anfetamina
Sostanza basica appartenente con i suoi derivati alla famiglia delle fenetilammine, utilizzata a scopo medico nel trattamento dell’obesità (per controllare il peso e sopprimere l’appetito) e nella terapia di disturbi mentali e comportamentali, comprese la narcolessia e l’iperattività infantile (➔ attenzione, disturbi dell’). L’a. è poco solubile in acqua mentre è facilmente solubile in etanolo ed etere etilico. I suoi sali, invece, sono solubili in acqua per cui essa viene comunemente commercializzata sotto forma di sale fosfato. L’a. è inoltre un noto stupefacente utilizzato per aumentare le prestazioni fisiche (doping); come tale, il suo uso è illegale in quasi tutti i Paesi.
Da un punto di vista farmacologico l’a. è un agonista indiretto del sistema catecolaminergico (➔ neuromodulatori); agisce soprattutto a livello centrale favorendo il rilascio di dopammina, noradrenalina e serotonina e ha una azione inibitoria verso le monoamminossidasi, gli enzimi che degradano le monoammine (come adrenalina, noradrenalina, serotonina e dopammina). Attualmente si pensa che l’azione dell’a. si esplichi a livello del trasportatore di membrana delle ammine. Quando essa è presente nello spazio extracellulare, si lega al trasportatore di membrana e viene trasferita all’interno delle terminazioni nervose presinaptiche. La conformazione del trasportatore viene trasformata in modo tale da legare le ammine presenti nel citoplasma e da determinarne il rilascio all’esterno della cellula. In queste condizioni il trasportatore agisce come un ‘antiporto’ poiché l’uscita delle monoammine si accoppia all’entrata di anfetamina. La specificità di questa droga nel liberare le diverse monoammine è funzione dell’efficienza con cui essa si lega ai vari trasportatori di membrana. Per es., il legame con il trasportatore per la dopammina è più efficiente per la D-a. che per la L-a., mentre l’azione sul trasportatore della norepinefrina non è stereospecifica, ossia non è legata alla conformazione dell’anfetamina. Analogamente, le a. efficaci sul sistema serotoninergico vengono più facilmente legate dal trasportatore della serotonina rispetto a quelli della dopammina e della noradrenalina. Il rilascio delle monoammine provocato dall’a. è favorito anche da un’azione di questa sostanza sui trasportatori vescicolari. Questi ultimi hanno la funzione di accumulare i neurotrasmettitori nelle vescicole sinaptiche. Si pensa che l’a. penetri nelle vescicole in forma non ionizzata e, a causa dell’ambiente acido presente all’interno di esse, venga protonata. Ciò determina un abbassamento della concentrazione di ioni H+ nelle stesse vescicole e, quindi, una perdita di efficienza dei trasportatori vescicolari H+-dipendenti. Come risultato finale le monoammine vengono accumulate nel citoplasma e sono quindi disponibili per essere rilasciate all’esterno della cellula tramite l’antiporto già descritto.
L’eccessivo rilascio di monoammine causa una iperstimolazione cerebrale che fornisce sensazione di euforia, forza, sicurezza e benessere, oltre che un incremento della vigilanza, della capacità di concentrazione e perdita della percezione di stanchezza e della fame. Tali effetti sono simili a quelli provocati dalla cocaina (➔ droghe), anche se l’a. viene metabolizzata più lentamente dall’organismo e provoca, quindi, effetti più lunghi, intensi e dannosi. L’abuso e la conseguente dipendenza (➔) da questa sostanza comportano sintomi di tolleranza; ne deriva craving, ossia la necessità impellente di procurarsi e consumare tale droga con perdita di controllo su vari aspetti della vita sociale. L’assunzione prolungata di a. può determinare ansia, insonnia, confusione mentale, comportamenti aggressivi. Possono comparire anche sintomi psicotici come allucinazioni (➔ allucinogeno), paranoia e deliri. Sul piano fisico vi sono invece disturbi visivi, midriasi (dilatazione pupillare), vertigini, emicrania, secchezza delle fauci, bruxismo (tendenza a digrignare i denti), aritmia cardiaca o aumento della pressione, innalzamento della temperatura, tremori e perdita di appetito. Alcune evidenze sperimentali indicano che l’abuso di a. causa effetti a lungo termine sul cervello. In particolare, un’analisi attraverso PET (➔ imaging cerebrale funzionale) ha dimostrato che individui con una storia pregressa di abuso di metanfetamina mostrano una diminuzione di trasportatori della dopamina nel nucleo caudato e nel putamen, anche se si sono astenuti dall’assunzione della droga per più di tre anni. Le strutture sopracitate sono coinvolte nel controllo del movimento volontario e sono degenerate in malattie come il morbo di Parkinson. L’uso continuativo di a. diventa, quindi, un fattore di rischio per lo sviluppo di tali malattie neurodegenerative.