MACCAGNINI, Angelo
MACCAGNINI (Maccagnino), Angelo (Angelo da Siena). – Sono frammentarie le notizie su questo pittore, originario di Siena, figlio dell’orafo Pietro, la cui attività artistica ricopre un arco cronologico che va dal 1439 al 1457.
Non si sa nulla sul suo apprendistato e sul suo ambiente di formazione. Molto probabilmente, come osserva Natale (2003), il M. importò a Ferrara echi della incisività dei pittori di Siena, città con la quale Ferrara manteneva rapporti importanti; ma proprio in ambiente ferrarese egli maturò uno stile intriso di vari linguaggi e suggestioni, in quella fucina eclettica che dovette essere il cantiere dello studiolo di Belfiore. Gombosi non rileva nella sua arte tracce di influenze senesi e lo colloca sotto l’egida pierfrancescana. La critica è ormai unanimemente concorde nell’attribuirgli un linguaggio pittorico fortemente influenzato dall’ars nova fiamminga (la musa Tersicore del Museo Poldi Pezzoli a Milano), che doveva comunque aver assorbito durante gli anni ferraresi. Già Ciriaco d’Ancona nel 1449 lo definisce «egregium imitatorem» dell’arte di Rogier van der Weyden (Colucci, p. CXLIV), mentre Ludovico Carbone nel suo dialogo De amoenitate, utilitate, magnificentia Herculei Barci (1475), lo ricorda come abile nell’arte della pittura a olio (Lazzari). Gilbert ritiene che proprio le qualità fiamminghe del suo linguaggio artistico, indicate nei testi che documentano la sua presenza a Belfiore e nei brani pittorici a lui attribuiti, siano da interpretare come tratto distintivo della sua arte.
Le prime notizie restituiscono un’immagine non proprio pacata dell’artista. Si tratta infatti di alcune lettere datate 1439 con le quali il Senato della Repubblica di Siena intercedeva presso il cardinale Giovanni Vitelleschi perché venisse condonata al M. la pena inflittagli per un omicidio, per cui egli si trovava rinchiuso a Nocera Umbra (Milanesi). L’intervento del cardinale, all’epoca una delle figure più rilevanti della Chiesa, indica che il M. a quella data doveva aver già raggiunto un ruolo considerevole nel panorama artistico senese. Dopo il soggiorno umbro, già dal 1444 il M. figura nei registri contabili estensi (Franceschini, p. 250 doc. 533); ma è dal 1447 che il suo nome appare legato all’impresa decorativa dello studiolo di Leonello d’Este nel palazzo di Belfiore (ibid., p. 276), che gli procurò grande fama e che, dopo la sua morte, venne diretta da Cosmè Tura, il quale gli succedette anche nel ruolo di pittore di corte.
Nel 1449, secondo la descrizione entusiastica di Ciriaco d’Ancona (il quale lo accostò al celebre pittore greco Parrasio), il M. completò due delle muse, Clio e Melpomene (Colucci). Nel dialogo più tardo di Ludovico Carbone (l’ultimo a ricordare ancora lo studiolo alla vigilia della sua distruzione) due delle muse sono dette di mano del M., le altre attribuite a Tura (Lazzari).
La complessa vicenda critica legata al tormentato ciclo decorativo dello studiolo (suggerito come sembra dall’umanista Guarino da Verona) costituisce una questione ancora aperta nelle definizioni stilistiche e nelle attribuzioni critiche. A partire da Gombosi che gli attribuisce Erato, Urania (già collezione Sacrati-Strozzi, ora Ferrara, Pinacoteca nazionale) e le due muse di Budapest (Museo di belle arti), Melpomene ed Euterpe, passando per le osservazioni longhiane (1956), si arriva, tra gli altri, fino a Boskovits, il quale sulla scia di Longhi gli assegna cinque delle muse, le due di Ferrara, Melpomene ed Euterpe di Budapest, la Polimnia (già nota come Autunno) di Berlino, collegandole tutte al ciclo di Belfiore per il tramite della Talia, anch’essa a Budapest, attribuita all’ungherese Michele Pannonio. Tuttavia allo stadio attuale delle conoscenze e alla luce della ricognizione critica e tecnica condotta in occasione della mostra Le muse e il principe (1991), sono state definitivamente espunte dalla ricostruzione dello studiolo Melpomene ed Euterpe; mentre è possibile riconoscere alcuni brani della perduta decorazione nei sei pannelli, dagli analoghi impianti prospettici di Erato, Urania (Ferrara, Pinacoteca nazionale), Tersicore (Milano, Museo Poldi Pezzoli), Talia (Budapest, Museo di belle arti), Polimnia (Berlino, Gemäldegalerie) e Calliope (Londra, National Gallery). In almeno due di questi dipinti (Erato e Tersicore) la fase più antica (i busti, i volti: 1450 circa) è da attribuire al M. (Benati, 1991, pp. 383-389; Natale, 1991, pp. 395-403). A questa fase sarebbe riconducibile anche la prima versione, leggibile solo dalla radiografia, della Calliope: quella attualmente visibile è opera di Cosmè Tura che gli succedette come responsabile degli artisti attivi all’interno dello studiolo.
Una certa confusione accompagna anche le vicende critiche relative ad altre opere che, a più riprese, vengono attribuite al Maccagnini. Longhi (1956, pp. 177 s.) gli avvicina un S. Gerolamo penitente di collezione privata, che è stato riferito poi a un anonimo pittore ferrarese (Bisogni; Boskovits, p. 377 n. 25), la fiammingheggiante Madonna dell’Umiltà di collezione privata, che è stata poi definitivamente assegnata da Boskovits al cremonese Benedetto Bembo su suggerimento di Carlo Volpe (Boskovits, p. 377 n. 25; Natale, 1991, p. 27 n. 49), e lo «stupendo ritrattino» di dama di profilo del Museo Correr a Venezia (secondo un’ipotesi accettata pur con qualche riserva da Salmi, 1958), che Boskovits (p. 377 n. 25) assegna invece all’ambiente veneziano di tardo Quattrocento. Benati (1987; 1991, pp. 300 s. n. 77) propone di identificare il M. con il Maestro del Desco di Boston. Di recente Peretti gli ha attribuito, seppur con qualche riserva, un piccolo dipinto con una S. Maria Egiziaca, conservato al Museo di Castelvecchio di Verona.
Le ultime notizie relative alla partecipazione del M. alla decorazione dello studiolo si fermano al 1452, quando si ha notizia dell’allestimento di una stufa per permettergli di lavorare alle tavole che «lui fa per lo studio de Belfiore delo Illustro nostro Signore» (Franceschini, p. 374).
Ancora nel 1448 il M. era stato citato in relazione a un dono ricevuto da Leonello in occasione del Natale («panni de grana»: ibid., pp. 308 s. doc. 607). Nel 1455, invece, il M. ricevette in dono dal successore di Lionello, Borso d’Este, una casa «per suo habitare», pretendendo in cambio «ogni anno in la festa de Pascoa de la rexuratione uno belissimo fiore depinto, on voglia roxa, on ziglio, on altro fiore che vorà epso Maistro Anzollo» (ibid., p. 442 doc. 763 n). Prima di quell’anno si sa che il pittore abitava in casa di messer Antonio da Cervarola a spese del duca (ibid., p. 411 doc. 726 p). Da alcuni documenti di pagamento risalenti al 1455 si sa, inoltre, che il M. aveva due garzoni, Giovanni e Giacomo (Venturi, 1885, p. 708; Franceschini, p. 443 doc. 764 b e passim): quest’ultimo potrebbe essere, secondo l’in;terpretazione di Venturi, quel «Giacomo Panizato» che risulta essere stato anche «garzone di Tito Livio e di Gherardo da Vicenza pittore». Al 5 ag. 1456 risale il testamento del M. in favore della concubina Cassandra (che lasciò insieme con la loro figlia Bartolomea, infante) e di Anselmo di Salimbeni da Siena, camerlengo di Borso e «suo concittadino ed amico» (Campori, p. 11), come si evince dagli atti notarili di Tommaso Ricetta, notaio ferrarese (Milanesi, p. 295: ma si veda anche il documento pubblicato da Franceschini, p. 483 n. 822, e datato 15 marzo 1457, che fa riferimento a tal testamento e all’«herede» Anselmo). In un documento del 22 marzo 1457, pubblicato da Franceschini, in cui è indicata la cifra da elargire ad Anselmo di Salimbeni, allo scopo di pagare le persone che lavorarono nella casa del maestro, il M. figura già come defunto.
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