane favole de’ Gentili, le vere e sacre azzioni Cristiane» (Firenze 1625, p. 13).
Quel filone nacque dalla commistione tra l’opera fiorentina e il teatro gesuitico, di cui l’autore riprese alcuni aspetti drammaturgici, come l’ampio impiego del coro e l’ambientazione in situazioni di assedio, con la rappresentazione simultanea dei campi nemici. Anche la cornice editoriale utilizzata per la divulgazione del testo nel 1624, l’Argomento della Regina Sant’Orsola, presentava una perfetta identità formale con gli scenari distribuiti in occasione degli spettacoli gesuitici, con la sinossi dell’argomento e la sintetica articolazione dello spettacolo per atti e scene. L’allestimento citò inoltre puntualmente un segmento dell’Ignazio in Monserrato, «azione tragicomica» di Vincenzo Guinigi rappresentata al Collegio romano nel 1623.
Per la visita fiorentina di Leopoldo V, arciduca d’Austria e conte del Tirolo, Salvadori scrisse quattro intermedi in musica su tematiche celebrative della casa d’Austria (gli Intermedi rappresentati nelle nozze del Serenissimo Arciduca Leopoldo d’Austria e della Serenissima Principessa Claudia di Toscana), eseguiti agli Uffizi il 20 gennaio 1626 tra gli atti di una commedia pastorale. Elaborò poi La Giuditta, musica di Gagliano e scene di Parigi, rappresentata il 26 settembre 1626 per la visita fiorentina dei cardinali Francesco Barberini e Giulio Sacchetti. Con quell’opera continuò il filone sacro inaugurato nel 1624 e ripropose le scelte compositive della Regina Sant’Orsola, trattando però in maniera più ariosa le parti solistiche e aggiungendo alcuni inserti comici. Il lavoro dovette influenzare la produzione drammatica di Giulio Rospigliosi (Fabbri, 2003, pp. 47-49). In occasione dello spettacolo il testo non fu pubblicato, ma una copia manoscritta fu inviata da Maria Maddalena d’Austria a Urbano VIII, per poi rimanere nella biblioteca pontificia (Roma, Biblioteca apostolica Vaticana, Barb. lat. 3839, cc. 66-95, Barb. lat. 3807, una copia donativa della Regina Sant’Orsola). Nel carnevale 1628, per le nozze del duca Jacopo Salviati con Veronica Cybo, scrisse Il serraglio degli amori, breve spettacolo epitalamico dato a Massa; negli ultimi anni della carriera Salviati fu uno dei suoi principali committenti al di fuori della corte medicea.
Finita la reggenza nel luglio del 1628, Salvadori scrisse La Flora, favola per musica che segnò un ritorno all’ambientazione mitologica delle origini; rispetto alle prime prove del genere operistico registrò un’ulteriore tendenza dei brani solistici verso lo stile arioso, un più ampio impiego dei cori e l’innesto di scene comiche. Ultimo spettacolo ospitato agli Uffizi, fu allestito il 14 ottobre 1628 per le nozze di Margherita de’ Medici e Odoardo Farnese, con musiche di Gagliano e Peri (per la sola parte di Clori) e scene di Parigi (e non di Alfonso, che firmò solo le incisioni allegate all’edizione a stampa del testo). Nell’occasione il poeta elaborò anche l’abbattimento equestre La disfida d’Ismeno, di ispirazione tassiana, rappresentato il 17 ottobre nell’anfiteatro di Boboli, con scene di Parigi.
In seguito l’attività spettacolare di corte calò e nei tre anni seguenti Salvadori ottenne le commissioni più prestigiose ancora dalla granduchessa Maria Maddalena (morta nel 1631): per la visita livornese di Maria Anna d’Asburgo, infanta di Spagna e nipote della sovrana, scrisse l’intrattenimento canoro Gli applausi del Sole e di Anfitrite, eseguito il 21 luglio 1630; per le nozze dell’infanta con l’erede al trono imperiale, Ferdinando Ernesto, celebrate il 26 febbraio 1631, creò La selva d’Armida (ancora una volta un episodio della Gerusalemme liberata), «balletto a cavallo fatto in Vienna» (documentato soltanto nelle Poesie postume di Salvadori). Il 28 febbraio 1632 chiese a Giovan Carlo de’ Medici di diventare suo stipendiato e il principe acconsentì all’istanza, mettendolo «al ruolo de’ nostri Gentiluomini» (Archivio di Stato di Firenze, Mediceo del principato, 5178, c. 54r). Scrisse infine il testo per una rappresentazione in musica, allestita il 25 febbraio 1634 nell’abitazione fiorentina del duca Salviati in via del Corso, ultima messinscena a lui riconducibile su base documentaria.
Nel frattempo il poeta aveva intrapreso l’iter burocratico per accedere alle magistrature fiorentine. Tra il maggio e il giugno del 1628 ottenne la cittadinanza fiorentina, prendendo residenza nel quartiere di S. Croce e dotando la propria famiglia di stemma nobiliare. In settembre entrò nel Collegio dei Buoniuomini; il 1° settembre 1629 fu eletto tra i Nove conservatori del dominio e della giurisdizione; il 1° marzo 1630 ottenne un incarico annuale presso i Capitani di parte, reiterato l’anno successivo; il 1° giugno 1631 ricevette una carica all’ufficio delle vendite e decime. Entro il 1630 sancì la posizione raggiunta con l’elezione nel Consiglio dei Duecento.
In quel periodo sposò Emilia di Bartolomeo (in alcuni documenti indicato anche come Baccio) Rigogli: il matrimonio fu celebrato il 1° dicembre 1628 in S. Salvatore in Ognissanti. Emilia apparteneva a una famiglia benestante, i cui esponenti detenevano da decenni incarichi presso le magistrature fiorentine; era sorella di Benedetto, che in seguito si sarebbe distinto come letterato, pubblico funzionario dell’amministrazione cittadina e segretario del principe Giovan Carlo. Dall’unione nacquero Francesco (11 ottobre 1630), Jacopo (22 ottobre 1631) ed Emilio (15 dicembre 1633). La moglie morì il 16 dicembre 1633 e fu sepolta in S. Simone. Il 4 marzo 1634, in S. Stefano al Ponte, Salvadori si risposò con Alessandra Furini, figlia di Filippo, noto ritrattista e attore dilettante con il nome d’arte di Pippo Sciamerone, e sorella dell’amico pittore Francesco. Malato di podagra da alcuni anni, il 22 agosto 1634 dettò testamento, lasciando eredi i tre figli.
Morì a Firenze il 24 agosto 1634; fu sepolto in S. Simone.
Il primogenito Francesco, anch’egli poeta, curò, con il patrocinio di Leopoldo de’ Medici, la pubblicazione in tre tomi dell’opera omnia paterna presso l’editore romano Michele Ercole, dedicandola al granduca Ferdinando II: le Poesie (1668), in due volumi, comprendenti anche i lavori teatrali, e le Epistole eroiche (1669). Queste ultime, da Andrea considerate il proprio capolavoro, erano invettive e lamenti di argomento amoroso o guerresco, in forma di capitolo in terza rima, di soggetto ariostesco e tassiano: il genere, tratto dalle Heroides di Ovidio, fu molto diffuso nel Seicento e strettamente connesso con la fortuna del lamento in ambito operistico. Negli anni Ottanta, con l’appoggio di Antonio Magliabechi, il secondogenito Jacopo tentò un progetto di ristampa dei lavori paterni con l’aggiunta di materiale inedito, rimasto irrealizzato. In seguito, intorno alla figura di Salvadori si diradò l’interesse. Fu ricordato dai posteri in maniera marginale: le notizie riportate dagli eruditi furono quelle preposte dallo stampatore al volume I delle Poesie, cui si intrecciarono le note redatte dall’Eritreo nella Pinacotheca (1643) e da Sforza Pallavicino nelle Vindicationes Societatis Jesu (1649). Questi studiosi delinearono l’immagine di Salvadori, poi tramandata fino ai nostri giorni, come poeta minore, autore di testi teatrali di soggetto religioso e agiografico e di composizioni tragico-devozionali.
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