JACKSON, Andrew
Settimo presidente degli Stati Uniti, nato il 15 marzo 1767 in una piantagione nella Carolina del Sud, morto nella sua villa dell'Eremitaggio (nel Tennessee) l'8 giugno 1845. Il padre, un emigrato irlandese proprietario di una piccola fattoria, morì poche settimane prima che egli nascesse; raccolto dai parenti della madre, visse tra i pionieri la vita primitiva della "frontiera", e giovinetto si unì a una banda che guerreggiava contro gl'Inglesi, e prese parte al fatto d'armi di Hanging Rock (1780). Finita la guerra d'indipendenza, J. si stabilì a Salisbury e si dedicò allo studio delle leggi. Nel 1787 fu ammesso alla pratica di avvocato; ed egli cominciò allora la sua carriera di speculatore di terre, mercante di cavalli e di schiavi, volontario nella guerriglia con gl'Indiani e uomo politico negli uffici pubblici locali.
Furono anni oscuri, trascorsi nei territorî selvaggi che sono oggi del Tennessee, in un mondo sociale in formazione, nel quale estremi erano gl'istinti alle soluzioni individuali di violenza e debolissima l'autorità dei poteri pubblici. Ma, pronto d'animo e di mano, J. negli uffici che tenne, mostrò decisione e coraggio; e da queste sue esperienze trasse la sua sconfinata fiducia nei valori dell'azione, l'insofferenza di ogni vincolo alla sua libertà.
Eletto nel 1796 alla Camera dei rappresentanti, egli si unì subito a quel gruppo di repubblicani estremisti, che sotto la guida di Macon e di Randolph, conducevano un'aperta campagna contro il governo di Washington, e fu dei più intransigenti, ché nel regime federalista egli vedeva un regime di aristocrazia e rinnegati gl'ideali della rivoluzione. L' anno seguente fu eletto al senato, ma non vi restò che pochi mesi. Pugnace e intollerante e non potendo quasi parlare perché, come lasciò detto Jefferson, la rabbia gli saliva alla gola, le assemblee legislative non facevano per lui. Tornò dunque nel Tennessee e fu nominato (1797) giudice della corte suprema dello stato: tenne questo ufficio fino al 1804. Nel 1805 venne a contatto con Aaron Burr, che lavorava allora ai suoi progetti d'invasione del Messico. Burr pensò di servirsi della sua popolarità e delle sue capacità militari. J. esitò a prestar fede all'accusa che egli nutrisse sinistri disegni sull'Unione. Pure, quando Jefferson ordinò l'arresto di Burr, J., allora capo della milizia locale, si mise agli ordini del presidente, pronto a difendere l'Unione. J. era allora uno degli uomini più popolari del West, e se, rissoso e manesco, finiva col trovarsi continuamente impegnato in dispute di onore e di armi, era pure il primo ad accorrere se gl'Indiani attaccavano e a reprimere ogni abuso. Gli uomini della milizia avevano in lui una fiducia idolatra, e nella campagna del 1813 egli li condusse vittoriosamente contro le tribù Creek. Nominato generale nell'esercito regolare, l'anno dopo s'impadronì di Pensacola, dove gl'Inglesi avevano stabilito una base, e l'8 gennaio 1815 riportò sugl'Inglesi alla Nuova Orleans una segnalata vittoria. Questa stabilì definitivamente la sua reputazione di soldato. La campagna che egli condusse nel 1818 contro le tribù dei Seminoles, la sua invasione nei territorî spagnoli, la decisione fulminea dei suoi atti, che dovevano mettere il governo americano nelle più gravi difficoltà, ma che servirono ad affrettare la cessione della Florida, fecero di lui una delle più grandi figure nazionali.
Nel 1821 egli fu nominato governatore della Florida, e nel 1824 candidato alla presidenza della repubblica. Alle elezioni raccolse il maggior numero di voti, ma non la maggioranza assoluta, e investita la Camera dei rappresentanti di nominare il presidente, questa scelse John Quincy Adams. Ma, nelle elezioni del 1828, J. battè facilmente Adams e il 4 marzo 1829 assunse il governo.
Trionfava con lui il movimento che doveva abbattere il potere dell'aristocrazia terriera, distruggere le ultime vestigia del privilegio politico, spezzare il monopolio finanziario con il quale il federalismo aveva creato un capitalismo nazionale americano. Due nuove forze aveva dietro di sé: gli stati che si erano venuti formando nella zona della frontiera e spingevano vigorosamente innanzi la politica del livellamento sociale, e le popolazioni operaie che lo sviluppo industriale del paese andava ammassando nelle città. Questo spiega perché alle vecchie classi, che avevano per quarant'anni tenuto il potere, la sua elezione sembrasse soprattutto la vittoria della plebe. J. aveva allora 62 anni. Era il rappresentante più tipico della "frontiera" che fosse mai entrato alla Casa Bianca, il vero capo popolaresco odiatore di ogni forma di aristocrazia, con un profondo senso patriottico, ma nessun rispetto per le istituzioni, e una sola nozione ben chiara, che egli era al comando dello stato. Democratico, di una concezione così estrema dei diritti del popolo quale non si era mai prima conosciuta nel governo americano, egli aveva poi una concezione, delle più estensive, dei diritti costituzionali del presidente, nella cui figura egli vedeva soprattutto l'eletto della volontà popolare. Coincideva questa sua concezione con le tendenze popolari dirette a un rafforzamento del potere esecutivo e a un indebolimento del potere legislativo, che rappresentava la tradizione dell'aristocrazia parlamentare rivoluzionaria della grande proprietà terriera e della grande banca; e le correnti democratiche, battendosi perché la forma di questa aristocrazia fosse limitata, naturalmente si appoggiavano sul presidente e sopra un più largo esercizio dei suoi poteri.
Il suo programma J. fissò in questi punti: obbedienza alla costituzione e mantenimento dell'Unione, rispetto dei diritti degli stati, pagamento del debito nazionale, niente imposte dirette e prestiti; rotazione negli uffici pubblici, in modo da spezzare il sistema d'interessi burocratici creato o consolidato da Adams. Il suo primo atto di governo fu infatti la distribuzione ai suoi seguaci degli uffici dello stato; "sistema delle spoglie" che Jefferson aveva inaugurato, e che era destinato a rafforzare l'organizzazione del partito.
J. tenne la presidenza della repubblica dal 1829 al 1837. Tre furono i grandi problemi di fronte ai quali egli si venne a trovare: le tariffe doganali, la distribuzione delle terre occidentali e il regime bancario. Negli stati del nord, quando egli assunse il governo, il movimento antiprotezionista era già in pieno sviluppo, e Calhoun, vicepresidente nel suo stesso governo, aveva già esposto i primi principî della teoria dell'annullamento. J. si trovò a dover lottare contro questa teoria, nella quale egli vide acutamente i germi di una crisi secessionista. Calhoun cercò di attirarlo nel suo piano, ma egli si oppose a ogni interpretazione dei diritti degli stati, che intaccasse il vigore dell'Unione federale, e quando nel 1832 la Carolina del Sud approvò l'ordinanza, con la quale si dichiarava nulla, agli effetti dei suoi cittadini, la legge tariffaria, egli si dispose subito a impiegare la forza per piegare quello stato all'obbedienza. Fu allora che Clay intervenne e si giunse a un compromesso sulle tariffe; ma J. ebbe dal Congresso l'autorizzazione all'impiego della forza per esigere le imposte dovute (Force Act). Del resto questo non era che un aspetto della più vasta controversia sui diritti degli stati. Sullo stesso terreno si scontrarono in quegli anni gl'interessi delle vecchie zone coloniali e delle nuove che reclamavano libertà nella distribuzione delle terre pubbliche. Per quanto meridionale e democratico, e quindi duplicemente legato alle teorie più liberali sui diritti degli stati, J. piegò decisamente per gli unionisti.
Ma il conflitto sui diritti degli stati aveva spezzato l'unità del partito repubblicano. Gli elementi conservatori e protezionisti della Nuova Inghilterra si andavano riorganizzando. Nelle elezioni del '32 i jacksoniani si costituirono come partito democratico e gli oppositori, eredi del federalismo hamiltoniano, come partito dei repubblicani nazionali. Questi ebbero come candidato Clay, ma J. lo batté; e vittorioso iniziò la sua lotta contro la Bank of the United States (B.U.S.), alla quale egli era stato sempre avverso, e che ora, avendo Clay fatto del mantenimento della B.U.S. uno dei suoi principî politici, egli era stato spinto ad avversare ancor più decisamente. Le misure prese dal J. provocarono una crisi finanziaria: ne seguì un'aspra polemica e il senato censurò la condotta di J., ma la B.U.S. venne a cessare (1836) e J. riuscì in tal modo a spezzare il monopolio finanziario che essa si era costituita.
Erano intanto andate crollando in quegli anni tutte le ultime limitazioni che garantivano il potere politico alle classi sociali più alte: le basi del diritto elettorale erano stati modificate e il suffragio universale introdotto in tutti gli stati; la separazione della Chiesa dallo Stato più profondamente segnata, la nomina ai pubblici uffici trasferita dalle assemblee legislative ai comizî popolari. Il potere esecutivo si era rafforzato contro il Congresso e lo aveva obbligato a cedere. Era così andata ovunque cadendo la vecchia struttura rivoluzionaria, per un regime di popolo assai più radicale di quello che J. non aveva ai suoi tempi disegnato, regime che è passato alla storia come "democrazia jacksoniana". Nella politica indiana J. seguì il piano jeffersoniano di spingere le tribù verso il Far West. Fra il 1829 e il 1837 molti milioni di acri furono riscattati, molte migliaia di Pellirosse trasferite di là del Mississippi. Una catena di porti militari fu stabilita sulla linea di divisione tra le comunità bianche e le tribù. Di politica estera J. non si occupò affatto. I soli interessi che egli credette di dover proteggere furono quelli del commercio americano nelle Indie Occidentali e il pagamento delle indennità dovute dal governo francese per danni arrecati durante le guerre napoleoniche.
Ritiratosi nel 1837 dall'ufficio di presidente, riuscì grazie alla sua popolarità a far eleggere il suo fido van Buren e si ritirò quindi a vita privata.
Bibl.: Correspondence of A. J., ed. da J. S. Bassett, voll. 4, Washington 1926-28. Fondamentale la biogr. del Bassett: A. J., 2ª ed., Londra 1916. Cfr. anche W. G. Sumner, A. J., 3ª ed., New York 1899; C. H. Peck, The Jacksonian Epoch, ivi 1899; W. Mac Donald, Jacksonian Democracy, ivi 1906; F. A. Ogg, The reign of A. J., 1919; C. G. Bowers, The Party Battles of A. J., 1922.