FABRONI (Fabbroni), Angelo
Nacque a Marradi (Firenze) il 7 sett. 1732, da Alessandro e Giacinta Fabroni, ultimo di undici figli. La famiglia era tra le più cospicue del luogo, facendo parte dal primo Seicento della nobiltà di Pistoia (nel cui distretto rientrava allora Marradi). Nell'autobiografia il F. ricorderà con compiacimento che il Varchi, nella Storia fiorentina, l'aveva menzionata tra quelle fedeli ai Medici anche in momenti critici, e nelle vite del Magnifico e di Leone X ricostruirà quegli episodi.
Compiuti a Marradi gli studi elementari col maestro G. Scalini, il F. conobbe G. Ferri, professore di retorica nel seminario di Faenza, col quale resterà in rapporto fino agli anni pisani (l'epistolario conserva diverse lettere del Ferri). Costui l'apprezzò e ne influenzò le scelte culturali, che nel giovane F. ebbero tono iniziale spiccatamente umanistico; fu questo orientamento a spingerlo verso un proseguimento degli studi a Roma, dove nel 1750 ottenne un posto di convittore nel collegio "Bandinelli", riservato a giovani del Granducato di Toscana. Al trasferimento a Roma seguì quasi subito la morte del padre, che aggravò la situazione finanziaria della famiglia, già non brillante (l'autobiografia imputa al padre una cattiva amministrazione); ciò destò subito in lui l'esigenza acuta di una sistemazione autonoma. Gli allievi del collegio "Bandinelli frequentavano i corsi del Collegio Romano dei gesuiti, dove il F. seguì l'intero corso secondario superiore (il biennio di retorica ed il triennio di filosofia).
Questa circostanza permette di comprendere tratti della sua cultura ed anche sue posizioni successive, in ciò che ebbero di diverso sia rispetto a certo cattolicesimo "moderno", cui pure appartenne, sia rispetto ai tipici connotati illuministici, che accettò in molti aspetti senza mai aderire del tutto al loro spirito di fondo. Come molti ex allievi della Compagnia giunti a posizioni contrastanti con la sintesi culturale che le era propria, egli esprimerà verso di essa (particolarmente dopo la soppressione del 1773, anche se implicitamente già prima) precise riserve, divenute critiche anche aspre nel caso di suoi esponenti più dogmatici o spregiudicatamente tattici; ma il suo giudizio negativo non si estenderà automaticamente a tutte le attività dell'Ordine e a tutti i suoi esponenti. In particolare egli esenterà dalla condanna la grande tradizione erudita e retorico-filologica dell'Ordine e (con qualche maggior riserva) quella scientifica. I suoi profili di due figure centrali di quest'ultima, G. B. Riccioli e R. G. Boscovich, sono ricchi di rilievi critici e indicano con chiarezza il peso che in loro le pregiudiziali metafisiche costituirono per il libero corso della ricerca, ma ne evidenziano anche la straordinaria operosità e cultura, lo scrupolo e anche l'importanza di spunti o risultati. La stessa notevole componente scientifica nella cultura del F. maturo derivò in parte dagli studi nel Collegio Romano o dalla lettura di autori che, senza essere ancora accolti nei programmi, comparivano nei dibattiti che vi avevano luogo (come il leibnizianesimo, con Chr. v. Wolff, e la fisico-matematica dei newtoniani).
L'autobiografia indica i docenti del F. nel Collegio, e questo, per la consuetudine gesuitica di ruotare annualmente gli insegnanti di molte discipline, consente di datare i suoi anni di corso: negli anni 1750-1751 e 1751-1752 seguì i corsi di retorica (letteratura latina) di G. Pichi e G. M. Mazzolari (a distanza di decenni qualificherà ancora come mediocrissimo il primo, eccellente il secondo), contemporaneamente studiò logica e geometria (e, pare, anche diritto) con G. Brunacci, e filosofia naturale e metafisica con S. Guidi, che il F. trovò ancora troppo limitato a canoni scolastici, cosicché si pose per suo conto a leggere autori recenti (W. J. Gravesande, J. Keill, Wolff, esponenti della svolta matematico-sperimentale subita dalla filosofia naturale. Come scrisse poi, queste letture gli riuscirono difficili a causa di una base scientifica inadeguata; la sua competenza nel settore non diverrà mai specialistica, restando quella d'un lettore onnivoro, sensibile all'impatto conoscitivo di concetti e metodi e informato sulla varietà di sviluppi e posizioni. Basterà questo a fare di lui uno dei giudici più informati e acuti dell'impatto della nuova scienza sulla cultura e la società italiana nei secoli XVII e XVIII. Tra i maestri gesuiti del F. non vi fu (come talora si è scritto) il Boscovich, che proprio dal 1750 aveva lasciato per alcuni anni l'insegnamento nel Collegio Romano per lavorare alla misura di un arco di meridiano tra Roma e Rimini.
In questi anni gli interessi umanistici del F. si precisarono in direzione storico-critica più che direttamente letteraria; per la letteratura (come per le arti figurative) egli mostrerà sempre vivo interesse ma ben presto comprese di non avere attitudini alla produzione poetica (cui pure pagò l'usuale pedaggio giovanile). Invece già nelle esercitazioni scolastiche si fece apprezzare dai maestri per le composizioni in prosa latina, che nel Collegio furono ben valutate anche da figure eminenti come G. Lagomarsini e P. Lazzeri. Già in queste prime prove, e sempre più in seguito, l'oratoria del F., nei limiti delle voghe stilistiche correnti e delle finalità occasionali, tese a moduli sobri, funzionali ai contenuti, identificandosi con la stessa costruzione razionale del discorso; egli stesso esprimerà poi questo ideale giudicando la sua prima prova storiografica, il De vita et rebus gestis Clementis XII: in tali opere, scriverà, occorre che "ita, res exponantur ut quasi structae et nexae verbis ac sententiis videantur", così come la "propria historici judicandi libertas" si connette con la "inquisitio et investigatio causarum, quae moverunt aut consilia aut assensiones" (Vitae, XX, p. 8).
Nel 1753 (probabilmente tramite un docente interno del "Bandinelli", il canonico D. Cantagalli) il F. conobbe P.F. Foggini, esponente significativo del circolo di G. Bottari, bibliotecario della famiglia Corsini e sostenitore di posizioni di rigorismo etico di ispirazione giansenistica, in contrapposizione cauta, ma netta, con quelle gesuitiche. Nelle parole del F., il Foggini fu per lui come un secondo padre; oltre ad apprezzarne le doti, questi lo presentò elogiativamente al Bottari, che chiese al giovane di divenire suo coadiutore nel canonicato di S. Maria in Trastevere. L'accettazione della proposta implicava, da parte del F., l'assunzione degli ordini, il che egli fece nonostante la contrarietà di familiari e amici; da allora egli alternò gli obblighi religiosi (suppliva spesso il Bottari nelle sue incombenze e nella spiegazione pubblica del catechismo) agli studi eruditi ed alle relazioni che l'amicizia col prelato gli veniva aprendo. In questi anni egli si mosse, ideologicamente, nell'area del gruppo bottariano che, scriverà poi, "mirum in modum favebat Jansenistis", e collaborò ampiamente ad un programma, coordinato dal Bottari, di traduzioni di testi giansenisti francesi. Le sue traduzioni apparvero anonime, e non sempre sono individuabili con sicurezza; fu notevole, tra esse, l'edizione delle Massime della marchesa di Sablé tradotte dal francese e colle note di A.M. Fabroni, Roma 1756.
Quando, nei suoi ultimi anni, il F. si riaccostò alla riflessione religiosa in una nuova chiave di spiritualismo ascetico, che lo portò a sentire i dibattiti teologici come marginali o distorcenti rispetto alla centralità della fede, egli volle minimizzare il suo impegno giovanile, presentandolo come frutto d'inesperienza o come atto di devozione al Foggini e al Bottari. In realtà una sua adesione al giansenismo vi fu (come asserì, nel commento all'autobiografia, il vecchio amico D. Pacchi), anche se essa non fu teologicamente molto radicata; ma negli anni toscani essa si attenuò molto: il F. seguitò a collocarsi in un'area di cattolicesimo aperto, incline alla tradizione patristica più che a quella scolastica, ma non fu coinvolto nelle contrastate vicende della vita religiosa in Toscana sotto il granducato di Pietro Leopoldo; tenne contatti cordiali con personalità del gruppo di S. de' Ricci o con giansenisti bresciani come G. Zola, ma non si affiancò loro in tesi o iniziative. Il giudizio storico è stato incerto se vedere in questo la prova d'un vero distacco dalle idee giovanili (Codignola) o il ricorso alla cautela, dovuto anche al ruolo pubblico da lui rivestito (Passerin d'Entrèves); almeno altrettanto, forse, occorrerebbe riferirsi alla natura non primariamente teologica dei suoi interessi: l'essere uomo di chiesa non fu in lui un tratto dominante (come in un Bottari), anche se il suo costume di vita restò sempre coerente a tale stato.
Tramite il Foggini e il Bottari il F. entrò in rapporto con i Corsini, la potente famiglia cui era appartenuto Clemente XII; di questo papa, per suggerimento del Foggini, stese una biografia (con il chiaro intento personale di conseguire qualche beneficio, ma anche con quello ideologico di difendere la linea cautamente anticonvenzionale che quel pontefice aveva in parte avviato). Questa sua prima prova storiografica gli apparirà poi inadeguata, anche se per essa ricevette consigli e aiuti (che provano il coinvolgimento del gruppo bottariano nella riuscita del lavoro).
Apparsa a Roma nel 1760, l'operetta (De vita et rebus gestis Clementis XII Commentarius) non possiede ancora l'essenzialità e trasparenza poi tipiche dello stile fabroniano, e l'intento celebrativo non riesce a risolversi del tutto nell'argomentazione; vi si colgono già, comunque, l'orientamento solidamente fattuale e l'abito critico desunto dall'erudizione ecclesiastica e muratoriana.
Il cardinale Neri Corsini ricompensò l'autore, senza però procurargli quella sistemazione adeguata e stabile che forse si era ripromesso dal lavoro; nel frattempo, il F. si era già posto in luce presso la Curia tenendo, su richiesta del maestro del Sacro Palazzo, A. Orsi, un'orazione per la festa dell'Ascensione del 1755 alla presenza di Benedetto XIV (De Christi Domini Ascensione oratio habita in Sacello Pontificio, Romae 1755). Il papa apprezzò il testo, e intervenne in favore del F. quando questi ebbe difficoltà a farsi includere tra i beneficiari delle borse di perfezionamento per laureati in legge appartenenti alla nobiltà pistoiese, istituite con un lascito dalla famiglia Rospigliosi.
Già in precedenza il F. aveva messo a frutto le nozioni di diritto acquisite dal Brunacci nel Collegio Romano, conseguendo la laurea in legge nello Studio di Cesena, in una delle periodiche visite ai familiari, a Marradi (alle quali risalgono sette lettere al Bottari, degli anni 1755-1759, ora in Roma, Bibl. d. Acc. naz. dei Lincei, ms. Corsiniano 1584, cc. 7-17). Gli anni fin verso il 1765 (la borsa Rospigliosi aveva durata di otto anni) furono per il F., liberato da preoccupazioni finanziarie immediate, un periodo di studi legali proficui, soprattutto canonistici, che gli consentiranno poi la assunzione di incarichi amministrativi, ma anche di partecipazione intensa alla vita culturale romana, nonché a certe forme di mondanità. Per il primo aspetto, egli lavorò anche alla rielaborazione d'un trattato di Z. B. Vari Espen (lo Jus ecclesiasticum universum o il Commentarius in Canones et Decreta), che non pubblicò mai; essa non si trova oggi tra i manoscritti pisani del F., che conservano solo degli Studi di teologia e di sacri canoni (Pisa, Bibl. univ., ms. 425). Scrisse anche, per conto di avvocati, un numero imprecisato di orazioni giudiziarie, anch'esse non conservate.
Il fatto che il F. centrasse i suoi studi su un autore come il Van Espen è significativo, se si ricorda che questi era stato forse il maggior rappresentante della tendenza giansenista in sede di diritto canonico, e che le sue opere comparivano tutte nell'Indice. Depone nello stesso senso il fatto che il card. F. Tamburini, figura notoriamente vicina ai circoli degli innovatori, lo scegliesse come proprio accompagnatore nel conclave del 1758, che elesse Clemente XIII. Tramite l'amicizia ormai stretta con i Corsini il F. frequentò gli ambienti nobiliari, condividendone i passatempi (compresi i giochi di società, debolezza di cui farà ammenda nell'autobiografia), ed è certo che considerò Roma, e quegli ambienti, come il luogo definitivo della propria vita. Questi anni (che il F. considerò sempre i suoi più felici, se non i più produttivi) furono decisivi per il maturare delle sue relazioni, ma anche delle scelte culturali più caratteristiche; egli acquistò una notevole capacità di mantenere rapporti coi ceti dirigenti, pur senza mai ridursi a postulante e mantenendo sostanziale coerenza e indipendenza: di tale abilità darà prova nella propria successiva ascesa professionale e nell'avveduto lavoro di promozione delle proprie opere. Frequentò anche le numerose accademie e partecipò ai salotti letterari romani, ecclesiastici e nobiliari, battiti ed eventi letterari, teatrali ed artistici, conoscendo anche J. J. Winckelmann e A. R. Mengs, col quale ultimo ebbe un dissenso circa l'attribuzione a Scopa di un gruppo di statue medicee raffiguranti il mito di Niobe, negata dall'artista (dopo la morte di Mengs il F. riproporrà la propria tesi nella Dissertazione sulle statue appartenenti alla favola di Niobe, Firenze 1779, che stampò anche in francese: Dissertation sur les statues appartenantes à la Fable de Niobé, Florence 1779). Frequentò anche i circoli eruditi e probabilmente anche quelli scientifici; fu membro dell'Arcadia romana (col nome di Finarbo Euroteo).
Tra le sue aderenze letterarie, non solo romane, il F. raccolse allora una silloge di poesie per le nozze d'una principessa Corsini (Componimenti poetici per le faustissime nozze di Francesco Caetani con Teresa Corsini, Roma 1757) e frequentò inoltre un cenacolo letterario solito a riunirsi nel palazzo Odescalchi; tuttavia la tendenza storico-critica dei suoi interessi, già emersa con la biografia di Clemente XII, si confermò con una traduzione dal Mably (G. Bonnot de Mably, I dialoghi di Focione, Roma 1763; in seguito Venezia 1764 e 1798, Napoli 1814). L'attenzione dedicata a un autore non conformista destò reazioni a Roma (dove, annotò in seguito il F., le virtù esaltate dal Mably non erano in auge), ma il lavoro ebbe successo; l'interesse per Mably, rimasto costante, mostra che rispetto alla generazione dei Bottari e dei Foggini nel F. si dava ormai l'innesto dell'anticonformismo teologico su uno ideologico e storico-politico di matrice preilluministica, ed anche enciclopedistica. Una influenza di Montesquieu su di lui è stata osservata più volte (particolarmente nello specchio ampio e differenziato offerto dal Giornale de' letterati), e vari luoghi dei suoi lavori mostrano conoscenza, ed anche cauto apprezzamento, delle idee di Voltaire, Diderot, Condorcet. Queste aperture non diverranno però mai scelte ideologiche radicali, né determineranno una rottura pratica con tradizioni e realtà della Roma pontificia; così il F. poté accostare alla traduzione di Mably la forte difesa delle tesi giacobite contenuta nell'orazione funebre per Giacomo III Stuart (il Vecchio Pretendente) pronunciata in S. Maria in Trastevere (In funere Iacobi III Magnae Britanniae Regis Oratio, Romae 1766), oltre all'aspirazione del tutto convenzionale a una collocazione prestigiosa nella Curia, come quello di scrittore delle lettere latine pontificie. Fu prossimo ad ottenere la nomina a uditore di mons. P. Pamphili, nunzio di Clemente XIII presso Luigi XV, ma la cosa non si concretò (pare per opposizione dei gesuiti, che intesero evitare che un uomo vicino al Bottari esercitasse un'influenza nelle relazioni tra Francia e S. Sede). Tuttavia l'ipotesi (di G. Natali e altri) che il suo ritorno in Toscana fosse un modo per sottrarsi ad una ostilità attiva della Compagnia non trova riscontro nella documentazione nota. Prima di lasciare Roma scrisse un De vita Herculis Francisci Dandini commentariolus (Romae 1767, poi apparso anche nel volume II dell'edizione romana delle Vitae) e diede avvio alla sua iniziativa più impegnativa fino ad allora, quella delle Vitae Italorum doctrina excellentium qui saeculo XVIII floruerunt (I-IV, Romae 1766-1774; V, Florentiae 1775).
Ogni volume comprendeva dieci biografie (donde l'uso di denotare i volumi come deca I, II, ecc.); sebbene il titolo alludesse al solo secolo XVIII, fin dal vol. II, con la biografia di M. Malpighi, il F. incluse personaggi del secolo precedente, e col volume IV la dizione "in saeculo XVIII" scomparve dal titolo. La genesi d'un progetto così ambizioso e delicato (per il riferirsi a realtà culturali appena trascorse, spesso ancora operanti) in un autore giovane, le cui prove precedenti erano d'impegno ben minore, non è documentata; l'autobiografia accennerà all'intento di trapiantare nella cultura italiana il modello francese dell'éloge, ben diverso da quello retorico-celebrativo che vi prevaleva, e la forma matura delle biografie fabroniane mostra chiara l'influenza, pur nella forma linguistica latina, degli scritti d'un Fontenelle. Tuttavia, se in questo senso l'operazione si raccordava al cosmopolitismo dell'età, essa intendeva riaffermare il valore del contributo italiano di fronte ad una cultura europea che, dagli anni di Galileo, lo aveva sempre più messo ai margini. In questo senso l'edizione romana delle Vitae fu uno dei primi sintomi della rivendicazione della vitalità della cultura italiana dopo il Rinascimento nei confronti dell'invadenza, anche linguistica, della Francia, divenuta esplicita in scritti successivi del F. e in varie iniziative del tardo Settecento (quale la Società italiana delle scienze di A. M. Lorgna, che, si dirà, si varrà appunto del F. come d'un proprio Fontenelle).
Le biografie dei cinque volumi sono spesso meno estese ed approfondite di quelle che compariranno nella riedizione pisana; furono tutte scritte dal F., tranne poche di autori prestigiosi, già edite e che egli non ritenne di poter sostituire con proprie: le biografie di D. Guglielmini e di A. M. Valsalva erano di G. B. Morgagni, quella di V. F. Stancari di E. Manfredi, quella del Manfredi stesso di F. Bianchini. La preparazione dei testi fu molto più d'un lavoro individuale. Sia per promozione dell'opera e sua personale, sia per esigenze di documentazione il F. entrò in contatto con esponenti superstiti di quelle generazioni di fine Seicento e primo Settecento che erano l'oggetto principale delle sue ricostruzioni. Questi contatti sono documentati copiosamente dall'epistolario, conservato in buona misura nella Bibl. univ. di Pisa (66 lettere del F. e 472 a lui) e in porzioni minori altrove (Forlì, Bibl. com., Collez. Piancastelli, Carte Romagna: 51 lettere; Ibid., Fondo antico, ms. 138: 126 lettere di P. Frisi al F.; Milano, Specola di Brera, Archivio antico: 12 lettere, Savignano sul Rubicone, Bibl. com., ms. 27: 7 lettere a G. C. Amaduzzi; Parma, Bibl. Palatina, Carteggio bodoniano, cass. 39: 17 lettere al Bodoni; Modena, Bibl. Estense, cod. It. 878: 6 lettere a G. Tiraboschi Bologna, Bibl dell'Archiginnasio, cod. B 160: 5 lettere a F.M. Zanotti; altre in gruppi esigui si trovano nella Bibl. naz. di Firenze, nella Bibl. apostolica Vaticana, ecc.).
Il F. aveva avviato il progetto all'inizio degli anni '60 (l'imprimatur del volume I è del 1762), ma affrontò la stampa solo dopo numerosi giudizi favorevoli, integrazioni e ritocchi. F. M. Zanotti gli fornì informazioni importanti per la propria biografia (apparsa poi nel vol. V della seconda edizione pisana) e sull'ambiente culturale bolognese del primo Settecento; corresse ed arricchì le notizie su J. B. Beccari, E. Manfredi e F. Bianchini; fece da tramite tra il F. e l'altro illustre superstite della tradizione scientifica emiliano-veneta, G. B. Morgagni, che rivide la vita di G. M. Lancisi, fornì dati per la propria (apparsa nella deca II) e per quelle di L. Bellini e G. Poleni, e intervenne sullo stile latino dei testi insieme a J. Facciolati (poi puntualmente biografato nella deca III). Le biografie di letterati furono sottoposte fin dal 1761 a C. I. Frugoni e in parte, dal 1767, a P. Metastasio, che fornì dati sul suo maestro G. V. Gravina e ottenne al F. l'accettazione della dedica dei volumi IV e V da parte di Maria Teresa e Giuseppe II. Astraendo da altri interventi avutisi nella prima edizione, va detto che nella seconda pisana lo scolopio C. Antonioli fu consulente abituale per lo stile latino e le biografie di letterati ed eruditi, mentre T. Perelli e P. Frisi lo furono per diverse biografie di scienziati (un ruolo tutto speciale, sul quale si tornerà, svolse L. Brenna). Nel grande sforzo di documentazione compiuto dal F. in questi anni rientrò già, quasi certamente, l'inizio della sua grande raccolta di opuscoli italiani dei secoli XVI-XVIII (scientifici, storici, biografici, teologici, di antiquaria ecc.), proseguita negli anni toscani, nata anche dal suo gusto di appassionato bibliografo e cultore dell'arte tipografica. I titoli della raccolta costituiscono oggi la Miscellanea Fabroni della Biblioteca universitaria di Pisa, ad essi si aggiunse un gran numero di volumi maggiori, confluiti probabilmente in gran parte nella stessa biblioteca (che conserva nel ms. 460 un Indice della biblioteca Fabroni).
Per l'appartenenza alla nobiltà pistoiese, e forse anche per i mai interrotti legami di Foggini e Bottari con l'ambiente fiorentino, il F. poté presto entrare in contatto col patriziato colto e l'intellettualità toscani, nonché con figure del governo lorenese (la prima deca delle Vitae fu tempestivamente dedicata al neogranduca Pietro Leopoldo). Quando per il F. sfumò la prospettiva di recarsi in Francia come uditore del nunzio, alcune personalità fiorentine ottennero l'assenso del granduca alla sua successione ad A. Alamanni, priore mitrato (capo del canonicato) della basilica fiorentina di S. Lorenzo. Nonostante la tardiva reazione della Curia pontificia, che gli offrì il ruolo di aiutante dello scrittore dei brevi ai principi, il F. decise di rientrare in Toscana; così la Gazzetta toscana del 6 giugno 1767 (p. 98) poté segnalare il suo arrivo a Firenze e la sua assunzione del canonicato avvenuta il giorno precedente. Egli mantenne questa scelta anche quando, durante un soggiorno romano nel 1769, Clemente XIV lo nominò prelato domestico e gli promise altri benefici in caso di ripensamento. Presto si stabilì un legame solidissimo tra il prelato colto, e provvisto di buone attitudini amministrative, e il granduca, estesosi all'intera famiglia del Lorena ed al suo ministro, conte F.A. Rosenberg Orsini. Questo legame fiduciario non si incrinò mai ed ebbe la sanzione più importante con la designazione del F. (1769) a successore di G. Cerati, provveditore allo Studio di Pisa e priore dell'Ordine cavalleresco di S. Stefano (egli terrà queste cariche fino alla morte); ma già prima aveva avuto l'incarico onorifico di docente nella Paggeria (la scuola dei giovani nobili di corte), e in seguito la nomina a precettore dei figli del granduca. A quest'ultimo incarico, assorbente e delicato (anche per le reazioni toscane al cumulo di funzioni da parte di una personalità non fiorentina e di formazione non universitaria), il F. tentò subito di sottrarsi, accampando i suoi gravosi impegni, ottenendo anche dal granduca un periodo di congedo per un lungo viaggio in Europa, terminato nel 1773.
In Francia conobbe d'Alembert, Condorcet, Lalande, Mably, Mirabeau, Condillac, e anche Diderot e Rousseau. In Inghilterra incontrò soprattutto figure scientifiche come E. Waring, N. Muskelyne, il Priestley e anche B. Franklin, che gli propose di seguirlo nel suo ritorno in America. Molti di costoro saranno poi dedicatari di biografie della seconda edizione delle Vitae, cosa che sarà anch'essa rimproverata al F., particolarmente nel caso degli enciclopedisti, e che mostra di quali e quanti fili s'intessé la sua cultura, sino a che la svolta rivoluzionaria e giacobina non determinerà in lui una presa di distanze.
Soltanto al suo rientro presentò a Pietro Leopoldo un piano del corso di studi da lui proposto per i principi, ma l'incarico non ebbe seguito; il F. scriverà poi che in parte il granduca non aveva condiviso il piano, in parte aveva inteso smussare le critiche diffuse contro di lui a Firenze ("suspiciosa et maledica civitas"): il testo del piano - o un suo abbozzo - è forse da riconoscere nei Canoni pedagogici per la formazione di un giovane principe (Pisa, Bibl. univ., ms. 423, 33). Le contrarietà che il F. dovette sempre fronteggiare in Toscana provenivano dagli eruditi ruotanti attorno alle Novelle letterarie di G. Lami, poi dirette da A.M. Salvini, e anche da una parte significativa (con importanti eccezioni, tra le quali l'Antonioli) del corpo docente dell'ateneo pisano: secondo G. Rosini, collaboratore del F., molti professori erano irritati dal suo rigore amministrativo, che non consentiva deroghe né favori. Dal 1769, con la nomina a provveditore, il F. si stabilì a Pisa (anche se furono frequenti i suoi viaggi a Firenze, Napoli, Roma, Bologna, Venezia, e se compì almeno un altro viaggio all'estero, quello in Germania del 1786, che lo portò fino a Berlino).
In quasi trentacinque anni di gestione egli segnò un'intera stagione dell'ateneo pisano la quale, a differenza di quella precedente (il provveditorato del Cerati), non è stata oggetto di studi recenti e specifici, pur corrispondendo agli anni cruciali delle riforme leopoldine ed alla crisi di fine secolo. La proposta di alcuni di considerare la politica accademica del F. come un proseguimento lineare di quella del Cerati, se esteriormente plausibile (il Cerati era stato vicino al gruppo bottariano, e la scelta del successore rispose anche ad un intento di continuità), non ha così, al presente, alcun solido supporto analitico. Gli impegni connessi con la carica, comunque, non esaurirono affatto le energie e gli interessi del F., tanto che nel periodo pisano egli spiegò una tale gamma di iniziative (di autore, pubblicista, tipografo, accademico e promotore culturale) da rendere difficile spiegare come potesse assolverle tutte. Del 1771 è l'avvio del Giornale de' letterati di Pisa, che il F. dirigerà fino al 1796 per un totale di 102 tomi, aiutato da collaboratori ma scrivendo in proprio molti articoli e riservandosi intere sezioni (tra le quali quelle di arti figurative, archeologia e antiquaria).
Il Giornale, nato al termine della prima serie delle Novelle fiorentine, uscì contemporaneamente al proseguimento di queste ad opera del Salvini, ciò che determinò una rivalità e accrebbe i risentimenti attorno al F., anche da parte di coloro che, come G. C. Amaduzzi, suo amico di vecchia data, si ritennero lesi dai giudizi del Giornale sui loro lavori. Il periodico ebbe periodicità media di quattro volumi annui e si attenne alla formula collaudata che prevedeva, nel giornalismo colto, una ampia sezione di recensioni (o articoli di sintesi o commemorativi su temi e autori) e una seconda, minore, di "novelle letterarie" (notizie su eventi culturali in varie località). I testi della prima parte furono anche di notevole ampiezza, costituendo talora dei veri interventi nel merito; l'esclusione delle polemiche teologiche, il tono generale di equilibrata informazione e l'apertura culturale del F. e dei collaboratori fecero del Giornale un organo più affidabile e meno umorale delle Novelle di Firenze, esso fu forse l'organo di stampa colta meno provinciale e più efficace del secondo Settecento italiano, disponibile anche alla discussione non pregiudiziale, e in qualche caso simpatetica, delle proposte illuministiche (con l'esclusione del sensismo radicale e del materialismo d'un Holbach). Dopo la sospensione del 1796 la rivista riprese le pubblicazioni nel 1802.
In data non certa, ma probabilmente nel 1779, il F. allestì presso la propria abitazione una piccola stamperia, resa di buon livello tecnico dal suo gusto di bibliografo e dal ricorso a materiali e caratteri di stampa forniti dal Bodoni, del quale era grande ammiratore; il carteggio tra i due consente di seguire certe fasi dell'iniziativa, terminata nel 1796 con la cessione della tipografia a G. Rosini. Il F. vi stampò buona parte dei suoi scritti, mentre non è noto se vi si stampassero con qualche frequenza anche opere altrui, perché la tipografia non ebbe un nome specifico e nei volumi stampati non comparve il nome del F., ma quello dei diversi tipografi di cui egli si servì.
Al ruolo di provveditore dello Studio e alla cura della stamperia il F. associò anche una notevole attività accademica. Fu membro della Crusca, alla quale fece associare figure quali il Metastasio, F. M. Zanotti, C. I. Frugoni e C. Sibiliato, e ne fu socio così partecipe che lo scioglimento dell'Accademia, nel 1783, fu forse l'unico atto significativo di governo di Pietro Leopoldo che non condivise; vicino alla tradizione del riformismo tecnico al modo dei Georgofili (il Giornale elogiò ampiamente S. Bandini), partecipò all'attività di vari cenacoli toscani di quegli anni: destò polemiche la sua perplessità, espressa anche nel Giornale, sul "panetruschismo" entusiasta divenuto moda tra gli intellettuali toscani. In questi ambienti egli seguì le novità letterarie (a Pisa nel 1776 Alfieri lesse a lui e ad un gruppo di professori il Polinice), coltivò il suo interesse giovanile per la tradizione poetica italiana e seguì le scoperte archeologiche ed antiquarie, che venivano influendo sul rinnovamento della storia dell'arte classica. I suoi interventi su questi ed altri argomenti, in discorsi accademici, scritti nel Giornale, elogi o biografie di artisti o letterati furono numerosi (anche astraendo da quelli raccolti nella nuova edizione delle Vitae).
Per la raccolta in 4 volumi delle Memorie istoriche di più uomini illustri pisani (Pisa 1790-1792) stese le vite di Nicola e Giovanni Pisano (I, pp. 285-303), di D. Cavalca (II, pp. 359-381) e del b. Giordano da Rivalto (III, pp. 89-108); le quattro vite furono poi stampate dal F. in volume a parte (Elogi di Nicola e Giovanni Pisano, del beato Giordano da Rivalto domenicano e di Domenico Cavalca, Pisa 1792), secondo un uso che egli seguì anche per diverse biografie delle Vitae e dei successivi Elogi d'illustri italiani (Vita di Leopoldo Andrea Guadagni, Pisis 1786; Elogio di Francesco Redi, Pisa 1786; Vita del conte G. M. Mazzuchelli, Padova 1788; Elogio di M. Natale Saliceti, Firenze 1789; Francisci et Danielis Floriorum fratrum vitae, Florentiae 1795). Rientrano in quest'ambito d'interventi un'importante traduzione di E. Gibbon (Istoria della decadenza e rovina dell'Impero Romano, 9 voll., Pisa 1779-1786); una sintesi del Voyage du jeune Anacharsis di J. J. Barthélemy (Compendio dell'opera: Voyage du jeune Anacharsis en Grèce…, 3 voll., Pisa 1791); un discorso accademico sulle tecniche pittoriche classiche (Antichità, vantaggi, e metodo della pittura encausta. Discorso letto nella pubblica adunanza della R. Accademia economica di Firenze, Venezia 1800); un'ampia biografia del Petrarca (Francisci Petrarchae Vita, Parmae 1799); l'impegnativa serie di Elogi di Dante Alighieri, di Angelo Poliziano, di Lodovico Ariosto, e di Torquato Tasso (Parma 1800), i cui giudizi hanno un preciso ruolo nelle vicende critiche di questi autori tra Settecento e Ottocento; un componimento apparso postumo (Storia degli antichi vasi fittili aretini, Arezzo 1841).
Tutto questo fornirebbe già il quadro d'una attività intensa e qualificata, soprattutto tenendo conto che il F. fu utilizzato dal governo lorenese per pareri e consulenze (nel 1774 fu tra gli esperti consultati sulla riorganizzazione delle scuole ex gesuitiche di Firenze). Invece questo quadro non è che lo sfondo, occasionale e minore, di opere di grande estensione e impegno. Subito dopo il trasferimento in Toscana egli iniziò un'ampia esplorazione di biblioteche e archivi fiorentini, nei quali lo colpì la ricca documentazione relativa alla scuola galileiana, dopo un'edizione Delle lettere familiari del conte L. Magalotti (Firenze 1769) iniziò a raccogliere molte lettere esemplificanti varie fasi della scuola, che pubblicò come Lettere inedite d'uomini illustri (2 voll., Firenze 1773-1775), e che rimasero a lungo uno strumento essenziale. Dal 1775, edita anche la deca V delle Vitae, pensò ad una nuova edizione di quest'opera, che apparirà col titolo di Vitae Italorum doctrina excellentium qui saeculis XVII et XVIII floruerunt e che, con le modifiche e gli ampliamenti rispetto alla prima, consisterà infine in 20 volumi (18 apparsi a Pisa tra 1778 e 1799; il XIX, con le ultime sette biografie, fu edito postumo a Lucca nel 1804; il XX, edito pure a Lucca nel 1805, incluse l'autobiografia del F., un supplemento ad essa dovuto a Domenico Pacchi, suo amico e curatore degli ultimi due volumi, e 92 lettere scelte tra quelle inviate al F. da corrispondenti quali Pietro Leopoldo, Morgagni, Facciolati, Frugoni, Frisi).
Oltre alla maggiore ampiezza d'impianto e alla maturazione dell'autore, l'elemento caratterizzante della seconda edizione, che la differenzia sensibilmente dalla prima, è l'influenza esercitata dal clima culturale toscano di quegli anni, e specificamente dalla tradizione galliciana dell'università di Pisa. Esso si manifesta emblematicamente nel primo volume, che si apre con una biografia di Galileo, che è di gran lunga la più ampia della raccolta e nel resto comprende solo biografie di suoi seguaci. Questa scelta era intesa ad indicare nella componente scientifica la vera forza traente della storia intellettuale italiana degli ultimi due secoli, e ad essa l'opera assegnava un ruolo privilegiato anche in senso quantitativo: su un totale di 152 saggi biografici relativi a 156 figure (tre saggi riguardano gruppi familiari) si contano 53 scienziati puri e 13 figure in cui la componente scientifica era stata notevole (come un F. Bianchini o un Magalotti).
La vastità delle fonti d'informazione e l'accuratezza dei riscontri spiegano l'alta qualità storiografica delle Vitae, ma altri aspetti sono ancor più notevoli. Per la confluenza di testimonianze molteplici, spesso dovute a personalità importanti direttamente partecipi alle vicende considerate, le Vitae appaiono in molti casi il luogo d'espressione di tradizioni collettive, locali o di scuola, e quasi la voce dì una autocoscienza delle comunità colte, mai sollecitata prima così sistematicamente. In secondo luogo il fatto che l'autore associasse l'ampia conoscenza di fatti e testi a quella dell'evoluzione filosofica, dottrinale e di clima intellettuale, e anche a quella dei meccanismi istituzionali e storici che avevano orientato la genesi e la diffusione di idee e tradizioni, gli consentì di collocare i dati biografici (oggetto quasi esclusivo di molta memorialistica del periodo) in un paesaggio storico di notevole profondità. Le notazioni su ambienti, consuetudini didattiche, scuole e fasi del pensiero e del gusto italiani, pur distribuite variamente nelle biografie, furono nel loro insieme una delle valutazioni più ampie e fini che il Settecento italiano esprimesse sulla storia sociale della cultura del paese. Mentre, inoltre, le dediche dei vari volumi risposero ad esigenze encomiastiche, ogni biografia ebbe una propria dedica in forma epistolare, spesso riservata a valutazioni d'ordine generale che integrano o esplicitano gli elementi di giudizio presenti nelle vite. Un'opera di tale disegno, composta nelle pause di numerose altre attività, non poteva essere prodotto interamente individuale. Se nella prima edizione figuravano poche biografie dovute ad altri, la seconda ne mantenne la maggior parte (integrate e rivedute), accogliendo molte altre scritte per l'occasione da collaboratori del F.: nel vol. XIX (p. 225) le biografie non dovute a lui si trovano elencate in numero di ventuno, e se ne indicano gli autori. Il caso più notevole è quello della menzionata biografia di Galileo, scritta dall'ex gesuita L. Brenna, che dopo la soppressione della Compagnia fu spesso ospite del F. a Pisa, occupandosi (a detta dei critici fiorentini del F., dai quali questa valutazione passò anche a studiosi come I. Affò e il Tiraboschi) anche di opere del F. diverse dalle Vitae.
La questione della paternità delle vite non può ricevere oggi una soluzione definitiva. Il F. ebbe certamente il torto di non segnalare sempre, al momento della pubblicazione, le vite composte da altri; tuttavia non solo come già osservato, fin dagli inizi la stesura dell'opera era stata un lavoro più che individuale, ma l'insieme di essa palesa una costanza di motivi, strutture e modalità espressive che prova come il F. imponesse la sua visione e partecipasse a fondo alla redazione di ogni testo. Lo stile latino di questo come di altri grandi lavori della maturità fu un altro aspetto che destò critiche (il periodo e la sintassi fabroniani furono detti "semietruschi", cioè italianizzanti); in realtà questo stile, approdo dell'evoluzione subita dai moduli più convenzionali ed esornativi delle orazioni latine classiche, è riconosciuto generalmente come uno degli esempi migliori nella trattatistica settecentesca, per aderenza ai contenuti, scioltezza ed essenzialità. Questo fu chiaro anche a gran parte dei contemporanei, come mostra il notevole successo dei suoi elogi.
Nel F. il genere dell'elogio approda ad un suo spazio peculiare, intermedio tra quello dell'orazione celebrativa e quello della biografia critica. Diversi di essi si riferirono a personaggi che erano stati, o furono poi, biografati nelle Vitae, la cui seconda edizione iniziò prima dell'esordio del F. nel genere. Dopo un volume - di origine forse accademica - di Elogi d'alcuni illustri italiani (Pisa 1784), relativo a Galileo, M. A. Giacomelli, T. Perelli, Leopoldo de' Medici. C. I. Frugoni, Metastasio, il fondatore e primo presidente della Società italiana delle scienze, A. M. Lorgna, nominò il F. socio onorario, con l'incarico (che dopo di lui andrà al Pindemonte) di scrivere gli elogi dei soci defunti. Egli fornì quelli di E. Zanotti, Boscovich, G. Toaldo e L. Spallanzani, apparsi nelle Memorie di matematica e fisica della Società (III [1786], p. XVIII; IV [1788], p. VII; VIII [1799], 1, p. XXIX; IX [1802], p. XXI), e venne lavorando ad una edizione ampliata del libro del 1784, edita in due volumi a Pisa (1786 e 1789). Il volume I (Elogi d'illustri italiani) comprese gli elogi del volume precedente, corretti ed ampliati, unendo ad essi quelli del Redi, di P. Frisi e di E. Zanotti (quest'ultimo già apparso nelle Memorie); il volume II, che incluse anche stranieri, chiamandosi perciò Elogi di uomini illustri, ripropose l'elogio di Boscovich con quelli di L. Sergardi, Federico II di Prussia, G.B. Beccaria, N. Saliceti, G. Baldassarri e A. R. Mengs. Infine, questo tipo di componimento avrà un seguito nell'edizione parmense già menzionata, contenente elogi di poeti.
È importante osservare che tutti i lavori fin qui elencati rientrano, in vario modo, in un modello di scrittura biografica. Si può anzi generalizzare il rilievo, fino ad asserire che la biografia (il cui svolgimento è messo in stretta relazione con il contesto storico-culturale) fu la forma in cui egli tese sempre ad ordinare i materiali storici: perciò, quando le sue esplorazioni in archivi e biblioteche toscani lo posero in contatto con i cospicui depositi relativi all'età medicea, il modo in cui egli scelse di utilizzarli fu ancora quello della biografia: Laurentii Medicis Magnifici Vita (2 voll., Pisis 1784; tradotta in francese come Vie de Laurent de Médicis dit le Magnifique traduit du latin de mons. Fabroni par m. de Serionne, Berlin 1791); Magni Cosmi Medicei vita (2voll., Pisis 1788-1789); Leonis X pontificis maximi Vita (ibid. 1797). Agli scritti di questo gruppo si può associare la Pallantis Stroctii vita (Parmae 1802).
Mancano verifiche adeguate sul ruolo di questi lavori nello sviluppo della storiografia sulla Toscana avutosi nel primo Ottocento. La loro struttura è simile, presentando una prima parte di narrazione biografica seguita da una seconda di note e "monumenta", documenti anche molto estesi che non era agevole o utile rifondere nel testo. La cura e l'ampiezza accordate dal F. a questa appendice documentaria lo mostrano erede della migliore storiografia ed erudizione settecentesca, ed egli rivendicò esplicitamente il progresso che, sotto questo aspetto, i suoi lavori determinavano nella storiografia sui Medici (Laurentii Medicis... vita, I, pp. VII-VIII). Anche per queste opere, e in particolare per la vita del Magnifico, si parlò di aiuti altrui (soprattutto del Brenna); ma anche in questo caso, come in quello delle Vitae, l'impronta personale del F. appare evidente.
L'unica opera del F. che non ha carattere biografico è la storia dell'università di Pisa (Historiae Academiae Pisanae volumen I, Pisis 1791; ... volumen II, ibid. 1792; ... volumen III, ibid. 1795), la cui stesura gli fu praticamente imposta da Pietro Leopoldo, dopo che egli aveva già accantonato più volte questo progetto, propostogli da altri, consapevole che la vastità del lavoro aveva fermato tutti i tentativi precedenti già nella fase di impostazione. Per lavorare alla Historia senza trascurare le incombenze d'ufficio e le opere già avviate egli ottenne il trasferimento da Firenze a Pisa dell'archivio delle Riformagioni, che con l'archivio universitario conservava gran parte dei documenti rilevanti. La previsione iniziale fu di quattro volumi, dedicati rispettivamente al periodo dalle origini al 1525, agli anni da Cosimo I a Cosimo II, a quelli da Ferdinando II a Gian Gastone, e infine al periodo lorenese (dal 1737). Tuttavia il quarto volume fu appena avviato prima che le vicende storiche e il declino della salute dell'autore l'interrompessero; D. Pacchi suppose che l'autobiografia del F., da lui inserita nel vol. XX delle Vitae, dovesse farne parte, ma per vari motivi l'ipotesi è poco plausibile.
Quanto il F. aveva raccolto o approntato passò dopo la sua morte in mani private, e fu poi pubblicato parzialmente (M. Ferrucci, Frammenti del volume IV della Storia dell'Università di Pisa di monsignor Angiolo Fabroni, in Annali delle univ. toscane, XXX e in estr., Pisa 1911), dopo essere stato forse, in precedenza, utilizzato da E. Micheli nella sua Storia dell'Università di Pisa dal 1737 al 1849 (Pisa 1877), che - in modo inadeguato - completò il programma del F. esaminando anche gli anni del suo provveditorato. Nel vol. I (pp. 4-73) il F. riportò il testo già approntato da E. Corsini, incaricato prima di lui di scrivere la storia dell'università (ma morto all'inizio del lavoro) per il periodo delle origini (fino al Magnifico escluso). Pertanto la sua narrazione inizia, di fatto, dal 1475 circa. I tre volumi editi hanno struttura comune; ad una introduzione generale, dedicata ai fatti storici principali del periodo in esame, nonché alle conseguenze sull'assetto istituzionale e didattico e sull'attività dello Studio, seguono tanti capitoli quanti erano, in quel periodo, gli insegnamenti nell'ateneo. Ogni capitolo discute nell'ordine cronologico le docenze (i professori non sono considerati solo per la loro parentesi pisana) e scandisce la dinamica dei mutamenti. In un secolo che in Italia fu molto ricco di storie di università la Historia fu certamente uno dei tentativi più approfonditi nell'impianto e più felici nella realizzazione, per l'equilibrio tra dati istituzionali, culturali, personali e storico-politici, che unitamente alla ricchezza ed alla generale accuratezza delle notizie ne fa ancor oggi un riferimento essenziale.
L'influenza complessiva della storiografia del F., e in particolare degli elogi e delle Vitae, nella cultura italiana tra i secoli XVIII e XIX fu molto ampia, e non limitata alla lettura diretta delle edizioni da lui curate, perché fu uso corrente l'utilizzo del suo elogio o biografia di una figura quale introduzione alla stampa delle sue opere; e non sarebbe lavoro di scarso interesse il verificare quanto, e quanto a lungo, quest'uso costituisse un filtro interpretativo.
Sotto il successore di Pietro Leopoldo, Ferdinando III, il F. mantenne interamente il suo credito, che gli consentiva larga autonomia nel governo dell'ateneo. Ma la svolta giacobina in Francia, e successivamente la campagna d'Italia del Bonaparte, infransero i suoi termini di riferimento storico-politici, dissolvendo la sintesi di cattolicesimo e di illuminismo moderato che era stata il quadro generale del suo lavoro. Come molti altri uomini della sua generazione e di formazione analoga, egli si arrestò di fronte alla svolta radicale, e questa indusse in lui un ripensamento profondo che, unitamente al sentimento crescente del declino fisico e del modo dignitoso, ma certamente parziale, in cui aveva vissuto il suo ruolo di religioso, sfociò in un recupero della tradizione cattolica nei termini d'uno spiritualismo d'ispirazione patristica ed ascetica. L'ultimo triennio di vita vide così il F. nuovamente attivo su un fronte religioso e dolorosamente partecipe alle vicende d'una Chiesa scossa dalla tempesta. rivoluzionaria. Sono espressioni di questa fase scritti quali la Oratio in funere Francisci Leopoldi Austriaci (Pisis 1800), dedicata alla scomparsa di una delle figure del mondo col quale si era identificato; i Devoti affetti in preparazione alle feste del Santo Natale (Pisa 1801) e la Novena in onore di Maria ss. Ausiliatrice (ibid. 1803). Su un piano pubblico, tuttavia, va segnalata soprattutto la Oratio ad S. R. E. cardinales (s. n. t., ma Pisa 1800), scritta durante il conclave che, dopo gli avvenimenti critici del pontificato di Pio VI, elesse Pio VII (dicembre 1799-marzo 1800). Si tratta d'un testo notevole per il saldarsi della opposizione all'influsso eccessivo della Francia sulla cultura e il costume italiano, già antica nel F., con una opposizione definitamente ideologica e politica, che lo portò a far appello allo spirito di unità delle forze cattoliche; così come nell'autobiografia lo spinse a minimizzare la profondità del proprio giansenismo giovanile e a deplorare le critiche da lui rivolte in passato alla Compagnia di Gesù.
Dopo il 1800 le sue condizioni di salute andarono aggravandosi; dal 1801 soggiornò per vari periodi in conventi delle zone di Lucca e Pisa; nell'estate del 1803, al ritorno da uno di tali soggiorni, le sue condizioni si aggravarono talmente da non consentirgli più di camminare. Morì a Pisa il 22 sett. 1803; venne sepolto in S. Stefano, la chiesa dell'Ordine di cui aveva tenuto il priorato.
Fonti e Bibl.: Materiali del e sul F. sono a Forlì, Bibl. com., Collez. Piancastelli, Carte Romagna 573, nn. 159-168; tra i giudizi contemporanei sulle sue opere basterà ricordare quelli apparsi nelle Novelle letterarie di Firenze (XXVIII [1767], pp. 135, 267, 270; XXIX [1768], p. 534; n.s., XVII [1786], pp. 707-711; XVIII [1787], pp. 530 s.; XX [1789], pp. 499-502; XXII [1791], pp. 581 ss.). Astraendo dai numerosi riferimenti occasionali al F. presenti nelle storie della cultura toscana e della letteratura italiana apparse nel primo Ottocento, si può fare riferimento ai seguenti lavori successivi: E. De Tipaldo, Biografia degli italiani illustri, X, Venezia 1845, pp. 5-19; C. Torriani, Elogio biografico di mons. A. F. da Marradi, Firenze 1845; Sei lettere di Francesco Maria Zanotti ad A. F., Bologna 1849; G. Rosini, Orazione ... detta il dì XI Novembre MDCCCLII nell'aula magna del pubblico Studio pisano, Pisa 1853; XXXVIII lettere inedite di F. M. Zanotti ad A.F., Lucca 1857; P. Duranti, Discorso letto il 3 nov. 1883... per la inaugurazione dell'anno accademico 1883-84 nella università di Pisa, Pisa 1883; F. Tribolati, Conversazioni di G. Rosini, Pisa 1889, pp. 111 s., 161 s.; Cinque lettere inedite di C. I. Frugoni a mons. A. F., Forlì 1891; C. Frati, Lettere di Girolamo Tiraboschi al padre Ireneo Affò tratte dai codici della Biblioteca Estense di Modena e dalla Palatina di Parma, Modena 1895, pp. 282, 343 s., 349 s.; V. Cian, G. B. Bodoni e A. F., in Miscellanea storico-letteraria a F. Mariotti, Pisa 1907, pp. 10 ss.; N. Cortese, Lo Studio e le scuole di Firenze dopo la soppressione dell'Ordine dei gesuiti, in Levana, IV (1925), 3, pp. 186-206 (in part. 187-190, 1965.); G. Gasperoni, Aspetti culturali, religiosi e politici del Settecento italiano, in Arch. stor. ital., XCII (1934), p. 267; Lettere inedite di G. Marini, a cura di E. Carusi, II, Città del Vaticano 1938, ad Indicem; III, ibid. 1940, pp. 45, 73, 75; E. Dammig, Ilmovimento giansenista a Roma nella seconda metà del secolo XVIII, Città del Vaticano 1945, ad Indicem; E. Codignola, Illuministi, giansenisti e giacobini nell'Italia del Settecento, Firenze 1947, p. 204; E. Passerin d'Entrèves, L'ambiente culturale pisano nell'ultimo Settecento; il trionfo e la crisi del riformismo anticuriale in alcuni carteggi di colti pisani, in Boll. stor. pisano, XXII-XXIII (1953-54), pp. 54-121 (in part. 56 s.); B. Croce, Aneddoti di varia letteratura, Bari 1954, III, pp. 108-117; Tutte le opere di Pietro Metastasio, a cura di B. Brunelli, IV, Milano 1954, ad Indicem; V, ibid. 1954, ad Indicem; A. Pace, B. Franklin and Italy, Philadelphia 1958, p. 187; P. Berselli Ambri, L'opera di Montesquieu nel Settecento italiano, Firenze 1960, pp. 14, 17, 63, 125 e passim; E.W. Cochrane, Traditionand Enlightment in the Tuscan Academies 1690-1800, Chicago 1961, pp. 193 s.; G. Giarrizzo, Nota introduttiva a Domenico Caracciolo, in Illuministi italiani, VII, Milano-Napoli 1965, pp. 1064 ss.; G. Natali, IlSettecento, Milano 1973, I, pp. 30 s., 42 s., 351, 384 s.; II, p. 296; V. Castronovo-G. Ricuperati-C. Capra, La stampa italiana dal Cinquecento all'Ottocento, Bari 1976, pp. 287-290, 507 s.; Gli Arcadi dal 1690 al 1800. Onomasticon, a cura di A.M. Giorgetti Vichi, Roma 1977, p. 128; F. Marchat, L'attività tipografico-editoriale di mons. A.F. (Pisa, 1771-1803), in La Bibliofilia, LXXXII (1980), 1, pp. 51-73; E. Casali, "Messer Ottavio amatissimo ...". A proposito del carteggio di L. Magalotti con O. Falconieri (1660-1674), in Studi secenteschi, XXI (1990), pp. 90 s., 103-108; Enc. Ital., XIV, p. 705.