Anestesia
L'anestesia ha sempre avuto un fascino particolare e, a buona ragione, può essere considerata una delle più importanti scoperte del secolo scorso. L'anestesiologia ha mosso i suoi primi passi alla fine dell'Ottocento ma solo negli anni Cinquanta del XX sec. ha assunto il ruolo di disciplina autonoma divenendo così una specialità a sé stante. La definizione di anestesia come 'privazione dei sensi' compare per la prima volta nell'Encyclopaedia Britannica del 1771 e questo termine viene ripreso nel 1846 da Oliver W. Holmes, dopo gli esperimenti di Thomas G. Morton con l'etere, per descrivere un fenomeno che rende il paziente insensibile allo stimolo chirurgico. Si tratta, in realtà, di un termine molto ampio che comprende sia l'anestesia generale che quella locoregionale e viene spesso impropriamente riferito anche alla sedazione, che è soltanto una delle componenti dell'anestesia generale. Per 'anestesia generale' si definisce una condizione reversibile, indotta farmacologicamente, caratterizzata da perdita di coscienza intesa come assenza di contatto con l'ambiente esterno, dalla analgesia che riduce la risposta simpatica alla stimolazione chirurgica e da ultimo, non meno importante, dalla miorisoluzione che impedisce movimenti riflessi che potrebbero ostacolare le manovre chirurgiche. L'anestesia generale ha subito un grande sviluppo negli anni Novanta dopo l'introduzione di apparecchiature tecnologicamente avanzate e di farmaci più maneggevoli, che hanno reso possibile l'esecuzione di interventi più complessi tra cui i trapianti di organi quali cuore, polmone, fegato e rene.
L'anestesia generale può essere eseguita mediante l'utilizzo di farmaci inalatori ed endovenosi. L'anestesia inalatoria presuppone l'assorbimento dell'anestetico attraverso la barriera alveolo-capillare dei polmoni mentre nella metodica endovenosa i farmaci vengono somministrati direttamente nel torrente circolatorio. Nel primo caso è teoricamente possibile eseguire un'anestesia monofarmacologica: l'anestetico inalatorio agisce a vari livelli del sistema nervoso centrale assicurando l'ipnosi, l'analgesia e, con i dovuti limiti, la miorisoluzione. Questa metodica era l'unica possibile agli albori dell'anestesia, quando si utilizzava l'etere o il ciclopropano mentre i farmaci endovenosi erano pressoché sconosciuti. Attualmente gli anestetici inalatori sono derivati eterei che si differenziano dai loro 'antenati' principalmente per la minore tossicità e per la minore solubilità, che ne consentono l'impiego in tutti i tipi di interventi. L'anestesia endovenosa, cronologicamente più giovane, richiede necessariamente l'associazione di più farmaci con meccanismo d'azione selettivo: ipnotico, analgesico e miorilassante. Esistono pareri discordanti riguardo l'utilizzo di queste due metodiche anche se, in realtà, un vero e proprio confine non può essere definito. In effetti, nella pratica clinica, si tende a utilizzare un'anestesia mista inalatoria-endovenosa facendo ricorso, in sequenza, all'ipnotico, all'anestetico inalatorio, all'oppioide e al miorilassante. Si sfrutta il sinergismo esistente tra questi farmaci per ridurre il dosaggio e, di conseguenza, gli effetti collaterali.
Sommario. 1. Anestesia generale. 2. Anestesia locoregionale. 3. Monitoraggio della profondità del piano di anestesia. 4. Dolore postoperatorio. 5. Complicanze. dell'anestesia. □ Bibliografia.
L'anestesia generale è un fenomeno molto complesso che richiede l'impiego di più farmaci con differente meccanismo di azione al fine di utilizzare, per ognuno, la minima concentrazione necessaria per ottenere l'effetto desiderato.
Tecnica inalatoria. La tecnica inalatoria è quella più comunemente impiegata benché non sia stato compreso con esattezza il meccanismo d'azione degli anestetici inalatori a livello del sistema nervoso centrale. La possibilità di assicurare, a una data concentrazione, quel 'coma farmacologico reversibile' e di modulare la profondità dell'anestesia repentinamente, solo variando la concentrazione erogata dei vapori anestetici, rende la tecnica duttile e sicura. Gli anestetici inalatori sono stati i primi a essere introdotti nella pratica anestesiologica e sono ancora oggi i più utilizzati. Gli attuali anestetici inalatori derivano, chimicamente, dall'alotano ‒ oggi in disuso ‒ e si presentano come liquidi volatili. La loro vaporizzazione avviene attraverso il passaggio dell'ossigeno in un contenitore speciale in cui viene inserito l'anestetico liquido. Il sevoflurane e il desflurane, anestetici inalatori di ultima generazione, pressoché privi di tossicità intrinseca, risultano essere i più impiegati nel mondo perché, grazie alle loro proprietà fisico-chimiche, garantiscono la stabilità dei parametri vitali durante anestesia e il rapido recupero dello stato di coscienza alla sospensione della loro erogazione.
Tecnica endovenosa. L'anestesia totalmente endovenosa, utilizzata già negli anni Trenta del Novecento, ha avuto un enorme sviluppo in questi ultimi anni dopo l'introduzione di farmaci con profili favorevoli e, soprattutto, di pompe elettroniche che permettono di modulare l'infusione dei farmaci impiegati. L'introduzione di un ipnotico come il propofol e di oppioidi ad azione ultrabreve come il remifentanil consente di approfondire rapidamente il piano anestesiologico in rapporto alle necessità cliniche e di ottenere allo stesso tempo un risveglio rapido anche negli interventi di lunga durata. Il remifentanil ha un profilo particolarmente vantaggioso: rapido inizio di azione, emivita di pochi minuti indipendentemente dalla durata della somministrazione e sinergismo con altri farmaci tra cui il propofol. L'associazione di questi due farmaci permette di ridurre le concentrazioni di entrambi per ottenere un dato effetto farmacologico, minimizzando le modificazioni cardiovascolari, i tempi di risveglio e la permanenza in recovery room. La tecnica endovenosa è sicuramente di prima scelta nelle anestesie e nelle sedazioni eseguite al di fuori della sala operatoria. Si fa riferimento essenzialmente alle indagini diagnostiche quali risonanza magnetica e procedure endoscopiche: gastroscopie, colonscopie, cistoscopie. Il vero progresso della tecnica, come sottolineato precedentemente, si è avuto con la commercializzazione di pompe da infusione endovenosa che, utilizzando modelli farmacocinetici validati, permettono di ottenere l'effetto desiderato impostando la concentrazione ematica al sito effettore. Il software di tali pompe è in grado di calcolare la velocità di infusione necessaria a raggiungere la concentrazione target impostata, che dovrebbe corrispondere a quella vigente a livello cerebrale.
Monitoraggio e devices. Un altro grosso passo in avanti è stato ottenuto grazie all'introduzione di apparecchiature di monitoraggio più sofisticate e di dispositivi mini-invasivi, che hanno consentito l'esecuzione di interventi sempre più complessi in soggetti altamente compromessi riducendo nel contempo morbilità e mortalità perioperatoria. Ne è un esempio l'introduzione, non recentissima ma sicuramente rivoluzionaria, della pulsossimetria e della maschera laringea. La pulsossimetria è una metodica incruenta che rileva il grado di ossigenazione del sangue sfruttando la differente capacità riflettente dell'emoglobina ossigenata e di quella ridotta. Questa tecnica viene utilizzata di routine in tutte le metodiche anestesiologiche che prevedono l'uso di farmaci con un potenziale effetto di depressione respiratoria, compresa la sedazione e l'anestesia locoregionale. Essa consente una diagnosi precoce di una condizione ipossica ‒ principale causa di morbilità e mortalità intraoperatoria ‒ altrimenti non rilevabile.
La maschera laringea è un device di ventilazione che ha apportato notevoli vantaggi nella conduzione dell'anestesia consentendo di evitare in talune situazioni l' tracheale, metodica ampiamente utilizzata dagli anestesisti ma non completamente scevra da rischi. L'intubazione tracheale, pur rimanendo di prima scelta laddove sia necessario 'sigillare' completamente le vie aeree, può essere sostituita con sicurezza dalla maschera laringea negli interventi di piccola chirurgia e di breve durata. Al di là di questa indicazione, è divenuta una delle tecniche salvavita nei casi in cui la ventilazione e/o l'intubazione risultino difficili o impossibili fino a entrare a far parte di algoritmi validati. Poiché le problematiche ventilatorie contribuiscono in maggior misura agli eventi anestesiologici avversi, questo nuovo dispositivo, unitamente alla pulsossimetria, ha contribuito a ridurre la morbilità e la mortalità correlate alle tecniche di intubazione e ventilazione. Inoltre, non va sottovalutato come l'utilizzo della maschera laringea abbia un risvolto sociale ed economico: dopo la sua introduzione si sono registrate una diminuzione delle sequele neurologiche correlate all'ipossiemia e una riduzione della degenza postoperatoria correlata a un risveglio più rapido. Infatti, utilizzando la maschera laringea in alternativa al tubo endotracheale, si evitano sia l'impiego di farmaci quali i miorilassanti che bloccano i muscoli della respirazione sia la laringoscopia, procedura che comporta notevole stress con produzione di catecolamine da parte della corticale del surrene.
L'anestesia locoregionale, schematicamente suddivisa in blocchi periferici e centrali, come tutte le tecniche è stata caratterizzata da periodi di ampio successo intervallati da momenti meno favorevoli. L'entusiasmo si era affievolito dopo lo sviluppo di nuovi farmaci e nuove tecniche di anestesia generale, ma è stato nuovamente alimentato dall'introduzione di anestetici locali a bassa tossicità e a lunga durata di azione. Per quanto riguarda i blocchi periferici un ulteriore traguardo è stato raggiunto grazie allo sviluppo di apparecchiature di stimolazione nervosa in grado di favorire la localizzazione atraumatica di nervi in prossimità dei quali somministrare l'anestetico locale. Si fa riferimento essenzialmente al plesso brachiale, il cui blocco consente l'esecuzione di interventi sull'arto superiore, ma anche al blocco dei nervi sciatico, femorale e otturatorio per l'arto inferiore, sino ad arrivare al blocco del singolo ramo nervoso qualora l'area interessata dall'intervento chirurgico sia limitata. Recentemente, la possibilità di visualizzare mediante sonda ecografica plessi e rami nervosi ha reso ancora più complessa ma anche più sicura la metodica.
Il vantaggio risiede nella possibilità di eseguire l'intervento a paziente 'sveglio' evitando l'anestesia generale e di posizionare un catetere in prossimità del plesso e del nervo per ottenere una mobilizzazione passiva o attiva, qualora necessario. La stessa filosofia vale per i blocchi centrali che riguardano l' e l'. La prima viene generalmente eseguita per interventi sull'addome basso e sugli arti inferiori, mentre la seconda può essere utilizzata per numerosi interventi compresi quelli a livello toracico e cervicale, anche se il discomfort dovuto alla sede dell'intervento la rende utilizzabile solo in casi selezionati. Tuttavia, sono riportati sporadicamente anche interventi cardiochirurgici eseguiti con la tecnica peridurale. In realtà, la metodica locoregionale può essere implementata dall'anestesia generale. Si tratta della tecnica blended in cui l'anestesia generale viene associata a quella locoregionale ottenuta mediante la somministrazione di anestetici locali e/o di oppioidi nella zona da cui partono le afferenze nocicettive. Lo stress chirurgico si riduce poiché si bloccano, seppur parzialmente, le afferenze nocicettive consentendo di controllare in maniera ottimale il dolore postoperatorio e di favorire il recupero funzionale più rapidamente.
Il risveglio intraoperatorio che ha rappresentato, fin dagli albori dell'anestesia, uno degli aspetti più dibattuti della disciplina, può condizionare severamente la qualità di vita della persona. Si può verificare per un motivo ben preciso: la 'profondità del piano di anestesia' è difficile da valutare, per via della oggettiva difficoltà di correlare il dosaggio plasmatico del farmaco al piano di anestesia. La descrizione fornita nel 1937 da Arthur E. Guedel in Inhalation anesthesia. A fundamental guide prendeva in considerazione i segni clinici dell'anestesia eterea ‒ tono muscolare, respirazione, movimenti oculari, diametro pupillare, riflessi oculari e laringei ‒ e, in base alle loro modificazioni, distingueva quattro stadi che hanno costituito per generazioni di anestesisti una guida importante per il monitoraggio della profondità di anestesia. L'introduzione dei miorilassanti ha reso impossibile valutare questi segni descritti da Guedel e sono seguiti vari tentativi per definire nuovi parametri che tenessero conto della risposta neurovegetativa ‒ emodinamica, sudomotoria, ormonale ‒ allo stimolo doloroso. La pressione arteriosa e il ritmo cardiaco, di solito considerati buoni indici della profondità di anestesia, hanno, in realtà, un valore limitato nonostante nella pratica clinica ci si affidi ancora a essi. La stabilità emodinamica può essere indice di un'analgesia adeguata, ma non è un parametro affidabile per valutare il grado di .
Per circa cento anni, il compito dell'anestesista è stato quello di mantenere il paziente anestetizzato a un livello di profondità sufficiente per ottenere rilasciamento muscolare senza depressione respiratoria, ma l'introduzione delle tecniche di ventilazione controllata ha ribaltato il problema principale, che oggi consiste nell'evitare un'anestesia troppo leggera. Farmaci ipnotici, anestetici alogenati e benzodiazepine danno lo stesso risultato, condizionando la perdita di coscienza seppur con differenti meccanismi d'azione, ma non è ben conosciuta la concentrazione alla quale determinano amnesia e inibizione delle funzioni cerebrali di elaborazione cognitiva. Inoltre, la combinazione di questi farmaci in diversi dosaggi produce effetti difficilmente comprensibili in termini di attivazione e inibizione di reti neuronali nell'ambito del sistema nervoso centrale (SNC). La profondità dell'anestesia è perciò il risultato, istante per istante, di un delicato equilibrio tra lo spettro di azioni prodotte dai vari farmaci impiegati e l'intensità delle risposte ‒ peraltro soggette a variabilità individuale ‒ allo stimolo chirurgico.
Nonostante l'argomento susciti considerevole interesse scientifico, si conosce ancora poco riguardo ai meccanismi d'azione degli anestetici sullo stato di coscienza e sulle funzioni cognitive. Alla luce delle più recenti acquisizioni, il concetto di anestesia può essere ridefinito come un sonno reversibile indotto da farmaci che, per definizione, causano perdita di coscienza e temporanea interruzione delle funzioni cerebrali tipiche dello stato di veglia, come la memoria e l'apprendimento. Non solo, quindi, un sonno con temporanea assenza di coscienza, cosa che di per sé costituisce la principale differenza con il sonno naturale, ma anche con totale abolizione della capacità di immagazzinare informazioni a livello subcosciente, al fine di evitare fenomeni di awareness intraoperatorio. Quest'ultimo, spesso citato come 'risveglio intraoperatorio', può essere definito come la capacità di ricordo, con o senza percezione cosciente di eventi che accadono durante anestesia generale, attraverso meccanismi di memorizzazione di tipo esplicito e implicito. L'evidenza scientifica suggerisce che il verificarsi di episodi di awareness, la cui incidenza è oggi stimata intorno allo 0,2÷2%, è in genere correlato alla superficializzazione del piano di anestesia. Tale fenomeno può causare, a distanza di tempo, una sindrome postraumatica caratterizzata da insonnia, incubi, depressione, stato ansioso, angoscia e preoccupazione di morte. Sono a rischio di sviluppare questa grave psicosi soprattutto i pazienti che sperimentano la percezione del dolore provocato dall'intervento chirurgico, evento che accade in una bassa percentuale di pazienti sottoposti ad anestesia generale (0,01%).
John G. Jones ha descritto quattro stadi di awareness durante l'anestesia. Nel primo stadio (percezione cosciente con memoria esplicita), i pazienti percepiscono l'incapacità di muoversi con paura e sensazione di morte imminente. Molti di questi pazienti sono in grado di comprendere conversazioni, riconoscere suoni e avere percezioni visive di volti e oggetti presenti in sala operatoria. Alcuni provano dolore e impossibilità di chiedere aiuto. Nel secondo stadio (percezione cosciente senza memoria esplicita) i pazienti, pur dimostrandosi capaci di risposta motoria a un comando verbale, non sono in grado di ricordare l'evento nel postoperatorio. Questa sensibilità allo stimolo acustico sotto anestesia (wakefullness) è stata studiata con la tecnica dell'arto isolato. Sebbene la presenza di amnesia postoperatoria indichi un approfondimento del piano anestetico, è comunque un indicatore poco affidabile dello stato di coscienza durante l'anestesia generale. Con l'incremento della concentrazione di anestetico si assiste a una riduzione graduale dello stato di coscienza e della capacità di memorizzazione. Tuttavia, l'assenza di richiamo spontaneo alla memoria non esclude la possibilità che si possa verificare una elaborazione di eventi intraoperatori attraverso un processo di memorizzazione implicita, che può essere svelato con opportuni test di associazioni libere o con l'ipnosi. Si possono, inoltre, evidenziare alterazioni del comportamento nell'immediato postoperatorio. Questi fenomeni caratterizzano il terzo stadio di awareness (percezione subcosciente con memoria implicita). Infine, il quarto e ultimo stadio (assenza di percezione e di memoria implicita) è verosimilmente associato a una profondità dell'anestesia adeguata al tipo di stimolazione chirurgica e al tipo di paziente.
Nel corso degli anni ci si è affidati a strumenti sempre più sofisticati per il monitoraggio della profondità di anestesia, alcuni dei quali sono ormai in disuso mentre altri sono oggetto di ricerca e di continua revisione al fine di migliorarne le caratteristiche funzionali. L'elettromiografia frontale (FEMG) mostra una diminuzione dell'attività del muscolo frontale (molto meno sensibile agli effetti dei bloccanti neuromuscolari rispetto ad altri gruppi muscolari) durante l'anestesia e un aumento della stessa nella fase che precede il risveglio. Tuttavia, non può essere annullata completamente quella variabilità interindividuale per i valori di FEMG che ne preclude l'utilizzo nella pratica anestesiologica. L'aritmia sinusale sincrona con i movimenti respiratori (RSA) consiste nella variazione ciclica della frequenza cardiaca durante la respirazione e riflette il tono vagale. Diminuisce durante la sedazione con propofol e durante l'anestesia con propofol e con isoflurano. Le variazioni dell'RSA riflettono l'influenza degli anestetici sull'attività del tronco cerebrale ma non ci forniscono dati riguardo le funzioni cognitive, che sono invece sotto il controllo di centri corticali.
L' (EEG) spontaneo ha rappresentato un ulteriore passo in avanti nella ricerca di una misura specifica della profondità dell'anestesia. L'EEG riflette l'attività elettrica corticale che, a sua volta, può essere considerata come la sommatoria dell'attività eccitatoria e inibitoria postsinaptica, controllata da nuclei talamo-corticali. L'induzione dell'anestesia produce di solito una diminuzione del ritmo α con aumento del ritmo β. Con l'approfondimento del piano di anestesia, il ritmo decresce di frequenza, con comparsa dei ritmi θ e δ, intervallati da fenomeni di burst suppression. Il grosso limite dell'EEG è rivelato da molti studi che dimostrano come con i vari anestetici si registrino differenti modifiche sulla morfologia dell'EEG e come la correlazione dell'analisi di un tracciato elettroencefalografico al livello anestetico non sia univoca. Il tracciato elettroencefalografico al risveglio dall'anestesia può essere sensibilmente differente da quello che precede l'induzione, ponendo serie difficoltà interpretative. In altri termini, mentre alcuni pattern elettroencefalografici indicano sempre incoscienza, come per esempio burst suppression, isoelettricità, attività epilettica generalizzata, di contro non vi sono praticamente pattern che possano rappresentare, senza ombra di dubbio, la presenza di coscienza.
I farmaci utilizzati in anestesia possono avere tre differenti pattern di comportamento rispetto agli effetti sull'EEG: (a) un effetto bifasico, con attivazione elettroencefalografica in corrispondenza dell'iniziale perdita di coscienza, con successiva riduzione fino alla burst suppression (anestetici inalatori ed endovenosi); (b) una riduzione monofasica dell'EEG (oppiacei); (c) una persistente attivazione dell'EEG fino a un'attività epilettiforme (enflurano e ketamina). Quando due classi di farmaci vengono somministrate contemporaneamente è difficile predire con esattezza quali saranno le modificazioni del tracciato elettroencefalografico, dipendendo queste ultime da un'interazione farmacologica complessa. Successivamente è nata l'esigenza di processare il segnale elettroencefalografico mediante trasformata di Fourier per estrarre quelle caratteristiche del segnale utili ai fini del monitoraggio della profondità di anestesia. Utilizzando tecniche di analisi computerizzata sono stati estratti parametri univariati ‒ frequency band power ratios, median frequency, spectral edge frequency ‒ e sono state studiate le variazioni con i differenti anestetici, ma con scarsi risultati in termini di sensibilità e specificità per la predizione dell'assenza di coscienza. Attualmente tre sono le metodiche promettenti dal punto di vista del monitoraggio del sonno durante anestesia: l'analisi bispettrale (BIS), i potenziali evocati acustici (AEP) e l'entropia.
L'analisi bispettrale, utilizzata per studiare fenomeni quali le maree, la pressione atmosferica e l'attività sismica, permette di quantificare l'accoppiamento di fase delle onde componenti il tracciato elettroencefalografico. Ne deriva un indice che rispecchia il grado di ipnosi. In termini pratici il BIS funziona nel modo seguente: il segnale EEG viene acquisito attraverso elettrodi posti sulla fronte del paziente e in circa 15-30 secondi compare sul monitor un numero da 0 (attività cerebrale non valutabile) a 100 (stato di vigilanza massimo), che corrisponde al livello di coscienza del paziente. Non è necessaria la registrazione di una baseline nel singolo paziente, in quanto il dato numerico del BIS è un numero adimensionale e non prevede un raffronto con una valutazione preoperatoria. I limiti di questa metodica sono rappresentati dalla variabilità individuale nella predittività dello stato di ipnosi, dalla necessità di aggiornamenti continui del software, dalla dipendenza dal tipo di anestetico, dalla non predittività dei movimenti in risposta allo stimolo chirurgico, dalle interferenze elettriche e muscolari, dalla riduzione del valore BIS in caso di ipotermia e ischemia cerebrale e infine dall'effetto paradosso determinato dall'utilizzo di alcuni farmaci.
I potenziali evocati acustici sono segnali provenienti dal SNC in risposta alla stimolazione sensoriale-nervosa, caratterizzati da una debole ampiezza rispetto all'EEG spontaneo. Possono essere acquisiti ricorrendo a particolari tecniche computerizzate in grado di mettere in evidenza l'attività elettrica evocata rispetto a quella elettroencefalografica spontanea. L'estrazione dei potenziali evocati comporta la registrazione di sequenze periodiche dell'EEG immediatamente successive agli stimoli, applicati in modo ripetitivo, e l'esecuzione della loro media sequenziale con la metodica dell'MTA (Moving time average). Un tracciato di potenziali evocati è ottenibile generalmente dalla media delle risposte a circa 1000 stimoli. La risposta evocata è definibile come relazione tra voltaggio e tempo e in essa si possono individuare parametri quantitativi (latenza e ampiezza). Il tracciato ottenuto mediante stimolazione acustica riflette l'attività bioelettrica delle strutture poste a vari livelli delle vie uditive e può essere suddiviso in tre parti: (a) risposta del tronco encefalico (onde I-IV) che compare nei primi 10 ms successivi alla stimolazione; (b) risposta corticale precoce (da 15 a 80 ms) o a latenza intermedia; (c) risposta corticale tardiva (da 80 a 100 ms).
La tecnica dell'MTA richiede più di 1000 ripetizioni dello stimolo prima che il segnale sia processato e quindi un tempo di registrazione dispendioso (approssimativamente 2 min, a seconda del rapporto segnale/rumore). Sistemi basati su avanzate metodiche di elaborazione del segnale vantano tempi dell'ordine di secondi e permettono il calcolo di indici numerici che riflettono la morfologia delle onde. Un modello matematico, chiamato 'autoregressivo', consente l'estrazione di un indice approssimativamente in 2-6 secondi e quest'ultimo sembra riflettere il livello di sedazione e la perdita di coscienza durante anestesia. Un ulteriore indice, ricavato utilizzando un altro approccio matematico che riflette la morfologia dei potenziali evocati, è l'AEP index (somma della radice quadrata della differenza, in valore assoluto, di due successivi segmenti del tracciato AEP). L'AEP index viene considerato un parametro ottimale per la distinzione tra consciousness (paziente reattivo a stimoli verbali e presenza del riflesso palpebrale) e unconsciousness (paziente non reattivo a stimoli verbali e assenza del riflesso palpebrale). Al di là della metodica di estrazione utilizzata, i potenziali evocati uditivi presentano indubbi vantaggi, mostrando variazioni costanti e prevedibili dopo la somministrazione di tutti gli anestetici e una buona correlazione con i fenomeni di awareness. Tuttavia, come ogni altro indice di profondità di anestesia, presentano alcuni limiti quali la non predittività dei movimenti in risposta allo stimolo chirurgico, l'impossibilità di ottenere tracciati attendibili in presenza di difetti uditivi di tipo trasmissivo e neurosensoriale, l'alterazione del segnale dovuta a ipo- o ipertermia e la contaminazione del segnale da parte dell'attività muscolare e di interferenze elettriche.
Dall'osservazione della tendenza dell'EEG a divenire sempre più regolare man mano che si approfondisce il piano anestetico è nata l'idea di applicare un algoritmo che permettesse di valutare la quantità di disordine nel segnale. Introdotto nel 2003, l'algoritmo dell'entropia converte il disordine contenuto nel segnale elettroencefalografico in un indice che esprime la profondità di anestesia. Alti valori di quest'ultimo durante l'anestesia sono indicativi di paziente sveglio, mentre bassi valori sono correlati ad assenza di coscienza. In realtà, gli indici ricavati sono due: l'entropia di stato (SE) e l'entropia dinamica (RE), essendo la prima calcolata per frequenze comprese tra 0,8 e 32 Hz e la seconda per frequenze tra 0,8 e 47 Hz. La lunghezza della finestra di tempo per la SE varia tra 15 e 60 secondi, mentre per la RE è più breve (1,92 secondi). Poiché normalmente le frequenze fino a 32 Hz contengono solo segnale EEG, mentre per quelle superiori la componente elettromiografica è predominante, il breve ritardo nel calcolo tra 32 e 47 Hz è utile nella pratica poiché rivela immediatamente l'attivazione del muscolo frontale e quindi l'inadeguatezza del piano anestetico. Al contrario, se non c'è nessuna attività muscolare frontale e quindi assenza di segnale bioelettrico oltre 32 Hz, i due indici mostreranno valori identici. Gli studi finora effettuati mostrano che c'è una buona correlazione tra i valori di entropia ed episodi di coscienza-incoscienza durante anestesia, ma sono necessari ulteriori studi per dimostrare la reale sensibilità e specificità di questo indice. La necessità di definire e quantificare la profondità dell'anestesia, indipendentemente dal tipo di anestetico endovenoso o inalatorio impiegato, rappresenta ancor oggi una spinta per la ricerca di metodiche di monitoraggio sempre più affidabili.
Il dolore postoperatorio è una sequela presente in tutti gli interventi ma il suo controllo riveste una particolare rilevanza nella chirurgia addominale maggiore, toracica e ortopedica. Un'analgesia ottimale migliora la ripresa funzionale postoperatoria e favorisce la riabilitazione precoce indispensabile in questo tipo di interventi. L'analgesia neurassiale (epidurale e subaracnoidea), bloccando direttamente il dolore alla sua origine, permette di ridurre la quantità di anestetico generale e di analgesico somministrati per via sistemica (tecnica blended). Quest'ultima consente di ottenere un ottimale sollievo dal dolore, minimizzando gli effetti collaterali che possono insorgere quando i singoli farmaci vengono utilizzati da soli e ad alto dosaggio. È stato ampiamente dimostrato che l'utilizzo dell'analgesia neurassiale comporta una riduzione delle complicanze respiratorie che si riflette in una diminuzione della degenza ma anche della morbilità e mortalità postoperatorie.
I blocchi dei nervi periferici, utilizzati in chirurgia ortopedica, si sono dimostrati utili, quando c'è indicazione, non solo per l'esecuzione dell'intervento a paziente sveglio ma anche per ottenere una mobilizzazione passiva e attiva precoci. Un'ottimale analgesia postoperatoria viene oggi raggiunta anche grazie a metodiche di analgesia controllate dal paziente, che si autosomministra, grazie a dispositivi meccanici o elettronici, il farmaco analgesico in quantità e frequenza predeterminata. Dal punto di vista pratico e psicologico il paziente si autogestisce il dolore, lo quantifica e lo riduce a un livello che ritiene accettabile senza l'intervento di intermediari, sottodosando o sovradosando la necessità di analgesico. In tal modo si riduce l'incidenza di effetti collaterali e si ottiene una analgesia immediata. Tuttavia, va precisato che l'introduzione dei devices non deve affievolire il controllo di questi pazienti da parte dell'equipe medica e infermieristica che deve guardare al dolore come a un parametro da quantificare al pari di temperatura, pressione e diuresi. È, inoltre, auspicabile la formazione di team ospedalieri costituiti da personale medico e infermieristico che si occupi unicamente della sorveglianza e della gestione del dolore.
Nonostante la morbilità e la mortalità anestesiologiche si siano ridotte grazie ai progressi scientifici e tecnologici, la tipologia di paziente, le età estreme e le patologie associate continuano ad avere un peso non indifferente nel condizionare l'incidenza di complicanze. Queste ultime possono essere attribuibili esclusivamente all'anestesia, essere legate solo all'intervento oppure, come il più delle volte accade, essere il risultato dell'interazione tra anestesia, chirurgia e fattori legati al paziente. Per esempio l'incidenza di arresto cardiocircolatorio si è ridotta notevolmente dopo l'introduzione del monitoraggio respiratorio, capnometria e pulsossimetria, ma la sua frequenza è quanto mai variabile perché correlata a diversi fattori. Studi recenti riportano un'incidenza di arresto cardiaco compresa tra 1:9000 e 1:14.000. Myrna C. Newland (2002) stima il rischio di mortalità correlato all'anestesia dello 0,005%, mentre questa percentuale è lievemente superiore se si considera l'anestesia come possibile concausa. Purtroppo, la morbilità e la mortalità non potranno mai essere abolite, dato che l'intervento umano è sicuramente gravato da possibili errori e le risposte individuali alla somministrazione di farmaci possono produrre eventi avversi inevitabili e/o non controllabili. I dati provenienti da differenti Paesi sono diversi, poiché entrano in gioco numerose variabili tra cui la preparazione specifica dello specialista, i carichi di lavoro del personale medico e paramedico e l'organizzazione della struttura in cui si lavora. Talora, per le carenze strutturali e organizzative, non si riesce a far fronte alle esigenze dei pazienti e degli operatori. Per questo, organi politico-amministrativi hanno ritenuto opportuno gestire il rischio globale garantendo standard di cura al fine di ridurre al minimo la possibilità di errore. Attualmente parlare esclusivamente di morbilità e mortalità è riduttivo, dal momento che, al di là di complicanze drammatiche ma fortunatamente molto rare, la qualità dell'anestesia richiede una visione globale che tenga conto delle aspettative del paziente, che spesso può sperimentare complicanze minori quali nausea e vomito postoperatorio che, in alcuni casi, possono prolungare la degenza ospedaliera oltre a rappresentare un notevole discomfort. Per questo motivo sono state introdotte, e sono tuttora oggetto di studio, strategie farmacologiche volte a prevenire l'insorgenza di nausea e vomito che rappresentano 'il piccolo grande problema' della chirurgia, specialmente di quella ambulatoriale. Importanza, inoltre, deve essere data agli aspetti psicologici del paziente, instaurando con lui un dialogo che va oltre i limiti della sua condizione di malattia, in una visione antropologica della ars curandi del medico. Non bisogna infatti dimenticare che in medicina l'high tech, cioè la supertecnologia, non può sostituire l'high touch, cioè il contatto umano, la mano e la mente guidate da ragione scientifica.
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