DELLA PERGOLA, Angelo
Le origini e le prime imprese militari di questo condottiero sono piuttosto oscure: la tradizione vuole che il suo vero nome fosse Angelo dal Foco, ma in tutti i documenti egli è ricordato con il nome del luogo d'origine, Pergola (attualm. in prov. di Pesaro e Urbino).
Le prime notizie certe di cui disponiamo si riferiscono al 1397: in uno dei codici maletestiani di Fano il D. è elencato tra i capitani arruolati da Pandolfo Malatesta per portare aiuto militare a Bonifacio IX contro i Colonna. Negli anni successivi il nome del D. compare sempre più spesso nelle cronache contemporanee: nel 1405 le sue milizie in marcia verso Pisa, assediata dai Fiorentini, vennero sorprese e battute da Ludovico Migliorati, signore di Fermo (secondo altri cronisti dallo Sforza). Nel 1406 il D. combatté valorosamente, ma senza fortuna, a Rocca Contrada contro Braccio da Montone. Nel 1409 fece parte dell'esercito della lega che alle porte di Roma sconfisse Ladislao di Durazzo re di Napoli. La pace stipulata tra Firenze e il Durazzo scontentò i Seriesi che si videro costretti ad assoldare diversi capitani, tra cui il D. con 150 lance e una compagnia di fanti, per sorvegliare e difendere i confini del territorio della Repubblica. Il D. fu nominato capitano generale delle genti d'arme di Siena, e la sua ferma fu rinnovata per due anni: le sue milizie furono impegnate in diversi scontri militari nel territorio tra la Toscana e il Lazio, dove riconquistarono alcune posizioni già perdute dai Senesi. I documenti senesi, pubblicati dal Nicoletti, mostrano che il governo della Repubblica riusciva a fatica a mantenere il controllo sulle milizie del D., le quali in più occasioni si abbandonarono al saccheggio dei territori circostanti senza obbedire ai richiami delle autorità senesi.
In seguito, tornato al servizio dei Malatesta, il D. combatté nuovamente contro Braccio nella battaglia di Sant'Egidio (12 luglio 1416), ma il valore che in essa dimostrò non valse a rovesciare l'esito del combattimento, dominato dalla superiorità tattica del nemico. Braccio da Montone, confermatosi così nella signoria di Perugia, lo fece catturare e imprigionare.
L'anno successivo il D. fu assoldato dalla città di Bologna per assoggettare con la forza San Giovanni in Persiceto, che rifiutava l'egemonia bolognese. Egli restò poi al servizio di Bologna con duecento lance e cento fanti al suo seguito, con il compito di tutelare l'ordine interno nella città dove infuriavano le lotte delle fazioni. Passato al servizio del legato pontificio nella Marca anconetana, combatté contro i Montefeltro e nel 1420 mosse contro la stessa Bologna per riportarla sotto il dominio papale, unito alle milizie di Braccio da Montone, Ludovico Migliorati e Carlo Malatesta. Ottenuta la resa della città, il D. restò a presidiarla a nome del legato papale. Dopo alcuni mesi, poiché le paghe dovutegli si facevano attendere, il D. si asserragliò in Castel San Pietro e si diede a scorrere il territorio bolognese con le sue truppe, saccheggiando e seminando il terrore. Solo dopo lunghe trattative, che videro l'intervento degli ambasciatori fiorentini e di alcuni eminenti cittadini bolognesi, il D. accettò una transazione, liberò gli ostaggi che teneva custoditi nel castello e se ne partì verso la Romagna. In questo episodio alcuni hanno voluto vedere un tentativo del D. di farsi signore di un piccolo dominio territoriale, ma lo svolgimento dei fatti fa pensare piuttosto alla volontà di sfruttare al meglio la sua posizione di forza per trarne vantaggi immediati.
La presenza del condottiero in Romagna (estate del 1421), dove il D. combatteva una sorta di guerra privata contro i signori locali, non fece cessare la preoccupazione dei Fiorentini, che vedevano minacciata da vicino "la pace di Toscana", e temevano soprattutto che il D., da quella posizione pericolosa, passasse ai servizi dei duca di Milano e tentasse di prendere Bologna a nome del Visconti. Si svolsero allora concitati incontri tra gli oratori fiorentini, il papa e Braccio, che dal suo accampamento napoletano offriva i suoi uffici per far assoldare il D. dalla regina di Napoli. Braccio, che era in contatto con gli emissari del D., riteneva che il condottiero non avrebbe tardato a collegarsi col Visconti, "perché senza soldo non può stare" (Commissioni di Rinaldo degli Albizzi, I, p. 349).
L'accordo col Visconti era in effetti già concluso, ma le circostanze impedirono ciò che Firenze temeva maggiormente, e cioè che il D. continuasse a combattere nell'Italia centrale. All'inizio del 1422 il Visconti giudicò che fosse giunto il momento di muovere contro gli Svizzeri che occupavano alcuni territori ai confini del ducato, e inviò il D. a recuperare la Valdossola. Portata felicemente a termine questa impresa, il D. si uni al Carmagnola e combatté nella battaglia di Arbedo (30 giugno 1422). Alcuni cronisti attribuiscono al D. l'audace decisione di far scendere da cavallo gli uomini d'arme per combattere corpo a corpo con gli Svizzeri che, sebbene inferiori di numero, stavano per scompaginare le file ducali. A invece certo che fu il Carmagnola a voler portare la battaglia alle estreme conseguenze, inseguendo e massacrando i valorosi Svizzeri nella loro fuga. Per queste imprese contro gli Svizzeri, il D. fu ricompensato con il feudo di Sartirana (I registri viscontei, p. 43).
Nei mesi seguenti, il Visconti si servì abilmente della fama bellicosa che il D. si era guadagnato nelle spedizioni contro gli Svizzeri inviandolo a presidiare i confini piemontesi del ducato: nell'estate del 1423 il D. era acquartierato con le sue truppe nei pressi di Mortara, e qui - seguendo gli ordini ricevuti - non si asteneva dal promuovere scorrerie e saccheggi e provocare incidenti di frontiera che tenevano in allarme le popolazioni e gli ufficiali sabaudi. Il D. non partecipò invece, come segnalano alcuni cronisti, alle prime mosse espansionistiche del Visconti verso l'Italia centrale. In Romagna fu inviato un altro capitano visconteo, Sicco da Montagnana, il quale, sotto pretesto di tutelare gli interessi del figlio del defunto signore di Forlì dalle ingerenze degli Stati confinanti, occupò la città. Forlì era n'elle terre pontificie, ma la minaccia milanese si indirizzava principalmente verso Firenze, che non tardò infatti a prepararsi allo scontro. I movimenti del D. e degli altri generali viscontei sono registrati attentamente nelle relazioni delle spie del governo fiorentino (Commissioni diRinaldo d. Albizzi, I, p. 519). Il D. si unì all'esercito milanese in Romagna solo all'inizio del 1424 quando, a tradimento, si impadronì della rocca e della città di Imola, fece prigioniero il signore della città e lo condusse a Milano. Il successo di questa spedizione venne premiato dal Visconti con la concessione del feudo di Zeme in Lomellina e della prestigiosa contea di Biandrate, che già era stata di Facino Cane e che sarebbe passata al D. alla morte di Filippino Cane, feudatario in carica.
Lo scontro tra Milano e Firenze riprese nell'estate del 1424. La Repubblica assoldò Carlo e Pandolfo Malatesta e intensificò l'azione diplomatica sul legato bolognese per impedire, o comunque ritardare, la discesa in Romagna dell'esercito visconteo al completo. Il tentativo si rivelò inutile: dopo Nicolò Guerriero anche il D., con 1.500 lance, si ricongiunse agli altri capitani viscontei in Romagna e si diede ad assoldare fanti e guastatori, attaccando quindi alcune terre di minore importanza. Nel frattempo i Malatesta, alla guida dell'esercito fiorentino, erano riusciti a recuperare Forlì, ma i Viscontei evitarono di attaccare quella piazza ben difesa e posero l'assedio al castello di Alberico da Barbiano a Zagonara, sperando di attirarvi il grosso dell'esercito nemico. Le ultime esitazioni dei Fiorentini furono vinte dall'ambiguo atteggiamento tenuto dal Barbiano, che si dichiarò intenzionato ad arrendersi se non avesse ricevuto soccorso entro pochi giorni.
A Zagonara (28 luglio 1424) le truppe comandate dal D., che contavano 4.000 cavalli ed altrettanti fanti, si disposero in parte allo scoperto, e in parte dietro agli steccati costruiti in precedenza attorno alle fortificazioni del borgo. L'esercito fiorentino giungeva in marcia da Forlì su un terreno battuto da forti piogge. I Viscontei disposti allo scoperto diedero immediatamente battaglia approfittando della stanchezza dei nemici; l'esercito dei Malatesta, fidando sulla propria superiorità numerica, si spinse in avanti fino a cadere nell'agguato teso dietro agli steccati e qui iniziò lo scontro, deciso infine dall'arrivo da Forlì delle genti d'arme guidate da Sicco da Montagnana. Per i Fiorentini fu una grave rotta; tra le molte perdite si contarono alcuni valorosi capitani, e diversi altri furono fatti prigionieri. Anche Carlo Malatesta, al cui servizio il D. era stato a lungo, fu catturato. I cronisti riportano le frasi irose che il Malatesta rivolse al D.: esse, vere o solo plausibili, esprimono tutto il livore di un mondo cavalleresco in estinzione di fronte all'astuzia e al valore militare di un rusticus venuto dal nulla.
Il D. scelse in questa battaglia metodi di combattimento - quali la diversione, la rapida e incalzante successione dei tempi, lo scontro diretto per risolvere in tempi brevi il combattimento, - che gli furono propri anche in altre occasioni. Nelle sue battaglie più famose, il D. si affidò soprattutto alla forza delle armi usando tattiche rudimentali, ma in definitiva al condottiero visconteo va riconosciuto un indubbio ardimento e coraggio nella guerra combattuta, e specialmente in questa battaglia, che fu dura e feroce, e fu presa ad esempio da W. Block (Die Condottieri, Berlin 1913), per confutare la nota tesi machiavelliana delle "battaglie senza sangue" di quell'epoca.
Dopo Zagonara, per diversi mesi, il D. continuò a seminare il terrore in Romagna conquistando castelli e terre dei Malatesta, quindi si diresse verso la Toscana senza risparmiare il saccheggio e la spoliazione dei territori e delle popolazioni. In molte occasioni il Visconti scelse il D. per questo tipo di incarichi: in tale speciale attitudine alla brutalità il D. si mostrò erede dei costumi feroci delle compagnie di ventura del XIV secolo piuttosto che partecipe delle innovazioni introdotte da Braccio e Sforza nelle tecniche di combattimento. Attorno al capitano visconteo sorsero in quest'epoca dicerie a proposito di un suo accordo con un inviato fiorentino, ma l'episodio è oscuro, mentre altri fatti ricordati dal Machiavelli lo mostrano ben determinato nel mettere a sacco i territori romagnoli; ancora nel novembre del 1424 il D. prendeva Gradara, e vi faceva prigioniero Galeazzo Malatesta.
Tornato in Lombardia, nei primi mesi del 1425 il D. fu inviato ad Asti con numerose schiere per portare soccorso ai signori di Ceva ribelli ai Savoia: si trattava soprattutto di un'azione dimostrativa intesa a dissuadere questi ultimi dall'alleanza con Venezia, che sembrava imminente. Successivamente, il D. fu inviato in Lunigiana e poi in Liguria per parare i tentativi di ribellione orditi dai Fieschi e dai Fregoso, e alimentati dai pericolosi collegamenti di questi ultimi con Alfonso d'Aragona. L'esercito visconteo, guidato dal D. e da altri capitani, fu sorpreso e spogliato dal nemico mentre era negli accampamenti a Sestri (20 giugno 1425).
È da rilevare accanto al D., in questi anni, la presenza costante di Erasmino Trivulzio, capitano di una formazione stabile dell'esercito milanese, che faceva da tramite tra il condottiero e il duca. Il Trivulzio ebbe, ad esempio, l'incarico di sondare segretamente il D. a proposito del rimborso dei danni riportati dai suoi a Sestri, e di indurlo a moderare le pretese per evitare che anche gli altri capitani esigessero lo stesso trattamento. Con un numero elevato di condottieri al proprio servizio il Visconti doveva usare tatto e cautela trattando con ognuno di loro; con il suo più recente acquisto, il "conticello" Francesco Sforza, il duca si era assicurato una pedina importante in anni in cui l'assoldamento dei più famosi condottieri condizionava pesantemente le fortune militari degli Stati. Allo Sforza doveva perciò essere assicurata la preminenza sugli altri capitani, evitando però di scontentare questi ultimi, ai quali occorreva tributare premi e riconoscimenti. Il Trivulzio fece sapere che al D. riusciva sgradito il titolo di maresciallo, e il duca rispose che, non volendo attribuire ad alcuno il titolo di capitano generale "per un voto fatto a se stesso", lo nominava suo luogotenente, "salvo in quei luoghi ove fosse presente il conte Sforza" (Osio, II, p. 143). Per confermargli il suo apprezzamento, inoltre, il duca gli promise per il figlio Delfino la cattedra vescovile di Parma.
Nel luglio 1425 il D. tornò in Romagna, dove conquistò e incendiò il castello di Solarolo, accampandosi quindi a Faenza, mentre di lì a poco Guido Torello ottenne per il duca una significativa vittoria a Borgo San Sepolcro contro i Fiorentini. Alcuni cronisti attribuiscono invece al D. la vittoria, ma le fonti ducali milanesi non lasciano dubbi. In parte per sfiducia nei suoi capitani, in parte per la difficoltà di associare in battaglia condottieri notoriamente divisi da rancori che perduravano da generazioni, il Visconti era costretto a spostare continuamente i condottieri su vari fronti: mentre Guido Torello combatteva a Borgo San Sepolcro il D. si trovava in Lunigiana, dove era stato inviato dal duca.
Tra il 1425 e il 1426 le truppe del D., associate a quelle del Trivulzio, si divisero tra i territori del confine piemontese e quelli del Parmense: sembra che il D. fosse allora nominato commissario straordinario a Parma, con il compito particolare di sorvegliare i cittadini che tentassero di passare il confine e, all'approssimarsi della guerra contro Venezia, di unirsi alle forze del marchese di Ferrara. La guerra tra le due potenze, che inaugurava una serie di scontri protrattisi poi per oltre un trentennio, iniziò nel gennaio del 1426 con un'azione a sorpresa dei Veneziani che si impadronirono di alcune importanti fortificazioni della città di Brescia. Nelle vicinanze era solo Francesco Sforza, il quale, benché fornito di schiere esigue, con un'azione tempestiva riuscì a limitare il danno e a conservare alcune fortezze nelle mani del duca di Milano, quindi ad allontanarsi dalla città per ricongiungersi all'esercito visconteo che era per la massima parte stanziato in Romagna. Il D. e il Trivulzio, acquartierati nel territorio parmense, prepararono il terreno per il rientro delle truppe viscontee attraverso i territori del marchese d'Este. Fu costruito per l'occasione un ponte sul Panaro, ma il successo dell'operazione fu assicurato soprattutto da un'accorta iniziativa diplomatica, in virtù della quale i sudditi del marchese non opposero alcuna seria resistenza al passaggio dell'esercito ducale, composto di 7.000 cavalli e diretto alla volta di Brescia (marzo 1426).
Alcuni documenti del Senato veneziano rivelano che in questi mesi il D. era in trattative per passare al servizio della Repubblica veneta (cfr. Battistella, p. 120); i contatti erano forse suggeriti e appoggiati dal Carmagnola, ma non ebbero esito.
Nei primi mesi di combattimento la fiacca condotta di guerra dell'esercito milanese - mentre il duca intensificava l'azione diplomatica in tutte le direzioni possibili - lasciò ai Veneziani tutto il tempo necessario per cingere Brescia in una gigantesca fortificazione. Sembra che in quei mesi al D. fosse attribuita la preminenza su tutti gli altri capitani, forse per la sua stessa età avanzata. Egli non si mostrò tuttavia all'altezza della situazione: tentò una diversione nel Mantovano nella quale furono perpetrate molte inutili atrocità senza peraltro smuovere il Carmagnola da Brescia, teatro principale delle operazioni. Alcune modeste vittorie riportate dal D. e ingrandite dalla propaganda viscontea furono di fatto superate da azioni più decisive della flotta e dell'esercito della lega antimilanese. Dopo questi insuccessi, e prolungandosi per diversi mesi le operazioni di guerra, lo Sforza e il Piccinino criticarono apertamente la mancanza di iniziativa e l'eccessiva prudenza del Della Pergola. I due giovani condottieri, certo più animosi e desiderosi di primeggiare, tentarono alcune azioni ardite, ma isolate, che non ebbero buon esito. L'autorità dell'anziano condottiero era comunque minata, e per superare il momento critico il duca affidò il comando a Carlo Malatesta, nipote dell'omonimo signore di Rimini. L'evento culminante della seconda fase della guerra fu la battaglia di Maclodio (12 ott. 1427).
Nella tragedia manzoniana che ha per protagonista il conte Carmagnola, il D. è presentato, insieme con il Torelli, come un prudente consigliere che tenta di dissuadere l'inesperto Malatesta dall'infausta battaglia, ma di fronte all'ostinazione e alla smania di combattere dello stesso Malatesta, dello Sforza e del Piccinino, l'anziano soldato si schiera in prima fila e combatte valorosamente. Il Manzoni si ispirò al Billia e al Redusi, ma le narrazioni di questi fatti sono quanto mai discordi nei vari cronisti. Sappiamo per certo che l'esercito milanese fu attirato a Maclodio su una striscia di terreno circondato da paludi e qui fu facilmente battuto dal Carmagnola, che poteva valersi di forze più numerose e di un sensibile vantaggio logistico.
Le ultime imprese del D. sono relative agli eventi conclusivi di questa guerra, nei primi mesi del 1428: il Redusi riferisce che il D. con il Piccinino si inoltrò nella Valle di San Martino, di recente fortificata dal Carmagnola, prese le fortezze, seminò stragi e incendi e infine si ritirò.
Nell'aprile del 1428 egli morì improvvisamente a Bergamo (Billia, col. 106), secondo altri a Cremona. La morte del luogotenente venne annunciata in una lettera di Filippo Maria Visconti all'imperatore Sigismondo, con accenti particolarmente commossi e con un sincero rimpianto che fanno pensare a un'amicizia personale tra il duca e il vecchio soldato (Osio, II, p. 376). Le sue milizie, concludeva il Visconti, erano rimaste affidate ai suoi due giovani figli, Antonio e Leonoro, che avevano scarsissima esperienza nel mestiere delle armi.
Fonti e Bibl.: Esiste una breve biografia di B. Fagioli, A. D., capitano di ventura del secolo XV, Pergola 1902, nella quale l'autrice si vale di documenti tratti dai principali archivi dell'Italia centrale già pubbl. da L. Nicoletti, Di Pergola e dei suoi dintorni, Pergola 1899, pp. 483-517. Altri documenti relativi al D. sono nelle seguenti raccolte di fonti: Commissioni di Rinaldo degli Albizzi, a cura di C. Guasti, Firenze 1867-1873, ad Indicem;L. Osio, Documenti diplom. tratti dagli archivi milanesi, II,Milano 1869-1870, ad Indicem;A. Zonghi, Repert. dell'antico Archivio comunale di Fano, Fano 1888, pp. 21, 39; Inventari e registri del Regio Arch. di Stato di Milano, I, I registri viscontei, a cura di C. Manaresi, Milano 1915, ad Indicem; II, 1-2, Gli atti cancellereschi visconteil a cura di G. Vittani 1920-1929, ad Indices; C.Santoro, La politica finanziaria dei Visconti. Documenti, III,Milano 1983, p. 159. Altri documenti relativi al D., utili per mettere un po' d'ordine tra le notizie spesso confuse delle cronache, sono stati citati o pubbl. dai seguenti autori: A. Pezzana, Storia della città di Parma, II,Parma 1842, ad Indicem; A. Battistella, Ilconte Carmagnola,Genova 1889, p. 120 (e anche pp. 55-59, 63 n., 64, 153, 163, 169); F. Gabotto, La guerra tra Amedeo VIII di Savoia e Filippo Maria Visconti (1442-1428), in Boll. della Soc. pavese di storia patria, VII (1907), pp. 452-466, 479-488. Tra i cronisti e gli storici contemp. sono da citare: A. Billia, Rerum Mediolanensium Historia, in L. A. Muratori, Rer. Ital. Script.,XIX,Mediolani 1731, ad Indicem;L. Cribelli, De vita rebusque gestis. Sfortiae, ibid., coll. 641 s.; A. Redusi, Chronicon Tarvisinum, ibid., coll. 824, 852 s.,862-866;F. Biondo, Historiarum ab inclinato Romanorum imperio, decades tres, Basileae 1559, ad Indicem; C.Ghirardacci, Della historia di Bologna, II,Bologna 1655, ad Indicem; M. Sabellico, Historiae rerum Venetarum, Venezia 1718,pp. 494-497, 502-516.A. Minuti, Vita di Muzio Attendolo Sforza, a Ira di G. Porro Lambertenghi, in Miscellanea di storia italiana, VII (1869), pp. 144-49;N. Machiavelli, Istoriefiorentine,a cura di S. Bertelli, Milano 1968, pp. 228 s., 235 s.Sono infine da ricordare, oltre a quelle già cit., le seguenti opere, utili a chiarire alcuni momenti e vicende della biografia del D.: E. Giannini, Mem. istor. di Pergola e degli uomini illustri di essa, Urbino 1732, pp. 106-144;Th. von Liebenau, La battaglia di Arbedo secondo la storia e la leggenda,in Boll. stor. della Svizzera italiana, VIII (1886), pp. 55 s., 163, 166, 193, 216, 220, 223, 255 s., 258;G. Bonelli, Un codice piemontese di interesse lombardo,in Arch. stor. lomb., s. 4, XI(1909), p. 182;A.Butti-F. Fossati, note di commento a P. C. Decembri Vita Philippi Mariae tertii Ligurum ducis, in Rerum Italicarum Scriptores,2 ediz., XX, 1, pp. 73s., 88-93;F. Fossati, note di commento a P. C. Decembri Annotatio rer. gest. in vita Francisci Sfortiae quarti Mediolanensium ducis, ibid., pp. 572-576,N. Valeri, L'Italia nell'età dei principati, Milano 1949, pp. 403,418, 420, 442;F. Cognasso, Il ducato visconteo da Gian Galeazzo a Filippo Maria, in Storia di Milano, VI,Milano 1955, ad Indicem; M. Mallett, Mercenaries and their masters. Warfare in Renaissance Italy,London 1974, p. 64; G.Andenna, I castelli, in Andar per castelli. Da Novara tutto intorno, Torino 1982, p. 153.