VENDRAMIN, Andrea
VENDRAMIN, Andrea. – Nacque a Venezia nel 1400, figlio secondogenito di Bartolomeo Vendramin e di Maria Michiel.
All’inizio del XV secolo il padre era in età avanzata e già al secondo matrimonio; morì quando Andrea era in tenera età (1402). Lui e il fratello maggiore Luca vennero dunque cresciuti dalla famiglia materna, di antica e riconosciuta stirpe patrizia. Nel 1426 Andrea sposò Regina Gradenigo, di discendenza ducale, e da lei ebbe Bartolomeo, Nicolò, Alvise, Giovanni Francesco, Paolo e Girolamo; altrettanto numerosa fu la prole femminile con Felicita, Orsa, Clara e Taddea (e forse altre due figlie, Angela ed Elena).
I Vendramin dovevano le loro fortune all’intraprendenza dell’omonimo avo Andrea. Di origine friulana, questi aveva raggiunto un’agiatezza economica, già a metà Trecento, grazie al commercio di derrate alimentari. In virtù dello status cittadinesco, divenne quindi guardian grande della Scuola Grande di S. Giovanni Evangelista: fu lui, infatti, il protagonista del miracolo della croce caduta in un canale durante la processione del 1370. Il finanziamento di uomini e galee accordato alla Repubblica durante la guerra di Chioggia garantì ai Vendramin di rientrare fra le trenta famiglie ‘popolari’ ammesse al patriziato il 4 settembre 1381.
Entrato tra i ranghi del patriziato il 3 dicembre 1418, il giovane Vendramin si trovò presto coinvolto in uno scandalo molto grave: assieme al fratello Luca fu accusato di sodomia, ma il 16 marzo 1419 il Consiglio dei dieci, che aveva sostenuto l’accusa, lo scagionò.
Da circa un decennio, infatti, il potente collegio aveva intrapreso azioni sempre più frequenti nella repressione di un crimine avvertito come una piaga da estirpare. Lo Stato veneziano, inoltre, si trovò impreparato sul da farsi, giacché le indagini del 1408 e del 1418 coinvolsero un gran numero di rampolli del ceto dirigente, di esponenti della gerarchia ecclesiastica e delle arti di mestiere.
A lungo Vendramin non ebbe cariche importanti, se non negli ultimi anni, quando la sua vita ebbe una svolta inaspettata. Caposestiere per Cannaregio nel 1422, lo si ritrova poi eletto stabilmente al Senato non prima del 1440 (sino al 1453). Rade furono le missioni all’estero, mentre non risulta avere egli svolto rettorati dentro e fuori l’area del dogado.
La tradizione più tarda ha motivato tale curriculum, fin troppo carente per gli standard della Serenissima, con l’isolamento promosso dalle altre famiglie a motivo della recente ascrizione al patriziato dei Vendramin. Certo, lo stigma del processo subito in età giovanile non dovette rivelarsi d’aiuto nella creazione di una solida rete di appoggi politici. Tuttavia è tutt’altro che esclusa un’altra motivazione, se è vero che assai alacremente i due fratelli si occuparono dei loro traffici in questo torno di anni, assorbiti com’erano dal commercio della seta e del grano, e dalla produzione di sapone.
Tra il 1449 e il 1450, inoltre, egli si distinse per la grande cautela adottata nel ruolo di consigliere dei Dieci, soprattutto riguardo ad alcuni casi di sodomia; un silenzio, questo, reso sospetto dal fatto di occupare la carica di capo del Consiglio proprio in tali occasioni (aprile 1450).
Anche a motivo di una controversia giudiziaria contro un cassiere del banco Soranzo (Ludovico Venier), nel 1454 Luca e Andrea Vendramin si fecero travolgere dalla crisi bancaria che attanagliava la città lagunare da qualche tempo. Fra l’ottobre dello stesso anno e i primi mesi del 1455, in ogni caso, Andrea continuava a investire nel lucroso approvvigionamento di frumento con altri soci (Benedetto Morosini e Francesco Valier), al punto da risultare creditore verso i Provveditori alle biade.
Gli anni Cinquanta videro un maggiore coinvolgimento del nostro nella gestione della cosa pubblica. Consigliere ducale nel 1454-55, 1458 e 1466, seguitò (nuovamente) la sua partecipazione all’attività dei Dieci dal 1455 al 1457 anche in qualità di capo e inquisitore. La sua attività politica si intensificò dunque negli anni, pur restando lontana la smania di protagonismo propria dei patrizi in vista come lui.
A partire dal dogado di Pasquale Malipiero (1457-62), la presenza di Andrea Vendramin fra gli elettori dogali o fra i correttori della promissione divenne un appuntamento fisso; inoltre i suoi interventi in Senato nella veste di savio del Consiglio (1463-66) – spesso dedicati alla materia economica – si caratterizzarono per il loro equilibrio. Alla fine di giugno del 1467 gli giunse la nomina a procuratore di S. Marco de citra. Quest’ultima carica, comunque, non impedì a Vendramin di essere scelto, assieme a Ludovico Foscarini, per un’ambasciata presso il pontefice veneziano Paolo II; ma entrambi, in non buone condizioni di salute, rinunziarono. Negli anni successivi si fece notare per l’audace amministrazione delle risorse, e il 24 febbraio 1474 il Maggior Consiglio vietava ai procuratori di S. Marco di investire i beni loro affidati «in colliganciam» (Archivio di Stato di Venezia, Maggior Consiglio, reg. 23, c. 135r).
Il 5 marzo 1476 Vendramin venne investito dell’autorità dogale, pur sotto le critiche di Filippo Tron dovute – ancora una volta – alla recente nobiltà del nuovo doge. La conosciuta ricchezza gli consentì di festeggiare l’evento distribuendo grandi quantità di denaro alla folla che lo acclamava in piazza S. Marco.
Nel frattempo Venezia aveva dovuto affrontare la prima difficile guerra con i turchi, a partire dal 1463.
Furono soprattutto i fiorentini a istigare Maometto II contro lo Stato da Mar veneziano, giacché minacciati in quel tempo dall’armata di Bartolomeo Colleoni, indirettamente foraggiata dalla Repubblica e ormai sul punto di varcare l’Appennino tosco-romagnolo. Il sultano ottomano da Costantinopoli minacciava di muovere contro la cristianità occidentale, in specie contro i territori veneziani. La crociata indetta a metà ottobre del 1463 da Pio II era stata un fuoco di paglia, e aveva costretto la sola Serenissima ad aprire il conflitto, invadendo la Morea l’anno seguente.
Dopo alterne vicende, la guerra terminò con la pace stipulata il 25 aprile 1479: Venezia fu costretta a cedere Argo, Negroponte e Scutari e accettò di pagare diecimila ducati annui in cambio dell’autorizzazione a trafficare nelle terre dell’Impero.
Durante i due anni del suo dogado, Vendramin perorò nei principali consilia veneziani diversi interventi su questioni in materia di traffici, tributi e mutui. Si spese con grandi energie per raccogliere denaro contro il nemico ottomano, anche garantendo in prima persona i prestiti concessi alla Serenissima dai Soranzo dal Banco. Sempre attivissimo nella concessione di grazie, non appare mai fra i proponenti di pena nei processi al condannato di turno.
La vicenda del figlio Bartolomeo, bandito e in esilio nel feudo di Latisana, gettò qualche ombra sulla sua irreprensibilità. Anni dopo la condanna, nel 1477 Vendramin non fece nulla per impedire al figlio di tornare a Venezia contro i dettami della legge. Difatti, agì fermamente solo dopo che la questione era stata posta con grave scandalo da Ludovico Lando (savio di Terraferma) in Senato.
Il vecchio doge si spense la notte del 6 marzo 1478. Nel testamento nominò eredi universali, di una fortuna stimata attorno ai 160.000 ducati, i figli maschi superstiti e il nipote Daniele. Inoltre, chiese di essere sepolto in un’arca marmorea presso S. Maria dei Servi.
Uomo poco incline alla politica ma risoluto nel difendere quanto restava del dominio marittimo veneziano, Andrea Vendramin rappresentò il punto di non ritorno – molto più del nonno – per la piena integrazione della famiglia nell’alveo del patriziato veneziano. La sua breve esperienza sul trono accordò al successore una nuova prerogativa sul controllo dell’esazione fiscale. Si trattò di una conquista di tutto rispetto, infatti, per un documento (come la promissione ducale) atto a contenere più che ampliare i poteri del doge ormai da quasi tre secoli.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Venezia, Avogaria di comun, Balla d’Oro, regg. 162-I, c. 153r, 163-II, c. 27r, 164-III, c. 346r; Collegio, Notatorio, regg. 8, c. 16v; 9, cc. 14r, 15rv, 16rv, 17v, 19v-20v, 21v, 23r-24v, 33r, 39v, 41v, 121v-122r, 123v, 124r, 126v, 127v, 128r-130r, 131r-132v, 133v-135r, 136r-141r, 142r-143r, 154r; 10, cc. 141v-142v, 143r-144r, 146rv, 148rv, 150r, 151r-154v, 155v-157r, 158r; 11, cc. 69r, 70r, 119r, 122v, 124v; Consiglio di dieci, Deliberazioni miste, regg. 13, cc. 44v, 150v, 155v, 159v, 165v-166v, 167v-168v, 176v, 177v-178r, 181v-183r, 185r, 186r; 14, cc. 8r, 9r; 15, cc. 33r-34r, 40rv, 52r, 54rv, 56r-61r, 67r, 72r-73v, 74v, 190r, 111r-113r, 116v, 119r, 123r-126v, 128r, 131v, 134v-137v; Maggior Consiglio, reg. 23, cc. 22v-23v, 45rv, 76r, 104rv, 107rv, 108r, 125v-126r, 128v, 135r, 150v, 151r, 162v-163r, 165v, 179r, 180v-185r; Miscellanea codici, Storia veneta, b. 23, f. 202; Miscellanea ducali e atti diplomatici, b. 18, filza B, n. 15; Notarile Testamenti, b. 870 (reg. prot. di Pietro de Rubeis), cc. 74r-77r; Senato, Deliberazioni, Terra, regg. 5, cc. 46rv, 48r, 50v, 52r, 60r, 63r, 104v-105r, 109v, 112v, 113v, 119v, 123v, 145r, 146v, 151rv, 152v-153r, 154v-155r, 156v, 158r; 7, cc. 109r, 151r-152v. M. Sanudo, Vite de’ duchi di Venezia, in RIS, XXII, Mediolani 1733, coll. 1203-1207; D. Malipiero, Annali Veneti, in Archivio storico italiano, VII (1843), 1, pp. 5-118; Raphayni de Caresinis, Chronica, A.A. 1343-1348, a cura di E. Pastorello, in RIS, XII, 2, Bologna 1938-1958, p. 57; Daniele di Chinazzo, Cronica de la guerra da veniciani a zenovesi, a cura di V. Lazzarini, Venezia 1958, pp. 75, 207.
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