COLOCCI, Angelo
Nacque a Iesi (prov. di Ancona) da Niccolò, che apparteneva ad antica famiglia cittadina, e da una sorella di Floriano Santoni. Fortunata era il nome che il Lancellotti attribuiva alla madre del C. e il 1467 l'anno della sua nascita, ma è ora comunemente accettato quanto rivelava nel 1931 S. Lattès, secondo cui, in base a note di carattere biografico apposte alla fine del codice Vat. lat. 4787, il nome della madre risulta essere Ippolita e la data di nascita del C. il 24 luglio 1474.
Probabilmente compì i suoi studi a Roma, benché non sembri fondata l'affermazione dei suoi antichi biografi, secondo i quali egli avrebbe, avuto per maestro Giorgio Valla. Creato, ancora bambino, cavaliere aurato da Andrea Paleologo, nel novembre del 1483, era a Iesi nel 1486, quando la cittadina si sollevò contro il governo pontificio in favore degli Aragonesi, che sobillando i sudditi del papa cercavano di ripagarlo del suo appoggio ai baroni ribelli. La famiglia del C. fu coinvolta nei moti che scoppiarono il 2 giugno. Più degli altri risultò compromesso uno zio del C., Francesco, che con il nipote si rifugiò nel Regno. Si sostenne che a Napoli il C. conobbe i letterati che frequentavano la corte, ma sarebbe stato a Roma nell'agosto che egli avrebbe fatto conoscenza con il Pontano. Furono questi certo contatti determinanti per il giovanetto, ma sicuramente la loro importanza si sviluppò in seguito. Non è ben chiaro quando e quante volte tornò nel Regno; certo soggiornò a Sulmona e a Nola e ad Ascoli Satriano, di cui lo zio fu governatore fino al 1492, e assunto fra gli accademici pontaniani prese il nome di Bassus.
I suoi primi biografi concordano nello affermare che il C. tornò a Iesi nel 1491 e l'anno successivo ottenne la capitaneria di Belvedere. Acquistata nel 1497 la carica di abbreviatore de parco maiori, che esercitava per mezzo di un sostituto, si trasferì definitivamente a Roma l'anno successivo, come oratore degli Iesini presso il pontefice. Nel 1505 fu assunto nel patriziato romano e come abbreviatore rimase in carica fino al gennaio del 1510, ma già dal 1503 aveva comperato quella di procuratore della Sacra Penitenzieria; dal gennaio 1510 fino al settembre 1515 fu sollecitatore delle lettere apostoliche, mentre dal 15 ott. 1511 fino al settembre 1521 tenne l'ufficio di segretario apostolico. In seguito, deposte le altre cariche, divenne maestro del registro delle bolle e notaio della Camera apostolica; tenne lo appalto dei dazi fino al 1527.
Fra il febbraio e il luglio 1518 gli era morta la moglie, Gerolama Bufalini di Città di Castello, sposata probabilmente intorno al 1505, che fu seppellita nella chiesa dell'Aracoeli a Roma. Da lei il C. non ebbe figli e alla sua morte ebbe una controversia con i cognati per la restituzione della dote.
Morto Leone X, il papa che lo aveva beneficato in più modi e che il C. rimpianse per tutta la vita, tanto da scrivere in una lettera del 1536: "Io sono stato trenta anni molto felice in questa corte: da la morte di Lione in qua sempre infelice...", egli ottenne dall'austero Adriano VI la carica di governatore di Ascoli Piceno, il 15 febbr. 1523. Ritardò qualche tempo nel recarsi nella città marchigiana e la resse per mezzo di un vicario, il suo uditore Stefano Giuniori; dall'espletamento di questo incarico, che non gli era affatto congeniale, il C. non ricavò che fastidi e motivi di controversie. Fu infatti in contrasto con il tesoriere, che non voleva pagargli gli emolumenti per il tempo in cui era stato assente, e con gli Ascolani, che cercarono prima di impedire addirittura il suo arrivo e che poi, senza curarsi dei pochi atti di governo del C., insisterono nelle loro diatribe intestine e nella loro riottosità. Del resto il C. si sentiva in esilio e anelava al ritorno a Roma, che ottenne in breve.
Il nuovo papa, Clemente VII, conferì al C. un canonicato a Iesi, il 10 febbr. 1524. Egli, già danneggiato dal saccheggio di Iesi del 1517, durante il sacco di Roma fu taglieggiato due volte e dal luglio al dicembre del 1527 si rifugiò nella sua città natale, subendo però notevoli danni nei beni mobili e immobili e soprattutto nella biblioteca. Tornato a Roma agli inizi del 1528 riprese, per quanto fu possibile, la sua antica vita in attesa paziente - avendo evidentemente in epoca imprecisata lasciato lo stato laicale - di poter accedere al vescovato, che aveva per così dire "prenotato" con atto ufficiale nel novembre del 1521, quando era stato fatto coadiutore di Varino Favorino, vescovo di Nocera Umbra, con la riserva della successione. La riserva fu però annullata da disposizioni di Adriano VI e successivamente riconfermata da Clemente VII con un breve del 21 marzo 1524 e quindi da Paolo III il 18 dic. 1534. Quello che da tali atti ufficiali non appare è però la contrattazione avvenuta fra il C. e il vescovo, che aveva comportato da parte del C. la donazione almeno di una casa e di un giardino. Egli non mancò di far rilevare questi suoi esborsi per ottenere il vescovato sia in una memoria scritta in più copie e datata 24 genn. 1531 sia in lettere al vescovo Giammatteo Giberti dell'anno successivo, che non gli procurarono l'approvazione del presule. Ciò che rendeva problematico il suo accesso al vescovato era il fatto che egli aveva legittimato nel 1526 un figlio, Marcantonio, natogli il 28 nov. 1524 da una Bernardina, moglie di Giov. Maria Stagnini. Tuttavia alla morte di Varino Favorino, il C. diveniva, l'11 apr. 1537, vescovo di Nocera, nonostante qualsiasi impedimento che potesse opporvisi. Avendo ottenuto finalmente quanto agognava, l'anno dopo, nel marzo, il C. si recò anche nel suo vescovato e iterò le visite fino a che, nell'aprile del 1543, ritornò a Roma definitivamente, senza la minima intenzione di ritornare nella cittadina, di cui aveva a noia anche l'aria, a suo dire, troppo sottile. Due anni più tardi il C., creato dal 1538 tesoriere generale, rinunciava al vescovato in favore del parente Girolamo Mannelli, dopo aver tentato invano di passarlo al figlio, che era scrittore apostolico. Fu nel medesimo periodo, e cioè fra il luglio 1544 e il 6 sett. 1545, che questi venne a morte immatura.
Il C. gli sopravvisse fino al 1° maggio 1549, quando morì a Roma. Fu inumato in un primo momento in S. Andrea delle Fratte e da lì, secondo quanto afferma F. Ubaldini, traslato nella chiesa di S. Settimio a Iesi, dove nel 1550 gli sarebbe stata apposta una lapide dai nipoti Giacomo e Ippolito. Si dubita però che questa traslazione sia mai avvenuta e comunque non rimane traccia della tomba né nella chiesa romana, né in quella iesina.
Aveva fatto più volte testamento. L'ultimo di essi, a cui fu aggiunto un codicillo il giorno stesso della morte, porta la data del 31 luglio 1544. In esso, esprimendo il desiderio di essere sepolto nella città natale, aveva lasciato erede universale il figlio, ancora in vita; nel caso, poi avvenuto che il figlio gli fosse premorto senza eredi, dovevano subentrare Giacomo e Ippolito Colocci, discendenti dello zio Francesco.
Non sappiamo quanto a quell'epoca il C. possedesse del vasto patrimonio immobiliare che pure era stato suo. Oltre che di beni a Iesi, che avevano subito danni nel sacco della cittadina da parte di Francesco Maria Della Rovere nel 1517, era stato proprietario a Roma di case e terreni nell'area di S. Maria del Popolo e di altre case e vigne in altre zone della città; al Quirinale era di sua proprietà la casa che ospitava la tipografia del Collegio Greco di Roma. Era passata in suo diretto possesso la casa di Pomponio Leto al Quirinale, dove il C. aveva continuato le riunioni dell'Accademia. Abitava in Parione e suoi erano i celeberrimi Orti detti dell'Acqua Vergine., presso S. Andrea delle Fratte, attraversati dall'acquedotto dell'Acqua Vergine e forniti di una fonte, anch'essa notissima.
In essi, detti dal C. stesso Sallustiani, acquistati dal 1513, sorgeva una villa, che insieme alla casa in Parione, accoglieva un'imponente raccolta di statue, oggetti antichi e iscrizioni. Di queste, che sembra fossero circa trecento, ne sono state identificate una settantina e niente si sa sulla loro provenienza. Le raccolte archeologiche sono parzialmente descritte dall'Ubaldini su basi documentarie e bibliografiche; celebri pezzi identificati sono il Menologium Rusticum Colocianum, ora al Museo naz. di Napoli, una Nereide su un cavallo marino, ora alla Galleria degli Uffizi a Firenze, il citatissimo Piede Colotiano. L'interesse antiquario del C. fece sì che fosse attribuita alle sue cure l'edizione degli Epigrammata antiquae urbis (Roma 1521), Molto probabilmente dovuti a Mariangelo Accursio. La casa e il giardino dell'Acqua Vergine, con gran parte delle raccolte archeologiche, passati agli eredi Giacomo e Ippolito, il primo dei quali vendette la sua parte al secondo, che trasmise il tutto ai figli Francesco e Giov. Benedetto, furono venduti il 22 nov. 1600 ad Angelo e Ottavio Del Bufalo, già possessori di beni attigui.
Ma gli Horti Colocciani o Sallustiani, o dell'Acqua Vergine che dir si vogliano, non furono soltanto la splendida dimora di un fortunato collezionista; come altri simili nella Roma del primo Cinquecento, essi furono un centro di riunione di numerosi letterati presenti nella città e quindi una fucina di idee e un campo di scambi intellettuali, dove il C., splendido mecenate accogliendo una corte di letterati, favoriva e insieme partecipava alla vita culturale cittadina ed extracittadina.
Già dalla prima giovinezza, quando era entrato a far parte dell'Accademia Pontaniana, il C. aveva manifestato interessi letterari e una volta a Roma era divenuto il continuatore dell'opera di Pomponio Leto, raccogliendone l'eredità e continuandone l'Accademia nella sua stessa casa. Anche nel periodo trascorso a Iesi prima di stabilirsi definitivamente a Roma, il C. aveva fondato un'accademia nella sua città. In una lettera inviata al C. (riportata dall'Ubaldini) Giacomo Sadoleto illustra le riunioni romane di dotti, durante le quali venivano recitate poesie o pronunciate orazioni, ed elenca i partecipanti di cui si ricorda: Marcantonio Casanova, Bernardino Capella, Girolamo Vida, Filippo Beroaldo iunior, Giovan Piero Valeriano, Lorenzo Grana, Fausto Evangelista, Maddalena Capodiferro, Blosio Palladio, Girolamo Negri, Antonio Venanzi, Gian Francesco Bini, Ubaldino Bandinelli, Antonio Computista, Tommaso Inghirami, Cammillo Porzio e Pietro Bembo e Baldassarre Castiglione e altri, nomi più o meno noti, confusi insieme dall'appartenenza alla repubblica delle lettere. Anche con Hans Goritz il C. ebbe rapporti, che però, anche se suoi versi figurano nei Coryciana (Roma 1524, p. E 1v), si guastarono.
Oltre che ai legami con la maggior parte dei letterati contemporanei, la fama del C. è legata alla sua biblioteca. Essa, entrata nella Biblioteca Vaticana in varie fasi, non è ancora stata del tutto ricostruita. Oltre alla possibilità di identificazione di codici e stampati dalle numerose note marginali apposte dal C., varie fonti sono state usate finora per la sua ricostruzione. La più antica è un inventario autografo dei libri del C., conservato alle cc. 41-60 del t. XV dell'Archivio della Bibl. Vaticana; esso è però frammentario, disordinato e non datato e non può quindi costituire che un'illustrazione parziale dei libri del C. e non certo un elenco completo dei pezzi che entrarono nella Bibl. Vaticana. Nel Vat. lat. 3963 esiste invece un elenco di "libri vennero in Libraria sotto Marcello Cervini cardinale Sancta Cruce", dall'analisi del quale G. Mercati ricostruì un inventario di una cinquantina di libri, che, scelti dal card. G. Sirleto, per ordine di Paolo III, fra quelli del C. dopo la sua morte,. entrarono nella Bibl. Vaticana nel giugno del 1549. Con ogni probabilità nella stessa epoca avvenne da parte degli eredi la vendita di un blocco di libri del C. a Fulvio Orsini. La parte rimanente della biblioteca fu depositata dagli eredi nella Guardaroba pontificia e acquistata dalla Bibl. Vaticana nel 1558; nel Vat. lat. 3958, cc. 84-196, è infatti un "Inventario delli libri del Colocci di sacra scriptura fatto alli 27 d'ottobre 1558. Questi libri, contenuti in dieci o forse undici casse, non erano, come potrebbe indurre a credere l'annotazione, tutti di opere teologiche e religiose; queste occupavano soltanto le prime due casse. Le altre contenevano traduzioni di autori greci, specialmente Aristotele, opere greche, manoscritte e stampate, grammatici, storici e poeti antichi e moderni, classici come Cicerone e Terenzio, Ovidio e Virgilio, Orazio e Giovenale e molti manoscritti contemporanei. Anche i libri del C. passati a Fulvio Orsini confluirono con la biblioteca di quest'ultimo nella Vaticana nel 1602. Entrati, come si è visto, in più tempi e senza costituire quindi un unico blocco, si può dire perciò che i libri del C., più che riuniti, furono dispersi nella Vaticana, la quale non riuscì neanche a proteggerli da perdite gravi, quale quella del Virgilio Mediceo, che entrato nella Biblioteca nel 1549 o nel 1558, ne uscì, forse per volontà di Giulio III, e dopo varie peripezie e un altro breve soggiorno nella Vaticana, approdò felicemente alla Laurenziana. L'opera di riordino, avvenuta per lo più nel sec. XVIII, ha poi riunito in codici fattizi, appunti, fascicoli, minute ed opere varie, nel modo più tragicamente confuso e arbitrario. In quanto agli stampati, l'uso dello scambio o della vendita dei cosiddetti doppioni li ha enormemente depauperati.
Dai testì religiosi contenuti nella sua biblioteca non appare un interesse molto vivace dei C. per questo genere di opere. Sono presenti Bibbie e Vangeli, testi di Padri della Chiesa e di autori moderni come Bartolomeo Belloncini, Pio II, Pietro Balbi. Una parte non preponderante ebbero nella biblioteca del C. i testi greci. Molto si è scritto sulla conoscenza e su che tipo di conoscenza della lingua greca avesse il Colocci. L'opinione più diffusa è che egli, avendo provato più volte ad impararla, ne fosse rimasto con una imperfetta padronanza. Amico del Lascaris, di Matteo Devaris, di Guglielmo Sirleto e di Marcello Cervini e dipendente da loro per interpretazioni e traduzioni dal greco, il C. ebbe almeno due insegnanti per questa lingua, Varino Favorino e il Carteromaco, il quale mostrò di ritenerlo capace di interpretare un passo di Aristotele e di darne un giudizio. Questo contrasta con quanto ebbe a scrivere al medesimo il C. stesso, che confessava di non intendere gli epigrammi greci inviatigli dall'amico e maestro. D'altra parte tutti i codici greci appartenuti al C. sono abbondantemente annotati e il numero di essi, dai primi studi sulla biblioteca del C. ad oggi, va sempre più aumentando. Fra i suoi codici greci, notevole è il Vat. gr. 1164, un manoscritto miscellaneo di tattici greci del sec. XI di cui, come usava spesso fare, il C. fece eseguire una copia. Mentre poche sono fra le opere greche quelle letterarie, il C. possedette numerose traduzioni latine, manoscritte e stampate, di testi greci.
Tutti i grandi classici latini sono presenti nella biblioteca del C. e naturalmente fra essi prevalgono le opere oratorie e retoriche di Cicerone, secondo l'indirizzo corrente nella Roma del primo Cinquecento, di ammirazione e di imitazione degli autori del secolo di Augusto e di Cicerone in particolare. Fra questi classici pochi i codici antichi di particolare pregio, come il già nominato Virgilio Mediceo e un Orazio del sec. X (Vat. lat. 3257). Come è giustamente stato fatto notare, del resto, i codici di alto valore non erano lo scopo principale del collezionismo del C., in cui prevaleva l'interesse per il contenuto su quello estetico-bibliologico. In questo periodo di transizione e di coesistenza dei libro a stampa e del codice manoscritto, l'interesse per il testo a scapito di quello bibliologico proprio del C., indifferente al fatto che il libro fosse o no a stampa, è rivelato anche dalla abbondanza di annotazioni, di appunti, di sottolineature apposti nei suoi libri e nei suoi codici.
Nel Vat. lat. 3006 (c. 71) esiste uno schema sommario di un'opera sui pesi e le misure che il C. ebbe in animo per gran tempo di scrivere e che sicuramente non fu mai redatta. Di essa, il cui progetto era di una gran vastità e profondità e che doveva essere divisa in due libri, non è rimasta che una congerie inorganica di appunti, di brani di testi, di osservazioni, testimonianti il particolare interesse del C. per la metrologia, che, anteriore ai primi anni del secolo lo accompagnò tutta la vita. Cosicché il C., oltre a raccogliere e conservare molte opere di metronomi e di agrimensori, collezionò anche altre testimonianze riguardanti queste discipline, come il già nominato Piede Colotiano e un antico sestario. Nella sua biblioteca abbondanti inoltre i testi matematici, geografici e medici. Due lunghi frammenti, intitolati De situ elementorum e De quadrante, contenuti nel Vat. lat. 3353, furono dal Lancellotti indicati come opera del C., che, pure interessato a questi problemi, tuttavia, non pare ne sia stato l'autore. Grammatici, come Donato e Prisciano, e linguisti dell'età classica sono largamente rappresentati nella biblioteca dei C., che possedeva però anche trattati contemporanei di grammatica e di metrica latina. La storia della poesia ritmica era un altro argomento sul quale il C. aveva in animo di scrivere una opera. Questa aveva raggiunto forse un grado di elaborazione maggiore che non quella sui pesi e le misure, tuttavia non rimangono di essa che una serie di appunti raggruppati in vari codici vaticani, dai quali si deduce che sarebbe stata divisa in due libri, uno sulla rima nell'antichità, dalle origini mitiche, e uno da quando le rime si affermarono per influenza degli inni cristiani.
Suggeritogli dal suo interesse per le lingue romanze delle origini, uno dei grandi meriti del C. è quello di aver fatto copiare e di aver conservato due canzonieri della lirica portoghese: uno, già finito in possesso di privati, è riemerso negli anni Settanta del secolo scorso e noto come codice Colocci-Brancuti è ora nella Bibl. naz. di Lisbona (10.991), l'altro conservato nella Bibl. Vaticana (Vat. lat. 4803). Unico al suo tempo ad interessarsi di letteratura portoghese, della cui lingua aveva con ogni probabilità una conoscenza assolutamente imperfetta, il C. conservò anche "lais" portoghesi (in Vat. lat. 7182), compilò o copiò una tavola di autori portoghesi (Vat. lat. 3217, cc. 300-307)e annotò i suoi codici con la sua caratteristica frammentarietà e occasionalità, che non velano però specifici interessi per la metrica, per le lingue romanze, per i rapporti soprattutto che intercorrono fra di esse. Oltre a codici portoghesi, ne possedette anche di castigliani e catalani, pure se la sua conoscenza del castigliano e del catalano era anch'essa molto scarsa, come dimostrano due sue traduzioni, una dal castigliano e una dal catalano di testi considerati di scarso valore, che furono ritenuti dallo Ubaldini due sue opere. In quanto ai codici provenzali, al C. appartenne il prezioso Canzoniere M, che egli chiamava "libro di poeti limosini", già Vat. lat. 3794, ora alla Bibl. naz. di Parigi, Ms. franç. 12.474. Diesso sono note anche le circostanze e l'epoca dell'acquisto, che il C. fece per mezzo del Summonte dalla vedova del Cariteo, subito dopo la morte di questo (1514). All'amico napoletano il C. si era anche rivolto perché recuperasse del poeta scomparso la traduzione delle rime di Folchetto di Marsiglia, che egli credeva si trovasse fra le sue carte. Rivelatosi impossibile il. reperimento della traduzione, con ogni probabilità mai fatta dal Gareth, il Summonte incaricò da parte del C. il nipote del poeta catalano, Bartolomeo Casassagia, di tradurre alcune canzoni di Daniel Arnauz e di Folchetto di Marsiglia, delle quali si era reperita una trascrizione del Cariteo dal già nominato "libro limosino". Sulla traduzione letterale e interlineare del Casassagia, conservata nel Vat. lat. 4796 (di cui altre copie sono nella Vaticana), il C. lavorò intensamente, estraendone anche glossarietti, contenuti nel Vat. lat. 4817. Sia il "libro limosino", che la copia fattane fare dal C. (Vat. lat. 3205), contengono, secondo le abitudini del C., annotazioni staccate, traduzioni di versi, confronti con i poeti della scuola siciliana, con Dante, con Petrarca, varianti ricavate da altri manoscritti avuti in prestito, cosicché oltre che benemerito come conservatore di manoscritti, avendo della lingua occitanica una conoscenza più approfondita di quella dello spagnolo e del portoghese, egli trova legittimamente posto anche fra i primi studiosi della lirica provenzale.
Oltre all'aver preservato e studiato preziosi testi delle lingue iberiche francese (gli appartennero un dizionario latino-francese del sec. XIV, Vat. lat. 2748, e i Faits des Romains, Vat. lat. 4792) e occitanica, il C. possedette e conservò basilari testi italiani. Suo fu il "libro da varie romanze italiane" o "Siculo" (Vat. lat. 3793), prezioso e notissimo canzoniere della fine del sec. XII, contenente la poesia aulica siciliana, di cui il C. fece eseguire una copia, integrata da altre poesie (Vat. lat. 4823), dove appose la nota che ci tramanda il nome di Cielo d'Alcamo. Nel Vat. lat. 4787, del sec. XV, scritto pare dal padre del C., sono contenuti vari testi, fra cui il Canzoniere del Petrarca, che il C. confrontò con il Canzoniere parzialmente autografo, allora posseduto dal Bembo. Anche gli altri classici volgari, Dante e Boccaccio (di cui forse il C., secondo l'opinione di A. Campana, possedette e annotò il Decameròn autografo: Staatsbibliothek Preussischer Kulturbesitz di Berlino, Hamilton 90) erano presenti nella sua biblioteca. L'interesse del C. per la lirica volgare, che lo portò alla raccolta di questi autori, lo indusse anche alla compilazione di indici di parole, il più noto dei quali è l'Index verborum seu vocum collectus per A. C. ex Petrarcha, Siculo, rege Roberto, Barbarino, uno spoglio lessicale conservato nel Vat. lat. 3217; altri spogli non ordinati sono nel medesimo e in altri codici della Vaticana. Tutti rivelano l'interesse nutrito dal C. per i problemi lessicali e grammaticali, benché sfugga lo scopo pratico che lo indusse a compilarli.
Altri testi importanti abbiamo ereditato dal C., meno clamorosamente famosi dei già citati, ma egualmente preziosi. A lui è dovuta la conservazione della Fiorita di Armannino Giudice (Vat. lat. 4811) e una traduzione. della Bibbia in endecasillabi di Ciriaco d'Ancona (Vat. lat. 4821), testi ambedue con influssi i dialettali. Precipuo interesse del C. fu infatti quello del "problema della lingua" e i suoi appunti sul volgare italiano e i dialetti sono sparsi in molti suoi codici, ma specialmente nel Vat. lat. 4817. Sul problema molto vivo in quegli anni, egli concordava con opinioni del Bembo, del Castiglione, del Trissino, il quale sostenne che fu il C. a suggerirgli il concetto della lingua comune a tutta Italia usata dal Petrarca. Egli pensava che i dialetti derivassero dalle lingue prelatine e rivendicava ad ognuno il diritto di usare la propria lingua materna. Comune al circolo romano di Paolo Cortesi è il concetto basilare del C. secondo cui, pur nella superiorità della lingua toscana, i dialetti possono recare un apporto alla lingua letteraria. Oltre che nel Vat. lat. 4817, il C. espresse questi principi nel Vat. lat. 4831, che contiene numerose biografie di poeti, in particolare nella più interessante di esse, quella di Cecco d'Ascoli, e soprattutto li rese pubblici nella sua Apologia di Serafino Aquilano. Pierio Valeriano, esprimendo questi concetti, in seguito, nel suo Dialogo sopra le lingue volgari, li fece esporre dal C., introdotto come interlocutore. Dunque il C. fu il primo ad affermare pubblicamente opinioni comuni a più studiosi dell'epoca, che si sarebbero poi sviluppate più compiutamente. L'Apologia, premessa all'edizione romana delle rime di Serafino Ciminelli detto l'Aquilano, del 1503, curata dal C., oltre a illustrare le sue concezioni linguistiche, costituisce, controbattendo ad ipotetiche critiche, un'appassionata difesa dell'opera poetica del cantore-musico, che i posteri avrebbero giudicato piuttosto severamente.
Come opera del C. fu elencato dall'Ubaldini anche "un libro de racconti faceti in latino", che non è che un insieme di appunti, più o meno elaborati, riuniti senza che fosse tenuto conto delle diverse fasi dell'elaborazione, nel Vat. lat. 3450, dai quali il C. intendeva ricavare una raccolta di facezie, forse "a emulatione" del Facetiarum liber di Poggio Bracciolini. I Vat. lat. 3352, Vat. lat. 3353 e Ottob. lat. 2860 costituiscono una raccolta di epigrammi latini, suddivisa in 28 classi, che il C. mise insieme ad imitazione forse degli analoghi raccoglitori di epigrammi greci, riunendovi autori antichi e della sua epoca. Altro merito del C., umanista egli stesso, è infatti quello di aver conservato la produzione letteraria di umanisti a lui contemporanei o di poco anteriori. Le poesie latine e italiane, eleganti nella forma le prime, di modesto valore le une e le altre, scritte dal C., il cui nome trovò posto nel poemetto di F. Arsilli, De poetis urbanis, pubblicato in fondo ai Coryciana, furono edite, tratte dai Vat. lat. 4819e Vat. lat. 3388 e da varie raccolte stampate, da G. F. Lancellotti, nel 1772, di dove quelle italiane furono riedite nel vol. XII del Parnaso italiano (Venezia 1851, coll. 1256-1278).Il C. non tenne conto infatti di quanto aveva egli stesso enunciato nella citata Apologia: "iopiù d'ascoltare che dire mi son delectato et voglio più tosto tacendo non haver laude, che parlando in rime exponermi al pericolo". Raccolse poesie e opere talora autografe del Porcellio, del Sannazaro, di M. A. Casanova, del Molza, di Battista Casali, di Lorenzo Bonincontri, di Filippo Buonaccorsi, del Fidelfo, di Pietro Crinito, di Pietro Corsi, del Tebaldeo e di altri, per alcune delle quali progettò l'edizione.
La figura del C. conservatore di testi umanistici è intimamente legata a quella del C. editore di testi. Attribuibili alle sue cure furono almeno due edizioni, quella romana del 1503delle rime di Benedetto da Cingoli e la altra pure romana, senza data, delle poesie di Agostino Staccoli. Inoltre, dall'esame dei manoscritti che servirono per la stampa si deduce con assoluta sicurezza che il C., a cui Lucio Calenzio, figlio dell'autore inviò le opere fu il curatore dell'edizione degli Opuscula di Elisio Calenzio, stampata a Roma il 12 dic. 1503e dedicatagli. Gli Opera, il cuisottotitolo annuncia altre opere oltre alle due (Lucretiae libri duo e Virginiae libri duo)contenute nel libro, di Pacifico Massimi, legato da amicizia al C., uscirono postumi a Fano nel 1506; dovuti con ogni probabilità, alla sua cura, sono dedicati al C., che più di quaranta anni dopo pensava ancora di completarli. Forse anche il Bombyx di Ludovico Lazzarelli, edizione romana probabilmente del 1498, dedicatagli, fu curato dal C., cui pervennero parecchi manoscritti autografi dell'autore. Anche i carmi di P. G. Giustolo, che uscirono a Roma nel 1510, con una, dedica al C., al quale l'autore aveva dedicato anche un poemetto, furono curati dallo stesso C., che intervenne nel testo autografo con estrema libertà e spregiudicatezza. Pietro Summonte gli dedicò il De magnanimitate del Pontano, nell'edizione da lui curata del 1508, ma non si limitò a questo omaggio, ché interpolò il nome del C. non solo in quest'opera del Pontano, ma anche in altre del medesimo autore e nella dedica del III libro del De fortuna. Inoltre Antonio Mancinelli gli dedicò (Roma 1503)la sua Sermonum decas e il già nominato Pierio Valeriano, oltre che nel Dialogo sopra le lingue volgari, lo introdusse come interlocutore nel De litteratorum infelicitate e gli dedicò il ventitreesimo libro dei suoi Hieroglyphica (Lugduni 1594). Sarebbe però laborioso ricordare con quanti letterati il C. fu in relazione e in amicizia e quanti, in vita e successivamente, lo ricordarono nelle loro opere.
"Io pensavo che gli studi miei, la gloria mia che nasceria dagli studi e lettere fosse l'ultimo riposo mio ed io morirò che non si vedrà cosa alcuna di me" scriveva sconsolatamente il C. in una lettera degli ultimi anni di vita, ma, benché C. Dionisotti (Per Francescò Colonna, in Italia mediev. e uman, IV [1961], p. 323)abbia visto nella sua passione di raccoglitore di testimonianze archeologiche e bibliologiche una mania "esasperata dalla sterilità stessa e inconcludenza dello scrittore", il C. sbagliava. Come è stato affermato ormai da più studiosi, per il C. non sono le opere che danno la misura dell'uomo, quanto invece la vastità e la varietà di interessi, l'entusiasmo, sia pur velleitario, e soprattutto la sua mania di collezionista, tanto che egli è identificabile con la sua biblioteca, sia per la opera di conservazione sia per quella di annotatore e di studioso, che oltre a risvegliare la gratitudine dei cultori di molte discipline, li ha affascinati.
Fonti e Bibl.: Ancora importante per la biografia del C.: G. F. Lancellotti, Poesie ital. e latine di mons. A. C., Iesi 1772, e basilare, anche per il corredo di note fornito dal curatore, F. Ubaldini, Vita di mons. A. C., a cura di V. Fanelli, Città del Vaticano 1969. Inoltre, e siintenda che tutte le opere e gli articoli citati presentano l'indicazione di ulteriori fonti e bibliografia. per i moti di Iesi cfr. V. Fanelli, La ribellione di Iesi durante la congiura dei baroni, riedito ora in Ricerche su A. C. e sulla Roma cinquecentesca, a cura di J. Ruysschaert, Città del Vaticano 1978, pp. 18-29. Per i rapporti del C. con Adriano VI: V. Fanelli, Adriano VI e A. C., riedito ibid., pp. 30-44. Per il vescovato: L. Berra, Come il C. conseguì il vescovato di Nocera, in Giorn. stor. della lett. ital., LXXXIX (1927), pp. 304-16. Sui beni immobili e le raccolte archeologiche: R. Lanciani, Storia degli scavi di Roma, I, Roma 1902, ad Indicem; V. Fanelli, Aspetti della Roma cinquecentesca. Le case e le raccolte archeologiche del C., in Ricerche..., cit., pp. 111-25; Id., Le racc. archeologiche del C., ibid., pp. 126- 134. Per la bibl. in generale: P. de Nolhac, La bibliothèque de Fulvio Orsini, Paris 1887, ad Indicem; S. Lattès, Recherches sur la bibliothèque d'A. C., in Mélanges d'archéol. et d'histoire, XLVIII (1931), pp. 308-44; G. Mercati, Il soggiorno del Virgilio Mediceo a Roma nei secc. XV-XVI, in Opere minori, IV, Città del Vaticano 1937, pp. 259, 534-45; L. Michelini Tocci, Dei libri a stampa appartenuti al C., in Atti del Convegno di studi su A. C., Iesi 1972, pp. 77-96; V. Fanelli, Le lettere di monsignor A. C. nel Museo Britannico di Londra, in Ricerche..., cit., pp. 45-90. Per gli appunti del C. sui pesi e le misure: S. Lattès, A proposito dell'opera incomp. "De ponderibus et mensuris" di A. C., in Atti del Convegno, cit., pp. 97-108. Per il De situ element. e il De quadrante attribuiti al C.: F. Tateo, Gli studi scientifici del C. e l'uman. napol., ibid., pp. 133 ss. Sulla progettata storia della poesia ritmica: R. Avesani, Appunti del C. sulla poesia mediolatina, ibid., pp. 109-132. Per i codici portoghesi e per gli appunti colocciani agli stessi: E. Monaci, Il canzoniere portoghese della Biblioteca Vaticana, Halle 1875; E. Molteni, Il canzoniere portoghese Colocci-Brancuti pubblicato nelleparti che completano il cod. Vat. 4803, Halle 1880; A. Ferrari, Formaz. e struttura del canzoniere portoghese della Biblioteca nazionale di Lisbona, Paris 1979; e inoltre, S. Pellegrini, I "lais" portoghesidel codice Vat. lat. 7182, in Studi su trove etrovatori della prima lirica ispano-portoghese, Bari 1959, pp. 184-199; V. Bertolucci Pizzorusso, Note linguistiche e letterarie di A. C. in margine ai canzonieri portoghesi, in Atti del Convegno..., cit., pp. 197-203; V. Fanelli, Aspetti della Roma cinquecentesca. Note sulla diffus. della cultura ibericaa Roma, in Ricerche..., cit., pp. 154-167. Per le traduz. dal castigliano e dal catalano: J. Scudieri Ruggieri, Le traduz. di A. C. dal castigliano e dalcatalano, in Atti del Convegno..., cit., pp. 177-96. Per i codici e gli studi provenzali: S. Dibenedetti, Gli studi Provenzali in Italia nel Cinquecento, Torino 1911, ad Indicem; Id., Tre secoli di studiprovenzali, in Provenza e Italia, Firenze 1930, pp. 146 s. Per l'antica lirica italiana: D. Comparetti-A. D'Ancona, Le antiche-rime volgari secondo lalezione del cod. Vat. 3793, I-V, Bologna 1875-1888; Id., Il libro de varie romanze volgari cod. Vat. 3793, a cura di F. Egidi, Roma 1908. Sul problema della lingua e sull'Apologia di Serafino Aquilano: M. Menghini, Le rime di Serafino de'Ciminelli dall'Aquila, I, Bologna 1894; O. Olivieri, Glielenchi di voci italiane di A. C., in Linguanostra, IV (1942), 2, pp. 27 ss.; S. Lattès, Studiletter. e filologici di A. C., in Atti del Convegno ..., cit., pp. 243-55; A. Greco, L'Apologia delle - Rime - di Serafino Aquilano di A.C., ibid., pp. 205-219; V. Fanelli, A. C. e Cecco d'Ascoli, in Ricerche..., cit., pp. 182-205. Sulla raccolta delle facezie latine: P. Smiraglia, Le "Facetie" del C., in Atti del Convegno..., cit., pp. 221-29. Sulla raccolta di epigrammi: M. Fava, I cagnolini dell'epigrammatario colocciano, ibid., pp. 231-42. Per l'ediz. di testi umanistici: A. Campana, A. C. ..., ibid., pp. 257-272; Id., Dal Calmeta al C., in Tralatino e volgare per Carlo Dionisotti, Padova 1974, pp. 267-315; M. T. Graziosi, PacificoMassimi maestro del C. ?, in Atti del Convegno..., cit., pp. 157-168; E. Calentii Poemata, a cura di M. De Nichilo, Bari 1981. Per l'ambiente culturale del primo Cinquecento a Roma: G. Ballistreri. Due umanisti della Roma colocciana: il Britonio e il Borgia, in Atti del Convegno..., cit., pp. 169-76. Per la fortuna dei C.: V. Fanelli, La fortuna di A. C., in Ricerche..., cit., pp. 168-81. Infine cfr. anche P. O. Kris, teller, Iter Italicum, I-II, ad Indices.