VALIER, Andrea
– Nacque a Venezia l’11 settembre 1615 da Giulio di Sebastiano, appartenente a un ramo minore dei Valier, e da Elisabetta Priuli di Bernardo. Fu il primogenito di cinque figli maschi (Bernardo, Bertuccio, Massimo, Marco) di una famiglia di modeste possibilità patrimoniali.
Probabilmente assai desideroso di riscatto e di promozione sociale, e provvisto di capacità e attitudini variegate, «non ammogliato», senza ricoprire ruoli diplomatici o altri incarichi di governo territoriale solitamente appannaggio delle casate più in vista, costruì pazientemente il suo prestigio e credito nell’oligarchia veneziana. Lo fece, a detta di un informato e anonimo osservatore contemporaneo del patriziato veneto, «colla forza de’ talenti naturali», procedendo «a scaglione per scaglione», «intendente delle materie più delicate e difficili», dedito al lavoro e «moderatissimo», e al contempo «scaltro cortigiano» in grado di intendere e d’impadronirsi della «forza delle leggi» e di conoscere «le cose antiche e presenti della sua patria» (Relazione dell’anonimo, in P. Molmenti, Curiosità di storia veneziana, 1919).
Ricoprì pertanto nella sua vita diversi ruoli di governo, con una serie impressionante di incarichi iniziata nel 1640 e nel 1641 con il saviato agli Ordini e come governatore di nave armata a partire dal 31 agosto 1646, con la guerra di Candia già iniziata. In seguito fece parte degli avogadori del Comun (1649-53) e dei cinque savi di Terraferma (1654-57); fu anche savio del Consiglio (1657-58, 1661-64, 1677-88), consigliere del sestiere di Dorsoduro (1659-60), inquisitore all’Armata (16 ottobre 1660), provveditore generale delle tre isole (Corfù, Zante e Cefalonia, 1666-68), consigliere del sestiere di S. Marco (1669-70), inquisitore di Terraferma (1671), provveditore generale da Mar (1671-75), senatore (1675-79), correttore alle Leggi (1677), correttore della Promissione ducale (20 gennaio 1684 e 28 marzo 1688).
Gli fu proposto verso la fine della guerra di Candia di trattare la pace come ambasciatore a Istanbul, ma egli, con un comportamento anomalo nel costume politico corrente, rifiutò l’incarico per poi avanzare, a conflitto terminato, la sua candidatura a bailo veneziano. La richiesta non solo non ebbe seguito ma non mancò di ingenerare nei suoi confronti un temporaneo risentimento in alcuni membri del patriziato che trovarono «improprio affettare nella bonaccia un impiego che ricusò nel corso della tempesta» (La copella politica..., a cura di V. Mandelli, 2012, p. 72).
Nonostante questo incidente di percorso, ottenne con largo consenso l’incarico di guidare il provveditorato generale da Mar dal 29 agosto 1671 al 26 aprile 1675. Molto attivo, si diede a riorganizzare una flotta duramente provata dall’esito infelice della guerra di Candia, da poco conclusasi con la pace del 6 settembre 1669. In tale opera, a fronte di una flotta veneziana divisa in Armata sottile e Armata grossa, si trovò ad avversare tutti gli investimenti che potessero stornare le risorse destinate alla prima, formata essenzialmente dal naviglio più agile e da alcune galeazze, a differenza della seconda più massiccia e a forte componente velica.
In particolare, manifestò un’opposizione soprattutto verso le cosiddette navi pubbliche raddobbate e di grandi dimensioni dell’Armata grossa, considerate da lui assolutamente inadatte a contrastare i corsari che infestavano il triangolo costituito dal basso Adriatico, il Peloponneso e le coste calabresi, in un periodo peraltro caratterizzato da forti attriti con la marineria francese, che pure avrebbe dovuto concorrere a proteggere la navigazione.
Inoltre, fece alcuni tentativi di riorganizzare il traffico convogliato per aumentare la sicurezza dei trasporti commerciali e si dedicò, senza troppo successo, a tentare di orientare e semplificare i movimenti di denari deliberati dal Senato allo scopo di mettere in condizione i capitani di remunerare regolarmente gli equipaggi.
Questo periodo a capo di una gestione delicata della vita commerciale e militare veneziana lo fece comunque divenire un consigliere ascoltato anche dopo la fine del suo mandato, quando ritornò a ricoprire il prestigioso ruolo di savio del Consiglio. Tuttavia, l’assenza di «parentelle sublimi» che altri potevano vantare e che lo faceva assomigliare, secondo un anonimo giudizio, a «una gemma legata in piombo» (ibid.), gli vietò di sperare anche lontanamente nell’ottenimento delle cariche vitalizie della Repubblica come la procuratia di S. Marco o addirittura di candidarsi al dogato.
Valier fu l’autore di una Historia della guerra di Candia (in Venetia, presso Paolo Baglioni, 1679), dedicata al doge Alvise Contarini, che rappresentò senza dubbio un’alta e originale riflessione nel panorama della storiografia a lui contemporanea.
Le esperienze personali nella partecipazione alla guerra e nelle fasi di impegno in mansioni marittime risultarono decisive nella composizione dell’opera. Scevro dall’uso di toni encomiastici e apologetici dei comportamenti bellici e diplomatici veneziani, metodologicamente intenzionato a guardarsi «dalla troppa speranza e dal troppo timore» (p. 3), egli già nell’introduzione rivelò la sua predilezione per un atteggiamento moderato e realista. Presentò, infatti, la venticinquennale guerra contro i turchi per il possesso dell’isola di Creta (1644-69) come un evento nefasto e onerosissimo, dopo un settantennio di relazioni veneto-turche improntate alla pace, che andava analizzato all’interno del contesto generale della politica estera repubblicana, senza pertanto porre sotto silenzio i termini di isolamento di Venezia presso le potenze cristiane europee. In molti passi della sua narrazione storica possono verificarsi continuamente gli echi di una competenza e sensibilità istituzionale unitamente a una ferma volontà di collocare la guerra come tragedia collettiva di enormi proporzioni nella vicenda storica seicentesca della Repubblica di S. Marco. Con un linguaggio talvolta al limite della crudezza Valier ricostruì impietosamente, sin dal tardo Cinquecento, le tappe del decadimento delle capacità previsionali e di amministrazione delle attività militari venete, illustrando lucidamente un degrado aggravatosi nel tempo, intriso di colpevole incuria. Come quando, per esempio, indicava le inadempienze e le lentezze della logistica e dei soccorsi oppure ricordava le puntuali e abbandonate disposizioni circa la costituzione e l’aggiornamento dei registri di immatricolazione del personale da imbarcare. Non tralasciò di descrivere i momenti topici più gloriosi, che effettivamente non mancarono, né la scelta veneziana nel favorire una strategia marittima in grado di impedire i rifornimenti in uomini e mezzi alle truppe turche nel tentativo di fiaccarne le operazioni terrestri favorendo così la resistenza e il morale degli assediati, soprattutto nella città chiave di Candia. Nella sua storia Valier diede lucidamente conto dell’intenso dibattito all’interno del patriziato, innescatosi soprattutto dopo la fine delle campagne navali di Lazzaro Mocenigo sino alla conclusione nel 1669. Accanto ai sostenitori più accaniti dell’importanza della difesa dell’isola, tra i quali il doge Giovanni Pesaro (1658-59), vennero proposti tutti i passaggi dell’aspro confronto tra i bellicisti e i «pacifisti», ovvero coloro che accomunavano la difficoltà della tenuta militare e marittima veneziana, con l’amara constatazione del fallimento della serratissima iniziativa diplomatica iniziata nei congressi di Westfalia, nel disperato tentativo di reperire risorse adeguate dai sovrani e principi cristiani d’Europa, giunte in realtà scarsissime e in modo asincrono rispetto alle concrete esigenze belliche. A questo riguardo nella struttura della sua narrazione Valier manifestò ripetutamente numerosi elementi di personale perplessità sulla reale possibilità di conservare l’isola e l’intima convinzione che la guerra fosse stata un cimento inutile, un punto d’onore finanziariamente gravosissimo e simbolicamente poco significativo, e che alla fine il «regno di Candia» fosse uno «stato d’apparenza» più che di sostanza.
Egli però non si limitò a un’illustrazione meticolosa, quasi maniacale, degli avvenimenti bellici nell’indicare gli errori di valutazione dei comandanti militari nell’individuare gli obiettivi praticabili, ma si avventurò anche nell’indagare i tratti del contesto politico generale. In questa prospettiva sottolineava la precarietà delle alleanze tra i cristiani ad ampio raggio, evidenziando peraltro le sue inclinazioni filospagnole e le profonde perplessità anticuriali nel disapprovare, per esempio, le ambiguità e le arroganze militari francesi oppure la tracotanza delle contropartite papali dai risvolti lesivi per la giurisdizione veneziana nel pretendere l’abolizione delle leggi repubblicane oppure l’assenso al reingresso della Compagnia di Gesù a Venezia, che lo trovò notoriamente fierissimo oppositore.
Infine, nell’Historia si possono ritrovare interpretazioni dell’importanza da lui attribuita alla conflittualità sociale allorquando affermava che l’elemento principe della caduta di Candia fosse dovuto al regime di miope oppressione a cui la nobiltà veneta aveva sottoposto le popolazioni cretesi che, di conseguenza, non si erano mostrate collaborative nel resistere all’urto delle armate degli occupanti turchi.
Valier, sebbene non si abbiano informazioni precise sulla sua formazione culturale giovanile, ebbe tuttavia interessi eruditi spiccati, probabilmente coltivati nel tempo da autodidatta. Ne è prova una biblioteca personale di quattrocentoquarantadue opere inventariate il 10 giugno 1689 nella quale si possono reperire peraltro due tomi di scritti sarpiani e un’edizione del Dominio del mar Adriatico ragionevolmente attribuibile anch’essa al servita. In verità, stimato pubblicamente come buon redattore di ‘lettere’ ufficiali, coltivò anche, sommessamente, una passione per la poesia che lo portò invano a raccomandare agli eredi nel suo testamento, redatto il 31 marzo 1690, di procedere dopo la sua morte alla pubblicazione dei suoi componimenti.
Ritiratosi dalla vita pubblica nell’autunno del 1688 morì a Marano Lagunare (Udine) il 27 settembre 1691.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Venezia, Misc. Codd., s. 1, 20, Storia veneta: M. Barbaro - A.M. Tasca, Arbori de’ patritii veneti, VII, n. 30, c. 175; Notarile, Testamenti, b. 1166/32; Venezia, Biblioteca del Museo Correr, Correr 731: A. Valier, Discorsi accademici e poesie varie; Udine, Biblioteca civica Vincenzo Joppi, Manin 801, c. n.n.; Relazione dell’anonimo, in P. Molmenti, Curiosità di storia veneziana, Bologna 1919, pp. 382-384; La copella politica. Esame istorico-politico di cento soggetti della Repubblica di Venezia (1675), a cura di V. Mandelli, Roma 2012, pp. 11 s., 23, 72 s., 186-189.
E.A. Cicogna, Delle inscrizioni veneziane, V, Venezia 1842, pp.173 s.; V. Marchesi, A. V. e la sua storia della guerra di Candia, in Atti dell’Accademia di Udine, s. 2, VIII (1889), pp. 5-15, 28; M. Nani Mocenigo, Storia della Marina veneziana da Lepanto alla caduta della Repubblica, Venezia 1935, ad ind.; G. Candiani, Conflitti di intenti e di ragioni politiche, di ambizioni e di interessi nel patriziato veneto durante la guerra di Candia, in Studi veneziani, n.s., XXXVI (1999), pp. 145-275; D. Raines, Dopo Sarpi. Il patriziato veneziano e l’eredità del servita, in Ripensando Paolo Sarpi, a cura di C. Pin, Venezia 2006, pp. 607 s., 611; G. Candiani, I vascelli della Serenissima. Guerra, politica e costruzioni navali a Venezia in età moderna, 1650-1720, Venezia 2009, ad ind.; Id., Dalla galea alla nave di linea. Le trasformazioni della marina veneziana (1572-1699), Novi Ligure 2012, ad ind.; P. Preto, Venezia e i Turchi, Roma 2013, p. 109.