FABBRO, Angelo Antonio
Nato a Valdobbiadene (Treviso) il 3 giugno 1711 da Battista e Maddalena Bottoglia, studiò nel seminario di Padova e si laureò in teologia e diritto civile e canonico nell'università di Padova. Nello stesso seminario insegnò grammatica e matematica, poi si trasferì a Venezia come precettore di un nipote di mons. Inigo Caracciolo che lo aveva personalmente richiesto al vescovo card. C. Rezzonico. Accompagnò il Caracciolo nella nunziatura in Spagna poi, di nuovo a Venezia, fu precettore di Alvise Mocenigo, figlio dell'omonimo doge. Nel 1758 il F., che durante la controversia veneto-pontificia del 1754 scrisse per il doge un Caso teologico-canonico-politico per dimostrare "legittimo il decreto di un principe che sottopone a revisione i casi in cui i sudditi possono ricorrere al Papa", ottenne la cattedra di istituzioni civili e arte notaria nell'università di Padova; l'ateneo stava attraversando un momento di grave decadenza e i Riformatori dello Studio, forti degli autorevoli pareri di Scipione Maffei, Gaspare Gozzi, Natale Dalle Laste, negli anni '80 procedettero alla soppressione di alcune cattedre e all'istituzione di nuove: tra quest'ultime c'era quella di istituzioni canoniche che venne appunto affidata al F., che la tenne per sette anni.
Nell'ambito di una tendenza generale in Europa, percorsa da fermenti illuministici e da forti spinte giurisdizionalistiche, anche la Repubblica di Venezia maturò l'idea di separare il diritto pubblico ecclesiastico dal Corpus iuris canonici: l'11 settembre i Riformatori eressero la nuova cattedra di diritto pubblico ecclesiastico e l'affidarono al Fabbro. I primi tre anni di insegnamento trascorsero senza incidenti (tra l'altro il 9 ott. 1769 il F. fu nominato prorettore e sindaco dell'università dei legisti) nonostante il vivace interesse di studenti e osservatori esterni per la novità di un insegnamento di cui pareva evidente lo scopo di assicurare legittimità culturale alle istanze giurisdizionalistiche della Repubblica: nel programma triennale egli trattò prima "de potestate Summi Principis quoad leges ecclesiasticas", poi "de potestate Summi Principis quoad personas et res ecclesiasticas" ed infine "de Summi Principis potestate quoad iudicia ecclesiastica". Nella primavera del 1771 i Riformatori dello Studio gli chiesero il programma ed il F. presentò Materies et ordo scholarum quas anno 1771-1772 explicaturus est in Gymnasio Patavino Angelus Antonius Fabrus Tarvisinus iuris publici Ecclesiastici P. P.; il 13 luglio venne approvato dal pubblico revisore Natale Dalle Laste e stampato in pochi esemplari dalla tipografia Cenzatti di Padova. La pagina esplicativa del corso fece rapidamente il giro di molti studenti ed ecclesiastici e suscitò veementi opposizioni.
Il F. vi sosteneva tesi rigidamente giurisdizionalistiche; il principe, sia esso re, i nobili di una Repubblica aristocratica o i popolari di una democrazia, detiene l'humana Maiestas e il Regimen in omnia Civitatis, il quale deriva direttamente da Dio: tanto la Chiesa quanto lo Stato sono sottoposti al governo del principe, che può far leggi per ambedue. Il F. confuta vigorosamente la dottrina di Graziano e dei canonisti "romaneschi", che sostenevano che ai principi laici non compete alcuna autorità sulla Chiesa, rivendica al principe il potere di imporre la religione che crede vera, che dunque diventa la "religione dominante", e di interdire altri culti: se poi impone l'osservanza di una religione falsa, sbaglia di fatto ma non perde la potestà di comando. Il F. condanna duramente coloro che sottopongono a supplizi gli eretici, i quali sbagliano con animo retto, "non per odio ma per affetto a Dio", e del resto "l'eresia non priva affatto il sovrano del suo potere". Allo Stato, non alla Chiesa, compete il diritto di proibire libri contenenti cattive dottrine, le costituzioni ecclesiastiche di concili e sinodi non hanno vigore di legge senza permesso e promulgazione del principe, i testi canonici e i bollari romani, divenuti ormai veri e propri "libri sibillini", hanno valore giuridico nei limiti concessi dall'autorità politica e del tutto lecito è il regio placet per le scritture provenienti dalla Curia, al fine di evitare l'introduzione di novità a danno della quiete pubblica. È fin troppo facile rinvenire nelle sue pagine l'eco dell'opera di E. Cocceio, U. Grozio, J. H. Boehmer, G. Febronio ma la reazione di alcuni ambienti ecclesiastici, che lo accusarono seriz'altro di eresia, pare sproporzionata.
Il vescovo veronese Nicolò Giustiniani, sollecitato da alcuni studenti, sottopose la pagina al parere di alcuni teologi e da varie città della Terraferma si levarono voci di riprovazione e insistenti richieste alla Repubblica di mettere a tacere un docente così eterodosso: nel giro di pochi mesi si contarono ben 23 confutazioni, spontanee o per incarico, latine o volgari, molte anonime, ma non mancarono anche alcune difese, centrate soprattutto sulla circostanza che le dottrine del F. erano state espresse allo stadio di abbozzo e quindi con un'ovvia approssimazione e incompletezza. La tempesta era così forte e insistente che il governo veneziano non poté rimanere inerte: il F. fu chiamato a Venezia a discolparsi. Scrisse cinque lezioni di confutazione alla censura dell'abate veronese Bertolini, proclamò di non essere teologo o canonista ma solo pubblicista, si fece forte dell'approvazione del programma da parte del pubblico revisore Natale Dalle Laste, sostenne che la sua definizione di Chiesa era tratta nientemeno che dal Catechismo romano e che se egli sottometteva la Chiesa al principe lo faceva perché "publicus status hominum, publica societas" le cui norme senza l'approvazione del sovrano sono "canoni", non "leggi perfette".
Il caso venne portato davanti al Consiglio dei dieci (24 marzo 1772), poi del Senato: nonostante la difesa del consultore in iure Giambattista Billesimo, peraltro convinto dell'opportunità di spegnere sul nascere un incendio che rischiava di riprodurre a Venezia un "caso Giansenio", e di Andrea Tron, il Senato optò per una decisione drastica: la "pagina" era "imprudente, oscura e pericolosa", il F., che sin'allora aveva tenuto solo cinque lezioni sul contestato argomento, venne rimosso dalla cattedra (4 aprile) e il Consiglio dei dieci, per sopire del tutto lo scandalo, vietò ogni ulteriore discussione e fece sequestrare in tutta la Repubblica la prolusione e tutte le carte prodotte sulla questione.
Il F. lasciò la cattedra il 6 aprile e commentò deluso: "La Repubblica è stracca"; in effetti ha ragione il Berengo a ricordare che "quella sanzione tende a colpire assai più il pericoloso suscitatore di discordie ed il troppo esplicito paladino della tolleranza che non il critico della bolla in coena domini e dell'autocrazia papale" (La società veneta …, p. 227) e del resto lo stesso nunzio vide acutamente nella decisione non "un monumento dello zelo per la religione e attaccamento alla sana dottrina, ma una semplice necessità di governo".
Grazie all'interessamento del Tron l'11 marzo 1773 il F. venne nominato bibliotecario della Biblioteca universitaria di Padova: insieme con Simone Stratico si adoperò per acquisire i libri di Giambattista Morgagni, Gaspare Gozzi e Antonio Vallisnieri, curò con intelligenza l'incremento librario facendo acquistare volumi e giornali aperti alla cultura illuministica italiana ed europea e redasse un monumentale catalogo alfabetico in 14 volumi rimasto, in uso sino all'ottocentesco primo catalogo a schede.
A parte la contestata prolusione del 1772 il F. lasciò pochissimi scritti: si ricordano cinque elogi latini inseriti nelle Effigies seu numismata virorum illustrium ex Barbadica gente (Padova 1732 e 1760), un occasionale trattatello per nozze Sui doveri del marito verso la sposa (Padova 1766), due minori lavori manoscritti di argomento giuridico e una dissertazione sul poeta latino Venanzio Fortunato.
Giubilato nel 1776 con 400 ducati di provvisione, si ritirò a Bigolino di Valdobbiadene, dove morì il 30 nov. 1786, destinando i suoi beni all'istituzione di due scuole.
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