BADOER, Angelo
Nacque il 19 apr. 1565 da Alberto e Chiara Priuli; il padre era uno dei più stimati diplomatici della Serenissima. E accompagnando appunto il padre in una delle sue missioni diplomatiche il B. cominciò la pratica della vita politica, che approfondì successivamente nella familiarità con lo zio, cardinale Lorenzo Priuli.
Nel 1599 fu inviato in missione di complimento ad Alberto d'Austria e Isabella di Barcellona di passaggio a Milano; l'anno dopo presso Ferdinando II d'Asburgo, in occasione delle sue nozze con Maria Anna di Baviera, nella quale occasione svolse anche trattative sulla questione degli Uscocchi. Fu poi inviato in Francia assieme a Giovanni Mocenigo. Nel 1602 venne eletto ambasciatore alla corte francese, succedendo a Marino Cavalli, e, partito per Parigi nel 1603, vi rimase sino al 1605, non senza sollecitare il richiamo dolendosi delle sue precarie condizioni economiche. Già da questi anni circolavano sul suo conto voci che indicavano le ragioni delle sue propensioni filoecclesiastiche nel desiderio d'intraprendere la carriera prelatizia, e che a questo motivo riportavano talune prese di posizione su problemi politici e amministrativi, quale, per esempio, il taglio del Po.
Savio di Terraferma nel 1605 e nel 1607, fu in quest'ultimo anno protagonista d'un clamoroso episodio dal quale la sua carriera politica fu drasticamente troncata. Nel luglio :1607 era giunto a Venezia il nuovo nunzio pontificio Berlinghiero Gessi e, pochi giorni dopo il suo arrivo, il B. si abboccò con lui nel convento dei Frari, continuando i colloqui non solo senza chiedere la preventiva autorizzazione agli organi competenti, ma senza neppur riferire in proposito, come pur prescrivevano le disposizioni concernenti i contatti dei cittadini e dei patrizi veneziani con i diplomatici stranieri. Conosciuto come aperto fautore di Roma e della Spagna, segnalatosi già durante la contesa dell'interdetto come consigliere d'un accordo con Paolo V e come ammiratore di Filippo III, il B. venne citato nel dicembre dinnanzi al Consiglio dei Dieci e si discolpò asserendo che nei colloqui col nunzio di null'altro aveva parlato che "della forma del governo della repubblica" e di altre "curiosità" veneziane. Nonostante le molto severe proposte di pena formulate dai tre inquisitori di Stato, Leonardo Mocenigo, Marc'Antonio Erizzo e Niccolò Contarini, tutti di parte sarpiana, fu condannato, nel gennaio 1608, a un anno di carcere, all'interdizione dagli uffici segreti e al divieto d'espatrio.
Per quattro anni non si sa come il B. abbia vissuto, ma nell'aprile 1612 tornava alla ribalta della vita politica veneziana come protagonista d'un processo non meno sensazionale di quello del 1607. Imputato, su accusa degli inquisitori (tra i quali erano ancora il Mocenigo e il Contarini), di intelligenza con principi stranieri, d'aver venduto segreti e di aver incitato al sovvertimento dello Stato, fu invitato a comparire nel termine di tre giorni: ben conscio della gravità dell'accusa e della corrispettiva severità della pena, fuggì. Otto giorni dopo la citazione venne colpito da una sentenza che lo condannava al bando perpetuo e alla privazione dello stato nobiliare, mentre sulla sua persona veniva posta una taglia cospicua. Mentre sulla validità delle imputazioni del 1607 poteva anche essere avanzata qualche riserva, nel quadro della lotta tra "giovani" e "vecchi" allora in corso a Venezia (e il Contarini e il Mocenigo erano cospicui esponenti della prima fazione), non sussistono dubbi su quella delle accuse del 1612. Già due anni prima l'ambasciatore spagnolo, Alfonso de la Cueva marchese di Bedmar, chiedeva al proprio governo il pagamento al B. d'una pensione di 2000 ducati annui per i suoi segnalati servigi di confidente; e del resto l'esistenza della trama tra il Bedmar e il B. venne rivelata da un informatore al servizio di Venezia in seno al Consiglio Reale di Spagna. Il caso B. travolse anche altri importanti personaggi quali Almorò Zane, ex-inquisitore, e i segretari delle ambasciate veneziane a Firenze e a Milano, ed ebbe ampia ripercussione nell'ambiente dei diplomatici stranieri accreditati a Venezia, nonché in parecchie corti europee, dove fu oggetto di contrastanti valutazioni.
Dopo la fuga, il B. riparò in Francia, ove seppe procacciarsi la protezione del duca di Guisa, e iniziò un'agitata esistenza che lo condusse in vari paesi e ne fece una specie di avventuriero, inseguito sempre dall'occhiuta vigilanza dei rappresentanti veneziani.
La diplomazia e i servizi segreti spagnoli pensarono di servirsi del B. e lo invitarono a rimanere in territorio francese per non destare ulteriori sospetti. Nonostante una autodifesa redatta dal B. in forma di lettera ai nipoti, è certa dopo il 1612 - e anche prima - la sua attività antiveneziana, al servizio della curia, dei gesuiti e della Spagna. In contatto col governatore spagnolo di Milano, col nunzio pontificio a Torino, con Carlo Emanuele I di Savoia e con Alfonso Idiaquez viceré di Navarra, col quale ebbe colloqui a Pamplona, il B. venne fatto segno a un primo tentativo di assassinio nell'anno 1615.
Negli anni seguenti si possono seguire gli spostamenti del B. attraverso la corrispondenza degli inquisitori di Stato: nel 1616 era a Parigi; nel 1617 e 1618 a Roma, donde Paolo V lo espulse, per non consegnarlo all'ambasciatore veneziano; nel 1619 lo si segnalava in Provenza, sotto il falso nome di Francesco Cortese; l'anno appresso, dopo esser stato a Bruxelles presso il suo vecchio amico Bedmar, si spostò, sotto il nome di monsignor Pianta, ad Amsterdam, ad Anversa, in Lorena e a Londra, mentre in suo favore la diplomazia francese interveniva nel 1621 presso il Senato veneziano, che però, nonostante i ripetuti e vivaci interventi dell'ambasciatore De Villiers, rispose con assoluta intransigenza. Ancora di passaggio per Roma nel settembre 1620, nell'estate del 1622 il B. si recò a Madrid per conto del cardinale Maffeo Barberini, il quale, prevedendosi prossima la morte di Gregorio XV, cominciava a tessere la trama per la propria elezione al pontificato. La missione ebbe successo e il Barberini ebbe l'appoggio spagnolo: un anno più tardi, il B., che nel frattempo aveva preso gli ordini sacri, era alla corte d'Urbano VIII, il quale gli mostrò tangibilmente la propria riconoscenza e gratitudine conferendogli benefici nelle diocesi di Pavia, Ferrara e Cervia; corsero anche prospettive di conferimento d'un vescovato in Spagna e perfino del cappello cardinalizio.
Due anni dopo, nel pieno della guerra di Valtellina, il B. si spostava da Roma a Parigi, latore di esortazioni papali al re cristianissimo per la pace con la Spagna. La sua attività fu di notevole portata, anche se occulta, nella conclusione della pace di Monzon del 5 marzo 1626, che concluse la crisi valtellinese senza che Venezia fosse neppur consultata dal suo alleato francese. Fu allora che il Senato veneziano decise di incaricare i Dieci di togliere di mezzo una volta per sempre l'intrigante e pericoloso fuggiasco. Nel giugno 1626 gli inquisitori, su mandato del Consiglio dei Dieci, incaricarono gli ambasciatori a Parigi e a Torino di far uccidere il B., il quale, avuto tuttavia sentore di quanto si preparava ai suoi danni, partì precipitosamente dalla capitale francese e, quantunque raggiunto a Maçon dal sicario incaricato d'eliminarlo, si salvò fortunosamente dall'attentato.
Quattro anni più tardi, nel 1630, il B. moriva a Roma. Non mancarono sospetti d'avvelenamento; le sue carte vennero per lo più bruciate: solo alcune pervennero nelle mani dell'oratore veneziano. Il B., morendo, lasciò una lettera sigillata diretta alla signoria: il Senato ordinò ch'essa fosse data alle fiamme senza neppure essere aperta.
La figura del B. non può essere riscattata da contemporanee o postume apologie: resta da vedere se il suo atteggiamento fosse dettato da ragioni, per così dire, ideali, di favore per una politica filocuriale e filospagnola sostenuta da alcune delle case "vecchie" della nobiltà veneziana, o se, più che questi fattori, tradizionali nella sua famiglia, non siano state piuttosto determinanti ragioni di lucro. Comunque, l'importanza degli episodi di cui il B. fu protagonista cospirò notevolmente a creare il pronunciato fermento antispagnolo nel quale maturò la montatura politico-propagandistica di quel celeberrimo caso politico che prese il nome di congiura di Bedmar.
Bibl.: R. Fulin, A. B., in Studi nell'arch. degli Inquisitori di stato, Venezia 1868 (che riassume tutta la bibliogr. precedente); P. Savio, Per l'epistolario di Paolo Sarpi, in Aevum, X (1936), pp. 9-10; G. Spini, La congiura degli Spagnoli contro Venezia, in Arch. stor. ital., CVII (1949), pp. 20-29; G. Cozzi, Il doge Nicolò Contarini, Venezia-Roma 1958, pp. 78, 117, 124-127, 136.