LEONINI, Angelo
Nacque a Tivoli verso la metà del Quattrocento in una famiglia di recente nobiltà cittadina, da Pietro, più volte capo milizia della città e riformatore degli statuti nel 1481, e da Giovanna, di cui non è noto il casato. Il nonno paterno, Angelo, fu esponente del Consiglio comunale e, nel 1413, gonfaloniere dell'esercito cittadino.
I Leonini sono attestati dall'ultimo quarto del XIV secolo come "magistri Iohannis" (de mastro Ianni), mercanti di origine popolare la cui ascesa fu favorita dal legame con gli Orsini di Tagliacozzo. Giovanni, zio paterno del L., fu il primo a fregiarsi del titolo di nobilis vir. Suo figlio Angelo fu uno dei capi della fazione orsina di Tivoli nonché segretario, amministratore e capitano di Virginio Orsini, conte di Tagliacozzo e di Alba. Sabolina, zia paterna del L., si imparentò successivamente con due nobili famiglie tiburtine sposando prima Luciano de Cancellariis, poi Clemente Brigante Colonna. Nella seconda metà del XV secolo, per dare lustro alla loro scalata sociale, i "magistri Iohannis" (come altre famiglie emergenti di Tivoli), cambiarono cognome e assunsero quello più altisonante di Leonini.
Il L. ebbe due fratelli e una sorella: Vincenzo, prefetto della guardia a cavallo di Giulio II, Leone X, Adriano VI e Clemente VII e sposo di Bartolomea de' Medici, nipote del cardinale Giovanni de' Medici (il futuro Leone X); Giovanni, padre di Camillo, vescovo di Tivoli dal 3 ag. 1509 al 27 giugno 1513 quando la diocesi fu affidata al cardinale volterrano Francesco Soderini e dal 18 luglio 1516 alla sua morte, avvenuta nel 1527; Camilla, sposa di Giovanni Andrea Croce da cui ebbe Marcantonio, vescovo di Tivoli dal 1528 al 1554, e Girolamo, a sua volta padre di Giovanni Andrea, vescovo di Tivoli dal 1554 al 1595.
Il L. studiò medicina, filosofia e arti liberali e intraprese la carriera ecclesiastica. Fece parte per molti anni della famiglia del cardinale Giuliano Della Rovere (il futuro Giulio II). Fu medico del cardinale Gian Giacomo Sclafenati il quale, nel 1488, rinunciò in suo favore alla parrocchia romana di S. Simeone nel rione Ponte. Egli vi rinunciò a sua volta, sotto Giulio II, in favore del nipote Camillo. Fu abate di S. Eusebio di Melanico, nella diocesi di Larino, e del monastero di S. Cecilia dei Vallombrosani, nella diocesi di Bologna; godette inoltre delle rendite del priorato di Sutri e della parrocchia di S. Agata nella diocesi di Imola. Fu lettore di medicina allo Studium Urbis almeno dal 1483 al 1499 e fu archiatra di Leone X.
Il 2 ott. 1499 fu nominato vescovo di Tivoli dopo che il papa Alessandro VI lo aveva dichiarato esente dal sospetto di aver preso parte alle lotte di fazione che insanguinarono la città negli ultimi venti anni del Quattrocento.
Le più importanti famiglie tiburtine vi furono coinvolte. Leonini, Toballi e Coccanari fecero parte della fazione orsina, mentre Zacconi, Fornari e Marescotti parteggiarono per i Colonna. Nell'ottobre 1495 i commissari di Alessandro VI bandirono dalla città i principali esponenti delle due fazioni, fra i quali i fratelli del L., Vincenzo e Giovanni, e il cugino Angelo.
Il 30 apr. 1500 il L. fu inviato da Alessandro VI a Venezia come oratore pontificio. Ricevute le istruzioni il 4 maggio, partì da Roma il 13 e raggiunse la sua destinazione il 24. Il giorno successivo presentò le credenziali al governo veneto ed espose gli scopi della sua missione: sollecitare la liberazione del cardinale Ascanio Sforza, travolto dalla sconfitta del fratello Ludovico il Moro e prigioniero dei Veneziani; assicurare a Venezia, in difficoltà dopo la sconfitta di Navarino e la caduta di Lepanto, la partecipazione del papa a una lega di sovrani cattolici contro i Turchi; chiedere la fine della protezione che la Repubblica assicurava a Pesaro, Faenza e Rimini che si erano ribellate al papa; dichiarò infine l'intenzione di stabilirsi a Venezia per svolgervi con continuità il compito di rappresentante pontificio. Secondo numerosi storici quella del L., per le sue caratteristiche di residenza, durata e retribuzione (percepiva per le sue spese tra 125 e 150 fiorini al mese) può essere considerata come la prima nunziatura fissa nella storia della diplomazia pontificia.
L'intervento del L. in favore dello Sforza fu tardivo: la Repubblica lo aveva già consegnato agli alleati francesi su loro pressante richiesta. La lega antiturca, alla quale, oltre al papa e a Venezia, aderì soltanto Ladislao II Jagellone, re di Boemia e di Ungheria, fu siglata il 13 maggio 1501 a Buda e si concluse, dopo una serie di sterili scaramucce per mare e per terra, con la pace stipulata tra il sultano, Venezia (20 maggio 1503) e il re di Ungheria (20 ag. 1503). Quanto alla Romagna, Venezia si dichiarò disposta a cedere su Pesaro ma non sulle altre città. La questione si risolse, fra l'ottobre del 1500 e l'aprile del 1501, con la conquista che dell'intera regione fece Cesare Borgia nel tentativo di costituirsi un ducato personale.
Dopo la morte di Alessandro VI il L. attese il permesso di rientrare e partì da Venezia il 23 ott. 1503, quando si era già concluso anche il breve pontificato di Pio III. Arrivato a Roma solo da pochi giorni, il 15 novembre fu rispedito nella città lagunare dal nuovo papa, Giulio II, come nunzio e legato a latere. Doveva chiedere la restituzione alla S. Sede di Faenza e Rimini e delle altre città della Romagna di cui la Repubblica si era impadronita dopo la morte di Alessandro VI, il ritiro delle truppe veneziane dalla regione e l'impegno a desistere da ulteriori occupazioni. Ricevute le istruzioni il 17 novembre, partì da Roma il 23 dello stesso mese e arrivò a Venezia il 4 dicembre. Il suo compito si rivelò particolarmente difficile.
La Repubblica acconsentiva ad arrestare la sua espansione in Romagna, ma non intendeva restituire le città già occupate, poiché esse erano state sottratte, a suo dire, non allo Stato pontificio ma al comune nemico Cesare Borgia; Giulio II, dal canto suo, era irremovibile nel ribadire i diritti della S. Sede su quei territori e minacciava di ricorrere a sanzioni ecclesiastiche e all'aiuto di Francia, Spagna e Impero. I rapporti tra il nunzio e la Serenissima si deteriorarono ben presto. Nel gennaio 1504 Venezia chiese più volte al papa di richiamare il L. accusandolo di un atteggiamento ostile e della falsificazione dei brevi che reiteravano la richiesta pontificia di restituzione delle terre di Romagna. Il L. lo venne a sapere, se ne lamentò davanti al governo veneto e, nel febbraio 1504, chiese al papa di poter rientrare a Roma, ma questi gli rinnovò la fiducia, convinto che l'ostilità di Venezia dipendesse dalla sua determinazione nel sostenere le ragioni della S. Sede.
Nella primavera del 1504 il pontefice mandò ambasciatori ai re di Francia e Spagna e all'imperatore affinché intervenissero in suo favore presso la Serenissima. Sollecitò inoltre il re di Ungheria, in quel periodo alleato prezioso di Venezia contro i Turchi, a inviare in laguna un ambasciatore a sostegno delle sue richieste. La Spagna rispose negativamente, l'Ungheria inviò l'ambasciatore Pietro Berislao, Francia e Impero, il 22 sett. 1504, stipularono a Blois una convenzione contro Venezia che, tuttavia, non ebbe seguito poiché si giunse in breve a una rottura tra i due sovrani. Giulio II, da parte sua, fece cadere sulla Repubblica le sanzioni ecclesiastiche.
A Venezia il L. tesseva la sua rete di contatti con gli ambasciatori delle potenze europee, li aggiornava sulle posizioni della S. Sede, cercava di indirizzarne l'azione diplomatica, si informava sulle risposte del governo veneto e le riferiva al pontefice. I suoi rapporti con il doge Leonardo Loredan rimanevano difficili e, tra la fine del 1504 e l'inizio del 1505, furono caratterizzati da violenti e ripetuti alterchi che lasciavano irrisolta la questione dei territori contesi. Ai primi di marzo 1505 Venezia restituì alcuni piccoli centri, tra cui Sant'Arcangelo, Montefiore, Savignano, Tossignano e Porto Cesenatico, ma Giulio II continuò a insistere soprattutto per Faenza e Rimini. Verso la metà del mese il L., su incarico del papa, si recò a Ferrara per rallegrarsi con il nuovo duca Alfonso I d'Este, succeduto a Ercole I; quindi fece ritorno a Venezia dove fu raggiunto da un breve del papa del 26 marzo che lo richiamava a Roma e interrompeva le relazioni diplomatiche con la Serenissima. Partì per Roma all'inizio del mese successivo senza rimpianto dei Veneziani e senza avere ottenuto risultati apprezzabili. La questione della Romagna si sarebbe risolta a favore della S. Sede solo dopo la sconfitta veneziana ad Agnadello per opera della Lega di Cambrai.
Dall'agosto del 1505 al giugno del 1506 il L. ricoprì l'incarico di commissario apostolico in Romagna con il compito di riportare l'ordine a Fano, Cesena, Forlì e Bertinoro travagliate da sanguinose lotte di fazione. A Fano e Cesena sottrasse all'amministrazione comunale la gestione delle pubbliche entrate, causa di frequenti discordie, e la pose sotto la giurisdizione della Camera apostolica; a Cesena, tormentata dalla rivalità tra i Tiberti e i Martinelli, oltre a comminare numerose condanne, alcune delle quali alla pena capitale, sciolse il Consiglio cittadino, dominato da una sola fazione, e lo riformò riequilibrandone la rappresentanza. Il 4 dicembre fu nominato Commissarius contra clericos delinquentes per contrastare il fenomeno dei malfattori che riuscivano a farsi insignire degli ordini sacri per goderne i privilegi in materia di giurisdizione penale.
Nel 1507 fu a Tivoli, dove cercò di riportare la pace tra le famiglie eminenti della città nuovamente in lotta per il potere. Fece da mediatore tra le fazioni e contribuì alla loro riconciliazione sancita da un "istrumento" pubblico redatto il 30 settembre dal notaio De Palearis. Nella sua città, insieme con il fratello Vincenzo, fece restaurare la chiesa di S. Biagio dell'Ordine dei predicatori dove, nel 1508, fece porre una lapide in memoria dei suoi antenati. Nel dicembre del 1507 fu nominato legato apostolico della Romagna e vicelegato di Bologna, dove dall'agosto del 1508 al marzo del 1509, sostituì il cardinale Francesco Alidosi nella carica di legato.
Sancito l'accordo della Lega di Cambrai (10 dic. 1508) Giulio II, per consolidare il rapporto con il nuovo alleato francese, ai primi di marzo 1509 inviò il L. presso Luigi XII come nunzio. Egli seguì la corte francese nella spedizione militare in Italia culminata con la battaglia di Agnadello (14 maggio 1509) e, tornato in Francia, a ottobre entrò in rotta di collisione con il re, irritato per non essere stato consultato su alcune nomine ecclesiastiche in territorio francese. Nel frattempo, il 3 ag. 1509, il L. passò dal vescovado di Tivoli all'arcivescovado di Sassari.
Dopo la riconciliazione tra S. Sede e Venezia in funzione antifrancese (24 febbr. 1510), il L. dovette dare fondo a tutte le sue capacità diplomatiche per difendere il papa dall'accusa di tradimento nei confronti della Francia e della Lega. Dal marzo 1510, con il progredire del confronto tra Giulio II, che voleva cacciare i Francesi dall'Italia, e Luigi XII, orientato a consolidare le sue posizioni nella penisola, le difficoltà del L. si aggravarono. Nel maggio 1510 la crisi raggiunse il culmine. Giulio II rivolse il suo sforzo militare contro il duca di Ferrara che cercava di sottrarre a Venezia il Polesine. Luigi XII minacciò di inviare truppe in aiuto di Alfonso I d'Este e di restaurare a Bologna la dinastia dei Bentivoglio. Stretto tra queste difficoltà, il L. ritenne di dover favorire un riavvicinamento tra Francia e S. Sede, ma cadde in disgrazia presso il papa e fu accusato dai Veneziani di lavorare contro di loro e contro la S. Sede e di essersi fatto corrompere dai Francesi. Chiese quindi, all'inizio di luglio, di rientrare a Roma, ma finì per irritare ulteriormente Giulio II, che gli impose di restare al suo posto e gli negò la possibilità di diventare cardinale. Quando, all'inizio di settembre, Luigi XII convocò a Tours un sinodo della Chiesa gallicana per deliberare provvedimenti contro il papa e impedì al L. di parteciparvi, egli decise di ritirarsi ad Avignone, di cui era stato appena nominato governatore. Questa carica comportava, per tradizione antica, anche quella di rettore del Contado Venassino. La Comunità locale, che non accettava di sottostare al governatore di Avignone e aspirava da tempo a un proprio rettore indipendente, residente a Carpentras, protestò ancora una volta e Giulio II, l'8 febbr. 1511, scisse le due cariche e nominò Jean de Montaigu rettore del Venassino.
Dopo la perdita di Bologna (23 maggio 1511), in luglio il papa riprese i negoziati con la Francia e si affidò di nuovo all'esperienza diplomatica del L., che si impegnò ancora una volta a fondo per la riconciliazione tra Francia e S. Sede e in agosto annunciò che il re era pronto a firmare l'accordo e ad abbandonare Bologna e Ferrara. Giulio II, tuttavia, prese tempo fino a quando, conclusa il 5 ottobre contro la Francia la Lega santa con Spagna e Venezia, cui si aggiunse più tardi l'Inghilterra, ordinò al L. di interrompere la missione e di rientrare ad Avignone. Ne uscì dopo la vittoria francese sulle truppe pontificie a Ravenna (11 apr. 1512), per una nuova missione presso Luigi XII, che si concluse in breve tempo in seguito alla rottura tra il papa e il re di Francia.
Resta qualche dubbio sull'identità del vescovo di Tivoli a cui furono affidate le missioni del luglio 1511 e dell'aprile 1512, poiché il L., anche dopo essere diventato arcivescovo di Sassari ed essere stato sostituito a Tivoli dal nipote Camillo, almeno per tutta la nunziatura conclusasi nel settembre 1510 continuò a essere designato come vescovo di Tivoli. Essendosi poi ritirato ad Avignone, è probabile che si sia pensato a lui per le missioni successive, anche in considerazione del suo precedente incarico presso il re di Francia.
Dopo l'elezione di Leone X, il 31 ott. 1513 il L. fu nominato assistente al soglio pontificio, il 5 maggio 1514 partecipò alla IX sessione del concilio Lateranense V e nello stesso anno, tormentato dalla podagra, rinunciò all'arcivescovado di Sassari.
Morì probabilmente a Tivoli nel 1517 e fu sepolto nella cattedrale cittadina di S. Lorenzo, dove il fratello Vincenzo e il nipote Camillo gli eressero un monumento funebre con una statua di marmo.
Come vescovo di Tivoli, Camillo, nato nella città tiburtina nella seconda metà del secolo XV, riformò la tassa degli emolumenti della Cancelleria e fece realizzare molti restauri nel palazzo vescovile. Il 27 febb. 1517 partecipò alla XII sessione del concilio Lateranense. A lui, di cui era nota la sapienza giuridica, si rivolse il notaio Antonio di Simone Petrarca, incaricato dal Consiglio comunale della revisione degli statuti di Tivoli, chiedendogli di correggerli e approvarli prima della pubblicazione, avvenuta nel maggio 1522.
Fu sorpreso in Vaticano dal sacco di Roma (6 maggio 1527) e si salvò in Castel Sant'Angelo con il papa e la corte pontificia. Morì a Tivoli in quello stesso anno.
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