MARCELLO, Angelo
Nacque a Venezia l'11 apr. 1602, secondogenito di Antonio di Giacomo e di Loredana Foscarini di Angelo. La famiglia, del ramo residente nella parrocchia di S. Tommaso apostolo (S. Tomà), discendeva per linea diretta da Giacomo di Cristoforo, capitano generale da Mar.
Fu registrato all'avogaria di Comun il 21 aprile, con i nomi di Angelo, Melchiorre e Domenico. Ebbe quattro fratelli, Giacomo (1599-1650), Giovanni (1607-88), Vincenzo (1609), Gerolamo (ecclesiastico a S. Michele con il nome di padre Mattia). Entrò a far parte del Maggior Consiglio all'età di vent'anni, avendo estratto il "bollettino" di S. Barbara (la balla d'oro) il 25 nov. 1622. Il 3 luglio 1628 sposò, nella parrocchia di S. Luca, Morosina Grimani di Girolamo, dalla quale non ebbe discendenza maschile, ma una sola figlia, Maria, maritata nel 1645 con Federico (Ferigo) Marcello.
Nel dicembre 1627 fu eletto dal Senato tra i Cinque savi agli ordini, carica che ricoprì, essendo stato rieletto il 20 dic. 1628, sino al giugno 1629, sostituito da Alvise Foscarini. Fu ancora chiamato come savio agli Ordini dal giugno al dicembre 1630. Tale carica resa stabile dal 1442, e interna al Collegio, e ove per ordini si intendevano gli ordini alla navigazione, aveva progressivamente perduto importanza già nel corso del XV secolo, volgendosi gli interessi della Repubblica verso il dominio di Terraferma. L'elezione del M. deve pertanto essere considerata come un iniziale gradino per futuri e più importanti incarichi nell'ambito dell'amministrazione veneziana.
Il 19 dic. 1632 fu chiamato dal Maggior Consiglio tra i sei auditori con la carica di auditore novo, deputato agli appelli delle sentenze civili emesse dai rettori del dominio, carica all'epoca alquanto ridotta negli effettivi poteri giurisdizionali. Lasciò anzitempo l'ufficio perché eletto dal Maggior Consiglio, il 26 giugno 1633, tra i tre provveditori sopra Dazi, con facoltà di controllo sull'esazione dei dazi statali imposti sulle merci pervenute a Venezia e nel Dogado, con particolare attenzione alla repressione del contrabbando; ma anche per questa magistratura, della durata di 24 mesi, non portò a compimento l'intero mandato previsto, presentando "rifiuto" il 27 giugno 1634. Il 13 apr. 1637 venne eletto, sempre dal Maggior Consiglio, tra i tre provveditori sopra Camere, con competenza sulle camere di Terraferma (entrata e spesa pubblica), sull'esazione dei dazi e delle imposte dirette e sull'obbligo di provvedere alla copertura delle spese militari; anche a questa carica rinunciò spontaneamente il 10 apr. 1638.
Il 31 ott. 1647 fu nominato dal Senato tra i Cinque provveditori sopra i feudi, incarico che avrebbe dovuto ultimare nell'ottobre 1649, ma il 22 febbr. 1648 risultò eletto tra i tre provveditori sopra i Beni comunali (fino al 22 febbr. 1649), allora materia delicata, considerato che il Senato, a seguito dell'attacco turco all'isola di Creta, era stato costretto a ordinarne un censimento e la loro successiva alienazione (decreti del 4 marzo 1646 e del 26 genn. 1647) per sovvenzionare, con nuove entrate, le spese di guerra. Tra il gennaio 1647 e il giugno 1649 i beni comunali così censiti furono ripartiti in sette quote ("prese"), delle quali due furono poste in vendita al pubblico incanto dai provveditori.
L'8 marzo 1654 entrò nell'ufficio dei censori, ai quali spettava il compito di sovrintendere alla legalità delle sedute dei Consigli, per contrastare eventuali brogli nelle elezioni. Nell'ottobre dello stesso anno fu eletto consigliere di Venezia, per il sestiere di S. Polo. Interruppe il mandato un mese prima del termine, perché nominato, il 29 sett. 1655, podestà a Brescia, ma rifiutò l'incarico. Designato nuovamente, il 3 febbr. 1658, alla medesima carica, oppose ancora un diniego, adducendo motivi di salute e pagando la multa, che gravava sugli inadempienti.
Il 3 maggio 1658 fu eletto dal Maggior Consiglio alla carica di capitano a Padova, in sostituzione di Francesco Grimani; nell'esercizio delle sue funzioni collaborò con i podestà Alvise Mocenigo e Bernardo Donà. Ultimato l'incarico e tornato nella Dominante, il M. presentò, nel giugno 1660, un'accurata relazione in Collegio, nella quale attraverso un'analisi capillare si mettevano in evidenza le principali questioni da affrontare per il buon governo dell'intero rettorato.
Il M. lamentò principalmente i dissidi tra alcune famiglie nobili cittadine, costituite in fazioni, e gli abusi da esse perpetrati ai danni dello Stato, suggerendo che "qualche lontana relegatione de gli ostinati sarebbe molto fruttuoso". Grave risultava l'indebitamento dei Monti di pietà, degli ospedali e delle scuole di devozione "perché non sono eseguite le regole a loro buona direttione instituite". Pure la Camera fiscale non era adeguatamente gestita e il fenomeno delle frodi daziarie molto diffuso. Non migliore era la situazione dello Studio, che non laureava più "soggetti così insigni" come nel passato; intollerabili, inoltre, i continui disordini provocati dagli studenti, ai quali il M. suggerì di porre fine con "una buona purga et riforma" che "ravivi l'obedienza et mantenga la modestia". Egli sottolineò, inoltre, "l'estrema lacrimale povertà" delle popolazioni rurali dell'intero rettorato, aggravate da una eccessiva "moltiplicatione delle gravezze", mentre i potenti "pretendenti" rifiutavano di pagare le tasse per i loro possedimenti. Il M. concluse la sua relazione invocando il tempestivo intervento di un inquisitore quale "auttorità libera et superiore a gl'intoppi de cavillosi subterfuggi" per "purgare l'infettione de gl'abusi, a consolare li sudditi, a rimovere le violenze che divengono tiraniche, et a rimmettere nel dovuto rispetto le publiche prescrittioni" (Relazioni dei rettori veneti in Terraferma. Podestaria e capitanato di Padova, a cura di A. Tagliaferri, IV, Milano 1975, pp. 377-383).
Il M. morì a Venezia il 20 ag. 1661.
Già ammalato da qualche mese, aveva dettato, il 30 giugno 1661, il proprio testamento, nel quale dava disposizioni sulla sepoltura e sulla divisione del patrimonio. Alla moglie restituì l'intera dote e lasciò la proprietà nell'isola di Murano. Alla figlia andarono oltre i 1500 ducati della dote, altri 2000 ducati e una proprietà al Cavallino. Altri beni andarono in usufrutto ai nipoti, figli di Giacomo; il resto del patrimonio fu assegnato al nipote Angelo, teneramente chiamato "Anzoletto", con la clausola che, se questo fosse morto senza eredi, lo destinasse ai cugini, sempre della discendenza di Giacomo. La sua salma venne tumulata nell'arca di famiglia nella chiesa di S. Maria Gloriosa dei Frari; nel testamento era prevista la celebrazione di 200 messe in suffragio e il lascito di 100 ducati ai luoghi pii della città.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Misc. codd., I, St. veneta, 20: M. Barbaro - A.M. Tasca, Arbori de' patritii veneti…, IV, c. 475; Avogaria di Comun, regg. 57, Libri d'oro, Nascite, VII, c. 182v; 91, Libri d'oro, Matrimoni, IV, c. 170v; Segretario alle Voci, Elezioni in Maggior Consiglio, regg. 15, cc. 36v-37r, 48v-49r; 16, cc. 21v-22r, 36v-37v, 46v-47r; 17, cc. 21v-22r; 20, cc. 1v, 5v, 116v-117v, 143v-144r; 21, cc. 126v-127r; ibid., Elezioni in Pregadi, regg. 12, cc. 19v-20r, 20v-21r, 21v-22r, 183v; 15, cc. 75r, 95v; Capi del Consiglio dei dieci, Lettere rettori e altre cariche, Padova, b. 93, aa. 1658-60, nn. 141-158, 162-175, 177-184, 186-189; Notarile, Testamenti, notaio L. Bruzzoni, b. 83, n. 10, 30 giugno 1661; Provveditori alla Sanità, Necrologi, reg. 880, alla data 20 ag. 1661; G. Soranzo, Bibliografia veneziana, Venezia 1885, p. 140.