CONTI, Angelo
Nacque a Roma da Vincenzo e da Agata Casali il 21 giugno 1860, in una famiglia di antica tradizione culturale originaria di Arpino.
Compì i primi studi nella allora capitale dello Stato pontificio, presso il collegio Poli retto dai padri francesi. Nel 1876 seguì il padre, insegnante di lettere, ad Arpino, dove frequentò il locale liceo. Quattro anni dopo tornò a Roma, per iscriversi al corso di laurea in medicina. All'apprendistato del C. tra malati e prove cliniche fa riferimento il Giovanni Episcopo di D'Annunzio; ma quegli studi universitari non lo condussero poi al dottorato.
Il giovane, infatti, preferì frequentare assiduamente quel gruppo di intellettuali, orbitanti intorno alla Cronaca bizantina di Sommaruga, che, nel segno di un decadentismo poi consacrato dal Convito di De Bosis, predicavano un estetismo totale e la pregnanza assoluta della bellezza: teorie le quali si incaricavano di saldare organicamente l'intellettuale alla borghesia e le fornivano la conferma della propria imbattuta centralità e l'antidoto sovrastrutturale ai processi di mobilità sociale interni allo sviluppo della produzione capitalistica. I contatti con la cerchia della Cronaca bizantina e l'idea connessa della supremazia dell'arte, anche sulla scienza, stornarono il C. dagli studi in medicina; egli partecipò attivamente a quel clima teorico e culturale, ne subì gli influssi e contribuì a determinarlo. In particolare strinse amicizia, e fino alla morte, con D'Annunzio, solidarizzando con le sue posizioni; e ciò sebbene il sacerdozio della bellezza, nella vita e nell'opera del C., si sovrapponesse ad una visione autenticamente religiosa, della realtà e si finalizzasse a dichiarati obiettivi etici.Dal concetto della santità del bello e della sua conseguente irriferibilità a schemi o generi il C. derivò un approccio eclettico ai valori della cultura. Si occupò così di specifici diversi: di musica, di arte, di letteratura; scrisse di critica e di estetica. Collaborò nella Roma degli anni Ottanta, al Don Chisciotte, al Capitan Fracassa, alla Cronaca bizantina, ma soprattutto, a partire dal 1882 e con lo pseudonimo di "Doctor mysticus", alla Tribuna e alla Tribuna illustrata. Combattè, nei suoi articoli, quel che definiva la putrefazione ammorbante la cultura italiana del periodo; elogiò il gruppo degli artisti romani, accomunati da una n-ùrabile volontà creativa; rivalutò la funzione della musica; propugnò il superamento del verisino, battendosi per la idealizzazione dei vero; teorizzò la serietà e la libertà dell'arte che schierasse sublinia istanze idealistiche contro l'uniformità dei dettati positivistici. La collaborazione a la Tribuna, continua e regolarmente remunerata, consentì al C., nel 1890, di sposare tmilia Tritony, a cui rimase legato fino alla morte da un profondo affetto e da cui ebbe sette figli. Nel 1892, per volere dei ministro F. Martini e forse per interessamento di D'Annunzio, fú assunto presso la direzione generale delle Antichità e Belle Arti; nello stesso anno pubblicò, presso la Società laziale di Roma, Introduzione a uno studio sul Petrarca.
Nel saggio, una ipotesi di lavoro per una monografia più ampia ed esauriente mai portata a termine, il C. giudicò Petrarca il primo uomo moderno, per la sensibilità della sua introspezione psicologica e per la trasfigurazione, spiritualistica ed eternante, da lui operata della natura, attraverso lo scioglimento della parola nella musica. Una poetica, quella attribuita alle scrittore trecentesco, che appariva riproponibile nel presente: in sintonia con Wagner e con il sensualismo plastico di alcune direttrici del decadentismo, il C. sottolineò che elemento fondante della lirica doveva essere "non la parola come lettera, ma la parola come suono e come ritmo" e che i suoni, "simboli di parole", dovevano suggerire "le idee eterne naturali". Sulle affermazioni contiane pesava l'eredità del simbolismo'e della nozione di musica quale momento rivelatore della rete di analogie sottese al reale; una tesi condivisa da D'Annunzio, che lodò lo studio petrarchesco nella prefazione a La beata riva.
Nel 1893 il C. fu destinato per il suo lavoro agli Uffizi di Firenze e, l'anno seguente, trasferito a Venezia, presso l'Accademia. Qui tenne anche regolari lezioni di storia dell'arte e fu incaricato dal governo di compilare una rassegna delle opere di pittura veneziana. Terminato il suo lavoro, nel 1895 avrebbe dato alle stampe della tipografia dell'Ancora il Catalogo delle gallerie di Venezia. Il soggiorno veneziano del C. - durante il quale rimase a contatto con D'Annunzio, anche egli frequentemente nella città lagunare, e conobbe Mario Fortuny ed Eleonora Duse, intrecciando con lei una fitta corrispondenza - fu però segnato dallo studio su Giorgione, edito nel 1894 da Alinari di Firenze.
La scelta del tema dell'analisi configurava una vera scelta di tendenza. La pittura veneta, e la giorgionesca in particolare, appariva tessuta di sottili fremiti paesistici e calata problematicamente nel mistero della natura: proprio quanto le nuove generazioni di artisti e di letterati dovevano sentire e rivivere. Nella "simpatia", del resto, il C. collocava il compito del critico: più che distanziarla oggettivamente. ed elaborare una dimostrazione scientifica, egli doveva essere toccato dall'opera considerata ed esprimere lo stato d'animo che essa gli stimolava. E l'opera tanto più era poesia, quanto più generava una gamma profonda di sentimenti, purificava le passioni, prolungava la natura e l'imitava nell'inesausta aspirazione alla bellezza. Un'arte e una critica estatiche: messi ai margini i valori dell'intelletto e della comunicazione, l'artista e il critico dovevano mirare allo stato di grazia della trascendenza; quello doveva produrlo, questi riprodurlo, "artifex additus artifici". Ruskin e Pater fornivano i materiali ideologici e metodologici di base: l'uno con il manifesto dell'arte preraffaellita, l'altro con l'idea della "unità e unicità delle forme dello spirito e dell'arte". Per questa teoria doveva considerarsi vana ogni specificità di approccio alle espressioni artistiche; e lo stile, se rivestiva di caratteri immortali l'opera, prescindeva totalmente dallo sviluppo delle tecniche e dei linguaggi. La vicenda di Giorgione era riassunta nel passaggio della sua pittura dalla colpa e dal dolore all'apoteosi della vita rinnovata e nella chiarificazione dell'arte come via religiosa alla conoscenza di Dio e all'annientamento in lui: una ipotesi suffragata da un discorso critico limitato e poco probante, perché impressionistico e fondamentalmente dissociante il contenuto dalla forma.
Nel 1896 il C. fu nuovamente richiamato a Firenze dove iniziò a collaborare al Marzocco, sin dal primo anno della sua attività editoriale. Attorno alla rivista fiorentina e ai due fratelli Orvieto che la animavano si raccolsero, in parte, gli stessi protagonisti del Convito. I programirà culturali erano, del resto, simili: anche nel Marzocco si celebrava tautologicamente la bellezza, come entità astratta e del tutto scissa dalla realtà storica del tempo, e la si destinava agli strati sociali più idonei e ricettivi e pertanto, culturalmente ed economicamente, privilegiati. Gli interventi contiani sul foglio di Angiolo Orvieto furono molto frequenti per almeno un decennio, dedicati prevalentemente alla critica d'arte; di rilievo uno scritto su Leonardo, in cui l'autore ritornò sul mistero della Gioconda, un tema già affrontato in Giorgione e presente in larghissime zone della produzione letteraria di fine e inizio secolo.
In La beata riva (Milano 1900) il C. ricapitolò e sviluppò le posizioni prima enunciate, elaborando una sorta di summa della sua concezione estetica e critica. Preceduto da una prefazione di D'Annunzio, che manifestava la sua stima all'amico e ne elogiava l'ascetismo estetico, per quanto non vivificato dalla creatività poetica, il volume dichiarava nel prologo le ascendenze teoriche dell'autore, nominando apertamente i suoi ispiratori: Platone, Kant, Schopenhauer.
Del filosofo greco il C. utilizzava in primo luogo la struttura dialogica delle opere, affidando ad Ariele e Gabriele l'organizzazione del trattato; e, definendosi "Platone platonior", attribuiva all'arte la capacità di attingere vertici divini e di elevare l'uomo alla contemplazione di nature e paesaggi in cui vivessero idee immutabili ed eterne, fuori dal tempo e dallo spazio. Quelle idee erano, kantianamente, proprietà ed estrinsecazione della "cosa in sé" e, al tempo stesso, strumenti per squarciare l'involucro del noúmeno. L'arte ritrovava il suo fine nell'additare una superiore vita universale, nella quale l'uomo si liberasse delle apparenze, sfuggisse alla costrizione della volontà del vivere individuale, sede del male e del dolore, e arrivasse alla verità, dissolvendosi e contemplandosi in un supremo oblio. Era il nirvana, proposto da Schopenhauer, che, nella teoria contiana, assumeva forme e caratteristiche talora contraddittorie. Alla scoperta del buddhismo e della nolontà si congiungeva e si opponeva una visione cristiana di esplicita finalizzazione dell'arte alla rivelazione e all'annientamento in Dio. Per quest'ultimo aspetto la creazione poetica era assimilata alla preghiera, che l'artista rivolgeva alla natura e il critico all'arte. Ed anche il discorso esegetico, con più forza che in Giorgione, veniva associato alla tensione di una mistica negazione nel noúmeno, in un rapporto simpatetico con l'itinerario sentimentale dell'artista. Nietzsche, letto in chiave dannunziana, forniva le coordinate del superomismo, nei suoi aspetti di assoluta preminenza culturale e sociale del poeta-vate; ma Schopenhauer restava il polo di riferimento obbligato. Secondo il C. il creatore (e il critico, "artifex additus artifici") esprimeva la sua individualità, la oggettivava e se ne separava, trasfigurandola in una suprema sfera contemplativa, solo grazie all'intuizione. L'arte (e la musica in particolare, forma espressiva più pura) bandiva ogni proprietà logico-comunicativa per rifugiarsi in questa definita, romanticamente ed idealisticamente, come forma di conoscenza immediata. Pur idealisticamente rivolta a valori etico-mistici, e non al paganesimo vitalistico di una ideologia letteraria strumentale e attenta alle mode, la scelta dell'intuizione, quale fattore costitutivo dell'arte, accomunava lo scrittore romano a D'Annunzio; ma lo accostava anche alla poetica del fanciullino di Pascoli. La capacità intuitiva, a parere del C. che utilizzava le tesi di Carlyle, nasceva dalla meraviglia e dallo stupore, prerogative della condizione infantile: ìn stretta convergenza con gli enunciati pascoliani, l'artista veniva definito "come un fanciullo a cui tutte le cose producono un senso di meraviglia". La beata riva valeva a dimostrare, con largo anticipo, come dannunzianesimo e pascolismo fossero le due facce, al fondo sovrapponibili, di un'unica dimensione irrazionalistica della letteratura. Semmai quanto configurava la parte meno caduca del credo estetico contiano era la consapevolezza del carattere transcunte del raggiugimento della "cosa in sé", oltre la barriera fenomenica. L'intuizione dell'idea. la meta dell'idea-bellezza e del dissolvimento della vita individuale erano obiettivi che, pur conseguiti, vanificavano di continuo. Al di là forse delle intenzioni del C., la sua teoria dell'arte implicava la totale episodicità della catarsi, sicché la creazione artistica finiva per delinearsi come una serie ininterrotta di cadute e di fallimenti e si ritrovava, tendenzialmente aperta e frammentaria, ad individuare la propria utopia ed a scoprirne, nel suo svolgersi, la irrealizzabilità. In questo itinerario problematico e carico di contraddizioni, si oscurava parzialmente l'assoluta, superumana positività dell'intellettuale creatore e si incrinava la pienezza del suo mandato sociale. Anche per ciò La beata riva fuun termine di confronto nella cultura primonovecentesca in Italia. Su di essa rifletterono Papini e Prezzolini; Campana la inserì nel suo vasto repertorio di letture per la elaborazione dei Canti orfici.
Nel 1901 il C. tornò a Roma, presso la direzione generale delle Antichità e Belle Arti. Sempre a contatto con gli amici della giovinezza, collaborò ancora al Marzocco, con note di critica d'arte talora propense al gusto per la parola. Scrisse di Michelangelo e del Beato Angelico, di Rembrandt e di Masaccio, manifestando una qualche inclinazione al trionfalismo nazionalistico emergente in quegli anni; si batté per la tutela e la conservazione del nostro patrimonio artistico ed ambientale. A questo fine, in Ilmonumento della terza Italia, (in NuovaAntologia, 16 marzo 1904, pp. 385 ss.), propugno lo sviluppo e l'approfondimento delle tecniche del restauro. Nel 1904 fu definitivamente trasferito a Napoli, in qualità di direttore della Pinacoteca al Museo. Nel capoluogo campano conobbe gli intellettuali che vi operavano, in particolare Croce, Di Giacomo e Gemito. Accanto all'attività di funzionario, svolta senza pedanterie burocratiche, il C.. non tralasciò la produzione editoriale. Dedicato al Croce, Sul fiume del tempo (Napoli 1907) raccolse alcuni scritti precedentemente pubblicati e li articolò in un libro di viaggi, di sapore stendhaliano.
Le città capitali dell'arte italiana diventavano le tappe di uno scandaglio nell'io dell'autore, le isole del fiume del tempo che si risaliva alla ricerca delle sorgenti primordiali, desunte dalla religione cristiana. In una osmosi ininterrotta, arte e paesaggio, opera dell'uomo e ambiente naturale convergevano nella meta suprema dell'epifania di Dio. Sulle stesse premesse Dopo il canto delle sirene (ibid. 1911), se proponeva la regressione mitica nella religiosità creativa degli artieri medievali, auspicava, in una visione missionaria dei compiti intellettuali, una riforma artistica, pedagogica e sociale, a cui probabilmente non era estranea la suggestione delle aperture della politica, giolittiana. Così, in bilico tra cristianesimo contemplativo e cristianesimo militante, il C. manifestava il disagio per la tecnologica civiltà contemporanea e insieme, progettando un miglioramento delle istituzioni scolastiche, auspicava la trasformazione dei musei in centri di educazione artistica del popolo. Le contraddizionitra idealismo aristocratico e cattolicesimo attivo, tra l'assolutezza di un'arte eterna e l'obiettivo condizionamento della storia, si riflettevano insomma nell'opera e nelle scelte di vita dell'autore di La beata riva. Ristampato nel 1911 con alcune varianti, Sul fiume del tempo, il C. si pronunciò per l'interventismo, posizione che gli alienò la simpatia di Croce, e si diede contemporaneamente ad una intensa attività umanitaria, anche a favore degli artisti napoletani economicamente meno abbienti.Nel dopoguerra e fino alla morte l'attività pubblicistica del C. si diradò. Grazie alla fama di cui godeva, egli sporadicamente pubblicò sul Mezzogiorno, Il Mattino, Corriere della sera (Borgese, direttore del quotidiano milanese, gli dedicò L'autunno di Costantinopoli). Ma preferì coltivare, pressoché esclusivamente, il proprio ambito professionale, a contatto con dipendenti poco burocratizzati come Ferdinando Russo e Libero Bovio; e, più volentieri, ripiegò su se stesso e sugli affetti familiari, meditando e approfondendo la scelta cristiana. Anche di fronte al fascismo la sua fu una posizione di isolamento. Se, infatti, in Domenico Morelli (Napoli 1927) scrisse finalizzando le sue impressioni alle idee di razza e se aveva accettato alcune mitologie fasciste, caldeggiando lo sventramento urbanistico per cui il regime avrebbe fatto scempio di alcuni quartieri popolari romani, pure volle tenersi in disparte, fedele unicamente ai principi cristiani della solidarietà. Restò amico, così, e senza tentennamenti, di decisi oppositori al fascismo quali Amadeo Bordiga, conosciuto nel periodo della guerra. Nel 1925, intanto, era stato nominato direttore della Pinacoteca al palazzo reale di Capodinionte. Gli ultimi cinque anni della sua vita furono di riflessione e di bilancio, nella quiete della collina partenopea. La paralisi bulbare che lo colpì intensificò la sua meditazione. Gli studi su Virgilio dolcissimo padre (Napoli 1931) e su San Francesco, pubblicati postumi, più che occasioni di rivisitazione critico-teorica, erano momenti di impegno del credente, teso alla propria individuale sublimazione e rivolto alla edificazione del lettore. E in SanFrancesco (Firenze 1931) la figura di Giotto e della sua arte, ritenuta difficilmente eguagliabile, era in secondo piano, mentre campeggiava da protagonista la vicenda del poverello di Assisi: un itinerario esemplare di proiezione di tutte le energie vitali verso il mondo ultraterreno della salvezza.
Aggravatosi il suo male, il C. morì a Napoli all'alba dell'8 luglio 1930.
Bibl.: Necrologio, in Il Marzocco, 13 luglio 1930; Corriere della sera, 13 luglio 1930; La Stampa, 15 luglio 1930; Pegaso (Firenze), agosto 1930, pp. 224-27; Il Mattino, 8 ag. 1930; T. Rovito, in Letterati e giornal. contemporanei, Napoli 1922, p. 110; T. Verratti, A.C. L'uomo, l'esteta, il credente, Napoli 1931; G. Papini, A. G. poeta, pref. ad A. Conti, San Francesco, Firenze 1931, pp. 5-33; G. Bellonci, Arte e fede di A.C., in IlGiornale d'Italia, 30 genn. 1931; G. Artieri, A.C. e s. Francesco, in Il Mattino, 18 ag. 1931; M. Limoncelli, A.C., Napoli 1933; B. Croce, Esempio di critica esterizzante, in Problemi di estetica, Bari 1954, pp. 46-50; G. Prezzolini, Il tempo della "Voce", Firenze 1960, pp. 41 s.; C. Salinari, Miti e coscienza del decadentismo ital., Milano 1960, pp. 83, 91; W. Binni. La poetica del decadentismo, Firenze 1961, p. 48 e passim;C. Galimberti, D. Campana, Milano 1967, p. 19 e passim; E. Ghidetti, Il decadentismo, Roma 1976, pp. 137-40.