Andria
Commedia di Publio Terenzio Afro (attivo a Roma nella prima metà del 2° sec. a.C.), rappresentata nel 166 a.C. circa. Negli ultimi decenni del 15° sec., in tutti i centri dell’Umanesimo italiano ci fu grande attenzione nei confronti della commedia latina antica. A Firenze Poliziano dedicò al testo dell’Andria di Terenzio una serie di appunti filologici.
Nelle scuole fiorentine di grammatica i maestri organizzavano con i loro allievi rappresentazioni in lingua originale. Nel 1476 Giorgio Antonio Vespucci fece recitare l’Andria ai suoi discepoli, con repliche in palazzo Medici e poi nel palazzo della Signoria. Sempre a Firenze, sullo scorcio del secolo, un altro maestro, Luca Bernardi da San Gimignano, mise in scena una commedia di Plauto. Anche a Roma e a Ferrara, in quegli stessi anni, l’interesse verso il teatro comico latino era vivo. Ciò trova corrispondenza nel numero elevato di edizioni plautine e terenziane prodotte in Italia in età incunabolistica e nei primi decenni del Cinquecento. In questo quadro non desta meraviglia che il giovane M. si fosse esercitato a ricopiare di suo pugno, insieme al De rerum natura di Lucrezio, il testo dell’Eunuchus di Terenzio in quello che è oggi il ms. Rossiano 884 della BAV. Siamo negli anni di formazione del futuro segretario.
È però soprattutto il volgarizzamento dell’A. a confermare l’interesse di M. nei confronti della commedia antica, e di Terenzio in particolare. M. usò in questo lavoro la prosa e non il verso: un’intuizione che anticipa la scelta della Mandragola, contrariamente all’uso dei commediografi fiorentini di primo Cinquecento, che continuavano a impiegare il verso delle sacre rappresentazioni. Due manoscritti, oggi alla BNCF, il Banco Rari 29 (codice composito che assembla fascicoli di diversa provenienza e vario argomento) e il Banco Rari 240, entrambi autografi, trasmettono rispettivamente la prima e la seconda redazione della traduzione machiavelliana. Questa esperienza sarà fondamentale per la futura attività di M. commediografo. Soprattutto sul testo della Mandragola, il volgarizzamento dell’A. lascerà tracce inconfondibili.
Se è dunque indubbio che il volgarizzamento dell’A. precedette la composizione della Mandragola, resta da stabilire, nell’assenza di qualsiasi informazione documentaria diretta o indiretta, in quale fase della sua attività M. si sia impegnato nel lavoro di traduzione. Negli studi è stata a lungo riconosciuta valida la proposta di Adolf Gerber, formulata nel 1912, di datare la prima redazione del volgarizzamento al 1517 o ai primi mesi del 1518, e non oltre il 1520 la seconda. Ciò conseguiva al riconoscimento della congruenza degli usi grafici delle due redazioni con quelli degli autografi, peraltro scarsi, degli anni compresi tra il 1517 e il 1520. Ma la verifica su un campione più ampio di materiale autografo (Stoppelli 2005), realizzata incrociando i successivi studi sulla grafia di M. (Ghiglieri 1969) con i dati acquisiti da strumenti informatici, avrebbe accertato la mancanza di elementi sufficienti a inscrivere la prima redazione all’altezza del 1517-18: anzi, l’assetto grafico, e anche quello fono-morfologico, della prima A. non si collocherebbe persuasivamente a nessun’altezza dell’arco di tempo compreso tra il dicembre 1497, data a cui risale il primo scritto in volgare conservato di mano del M., e il 1527, anno della sua morte.
Dalla prima A. emergono infatti usi grafici che costituiscono hapax nelle carte di M., come «lhuomini» (c. 196r) oppure, più significativamente, «mai» ‘m’hai’ (cc. 174v, 193r) oppure «to» ‘t’ho’ (c. 178r) e «lo» ‘l’ho’ (c. 192v). Il campione è minimo, ma la natura di queste grafie parrebbe rimandare a una pratica ancora incerta della scrittura volgare da parte del nostro autore.
Per quanto riguarda la seconda A., applicando lo stesso metodo di indagine si viene rinviati agli ultimi anni di vita di M., tra il 1525 e il 1527. Circostanza avvalorata dal fatto che il primo testo registrato nel ms. Banco Rari 240 è la Favola, ovvero la novella di Belfagor, il cui anno di più probabile stesura è proprio il 1526.
Accantonando tuttavia come non dirimente il confronto delle grafie, il tentativo di datare, seppure con approssimazione, il volgarizzamento dell’A. del ms. Banco Rari 29 non può che essere affidato a valutazioni di stile. E in questa prospettiva fa difficoltà riconoscere alla prosa machiavelliana del 1517 (cioè dopo l’esperienza delle migliaia di pagine delle legazioni, delle lettere e delle opere politiche) un andamento incerto come quello che si riscontra nella traduzione originaria. Né a giustificare le goffaggini espressive di cui il volgarizzamento abbonda è sufficiente invocare gli eventuali guasti della fonte. A quest’ultimo proposito è da dire che tutti i luoghi della traduzione di M. trovano riscontro nel testo latino documentato da questo o quel manoscritto o stampa, ma non si è ancora identificato alcun testimone che corrisponda interamente a essi. Neppure si può escludere che M. traducesse avendo a disposizione più fonti.
M. non è un filologo, e forse neppure può essere considerato un letterato di professione, ma all’altezza del 1517 è comunque un umanista con una vasta esperienza di letture in latino, cosa che poco si concilia con una padronanza ancora incerta di quella lingua. Si ha anche l’impressione di una prosa volgare ancora acerba,
di una mano in formazione. Come giudicare infatti la traduzione di questa battuta di Davo: «Egli ha voluto che noi, credendoci questo, ci stessimo con questa falsa allegrezza, sperando, sendo da noi rimossa la paura, di poterci come negligenti opprimere» (c. 177r); il testo latino legge: «Id voluit nos sic necopinantis duci falso gaudio, / sperantis iam amoto metu, interoscitantis opprimi» (vv. 180-81). Il raffronto è di necessità col testo critico di Robert Kauer e Wallace Lindsay (1926), ma in questo luogo non ci sono differenze sostanziali con le edizioni antiche.
È anche difficile immaginare che negli anni della frequentazione degli Orti Oricellari, dopo la stesura del Principe e anche di gran parte dei Discorsi e dopo che la Cassaria (1508) e i Suppositi (1509) di Ariosto e la Calandra (1513) di Bernardo Dovizi da Bibbiena avevano indicato in maniera inequivocabile, con la nascita della commedia erudita, l’orientamento del gusto nei centri più avanzati dell’Umanesimo teatrale, M. si impegnasse in un’attività di traduzione che a quella data non aveva più alcun interesse pratico, né tanto meno valore sperimentale.
Ma c’è anche un argomento di natura esterna che può essere addotto a sostegno della retrodatazione della prima A. agli anni giovanili, in particolare tra il 1494 e il 1498. Simone, padre di Panfilo, accusa in maniera allusiva il servo Davo di aver messo sulla cattiva strada il figlio; il servo finge di non capire le parole del vecchio e per trarsi d’impaccio pronuncia la battuta «Davo’ sum, non Oedipus» (v. 194). Il riferimento è all’abilità di Edipo nello sciogliere gli enigmi. La traduzione della battuta nella prima A. è «Io son Davo, non propheta vel non el frate» (c. 177v). Il profeta ovvero il frate per antonomasia a Firenze negli anni di M. era Savonarola: dunque l’autore approfitterebbe del riferimento a Edipo per attualizzare il testo, come del resto fa più volte anche in altri luoghi. Nella seconda redazione il riferimento al frate scompare: «Io son Davo, non propheta» (c. 19r). Resta improbabile che nel 1517, che è la data proposta da Gerber, a circa venti anni dalla morte sul rogo di Savonarola, dopo che tante cose erano intanto cambiate in Firenze e anche M. viveva la condizione della sconfitta, il volgarizzamento indulgesse in una battuta maramaldesca. Peraltro sia nei Discorsi sia nel Principe la figura di Savonarola emerge con tratti problematici.
Nel passaggio dalla prima alla seconda redazione (ma è probabile che quella che noi consideriamo seconda redazione sia una messa in pulito nel ms. Banco Rari 240 di una riscrittura risalente ad anni precedenti) la revisione riguarda sostanzialmente lo stile.
Tutti gli studiosi dell’A. di M., da Adolf Gerber a Mario Martelli a Brian Richardson, concordano sul fatto che lo scrittore riscrivendo il testo avrebbe fatto ritorno all’originale latino solo in maniera occasionale.
Sono stati in particolare segnalati (Richardson 1973, p. 323) piccoli aggiustamenti nella resa di alcuni termini, che diventano nella seconda A. formalmente più aderenti a quelli latini, ma sono ritocchi di lieve entità.
Ben altro è l’impegno messo da M. nella riscrittura al fine di rendere meno impacciato, più fluido lo stile della sua prosa. Alcuni esempi possono servire a illustrare come lavorò M. in questa fase. A c. 175r del Banco Rari 29 la battuta terenziana di Siro «Ne haec quidem / sati’ vehemens causa ad obiurgandum» (vv. 149-50) venne resa nella prima A. con «Né anchora questa cagione è assai vhehemente ad riprehenderlo»; la traduzione di vehemens con «vhehemente» è calco troppo crudo per essere assorbito dal contesto e infatti M., che non userà mai più ‘veemente’ in tutta la sua opera, modifica in seguito in «potente». A c. 180r della prima A. si legge: «Ma hora è necessariissimo o che io riconcilii costui con quella o che io parli di lei qualche cosa contro ad lui che lo punga»; il fraintendimento del testo latino («Sed nunc peropust aut hunc cum ipsa aut de illa aliquid me advorsum hunc loqui», v. 265) dà luogo a una battuta priva di senso, che M. tentò nel Banco Rari 240 di migliorare («Ma hora è necessariissimo o che io riconcilii costui con quella o che io parli di lei qualche cosa che lo punga», c. 22r), ma il risultato resta comunque poco brillante. A c. 186v la battuta di Birria: «Io ho veduto quella vergine et, se bene mi ricordo, bella», traduzione sgraziata di «ego illam vidi: virginem forma bona / memini videri» (vv. 428-29) viene migliorata nella riscrittura:
«Io ho veduta quella fanciulla et, se bene mi ricordo, è bella» (c. 30r). Non siamo in grado di dire con certezza se il testo latino da cui M. originariamente traduceva fosse manoscritto o a stampa, ma è sicuro, come documenta Fumagalli (1997), che egli nel corso del lavoro di traduzione avesse sottomano il commento a Terenzio di Guido Juvenalis, nome latinizzato di Guy Jouenneaux o Jouvenneaux, umanista francese morto nel primo decennio del 16° secolo. Il che farebbe pensare a una stampa piuttosto che a un manoscritto. Le commedie di Terenzio venivano infatti stampate fin dal 1474 con accompagnamento dei commenti di Donato e Calfurnio (nome umanistico del bergamasco Giovanni Ruffinoni); più tardi si aggiunsero quelli di Juvenalis e di Ascensius (pseudonimo di Josse Bade, nato presso Bruxelles intorno al 1460, poi stampatore in Francia). Sono numerosi i luoghi in cui è evidente che M. traduce non il testo di Terenzio, ma le glosse di Juvenalis. Il segno più vistoso di questa interferenza riguarda il v. 941, dove si legge «nodum in scirpo quaeris», letteralmente ‘tu cerchi il nodo nel giunco’, corrispondente all’italiano ‘cercare il pelo nell’uovo’ (come del resto Vittorio Alfieri nella sua traduzione dell’Andria secoli dopo renderà), che M. tradusse con «tu cerchi cinque piè al montone», che è espressione sconosciuta al toscano e anche al resto d’Italia. In realtà M. traduceva alla lettera la glossa di Guido Juvenalis «tu quaeris in vervece quinque pedes», trasposizione in latino del modo di dire francese: ‘chercher le mouton à cinq pattes’. Ed è interessante notare come questa espressione machiavelliana, pur non essendo affatto fiorentina, fosse ripresa dagli scrittori fiorentini nel corso del Cinquecento (Firenzuola, Cecchi, Varchi), segno che il volgarizzamento di M. ebbe almeno a Firenze una qualche circolazione. Il Vocabolario della Crusca del 1612 l’avrebbe addirittura censita come autoctona, citando l’espressione corrispondente latina («nodum in scirpo quaerere»), ma senza fare riferimento alla mediazione francese.
Fumagalli (1997) e prima di lui Richardson (1973) mostrano come a M. fosse talora d’aiuto anche il commento di Donato. Per es., al v. 390 dell’Andria latina si legge: «nam quod tu speres propulsabo facile», che nella prima A. di M. è tradotto con «Et io quel che tu [speri] temi facilmente confuterò» (c. 185r), dove «temi» è aggiunto nell’interlinea in sostituzione di «speri» cancellato; nel commento di Donato si legge: «sunt qui “speres” pro “timeas” habent».
Al v. 869 Donato, mal interpretando il testo di Terenzio, annota alla voce pietatem: «et est ironia pro impietatem», inducendo M. a tradurre pietatem con «crudeltà», lezione modificata nella seconda redazione in «ribalderia».
L’interesse che ha per M. commediografo l’esperienza di traduzione dell’A. va tuttavia ben oltre l’aspetto erudito, dal momento che proprio attraverso tale impegno lo scrittore apprende dal vivo le regole di composizione delle commedie, dalla distribuzione della materia negli atti alla tecnica dell’azione continua, dalla tendenza ad avvicinare tempo della rappresentazione e tempo reale alle dinamiche ostacolo-superamento. Soprattutto la Mandragola non è pensabile senza l’esperienza dell’Andria. Sono anche numerose le battute del volgarizzamento che ritornano identiche o con minimi aggiustamenti nel capolavoro teatrale machiavelliano. A dare tuttavia il senso dell’importanza che ha per la Mandragola l’esercizio sull’A. basterebbe il raffronto fra le scene d’apertura delle due commedie, quelle cioè che avviano l’intreccio e sono dunque strategiche nell’indirizzarne gli svolgimenti. Sono entrambe scene protatiche, con un personaggio principale che racconta l’antefatto e uno secondario che gli fa da spalla al solo fine di dare apparenza di dialogo a quello che è in realtà un racconto continuo. Ma ciò riguarda la Mandragola, non già l’Andria.
Bibliografia: La prima redazione dell’A. è pubblicata in appendice a P. Stoppelli, La datazione dell’Andria, in Il teatro di Machiavelli, Atti del Convegno, Gargnano del Garda 2004, a cura di G. Barbarisi, A.M. Cabrini, Milano 2005, pp. 147-99 (il testo alle pp. 166-99); si rinvia invece al saggio che precede il testo della commedia per le nuove proposte di datazione. Il testo della seconda redazione è quello stabilito in M. Martelli, La versione machiavelliana dell’Andria, «Rinascimento», II s., 1968, 8, pp. 203-74 (il testo alle pp. 215-74), ora in N. Machiavelli, Opere, 3° vol., a cura di C. Vivanti, Torino 2005, pp. 94-138. La bibliografia specifica sull’A. di M. conta pochissimi titoli; oltre a quelli appena citati: B. Richardson, Evoluzione stilistica e fortuna della traduzione machiavelliana dell’Andria, «Lettere italiane», 1973, 25, pp. 319-38; E. Fumagalli, Machiavelli traduttore di Terenzio, «Interpres», 1997, 16, pp. 204-39. Per un quadro d’insieme del teatro comico nell’età dell’Umanesimo è ancora utile A. Stäuble, La commedia umanistica del Quattrocento, Firenze 1968. Per la ricognizione degli autografi machiavelliani resta fondamentale A. Gerber, Niccolò Machiavelli. Die Handschriften, Ausgaben und Übersetzungen seiner Werke in 16. und 17. Jahrhundert, prima parte, Gotha 1912 (riproduzione fototipica a cura di L. Firpo, Torino 1961). La grafia di M. è studiata in P. Ghiglieri, La grafia del Machiavelli studiata negli autografi, Firenze 1969. Il ms. Banco Rari 29 è descritto da G. Masi in N. Machiavelli, L’arte della guerra. Scritti politici minori, a cura di J.-J. Marchand, D. Fachard, G. Masi, Roma 2001, pp. 315-19. La descrizione del ms. Banco Rari 240 è invece in A. Gerber, Niccolò Machiavelli, Gotha 1912, pp. 42-43. Sul ms. Rossiano 884 ha richiamato l’attenzione S. Bertelli, Noterelle machiavelliane. Un codice di Lucrezio e di Terenzio, «Rivista storica italiana», 1961, 73, pp. 544-53, e poi in Ancora su Lucrezio e Machiavelli, «Rivista storica italiana», 1964, 76, pp. 774-90, in risposta a R. Ridolfi, Del Machiavelli, di un codice di Lucrezio e d’altro ancora, «La bibliofilia», 1963, 65, pp. 249-59, che disconosceva la mano di M. nella trascrizione del De rerum natura e dell’Eunuchus, attribuendola a quella di un suo omonimo. Più tardi però Ridolfi avrebbe mutato parere, riconoscendo l’autografia di M. in Errata corrige machiavelliano, «La bibliofilia», 1968, 70, pp. 137-41.