VIVANTE, Angelo
– Nacque a Trieste l’11 agosto 1869 da Felice (1839-1927) e da Emilia Levi (1839-1917), in una famiglia dell’alta borghesia ebraica.
Il padre discendeva da una dinastia imprenditoriale che alla fine del Settecento si era trasferita da Mantova a Trieste, dove i suoi membri furono tra i protagonisti delle attività di intermediazione commerciale e assicurative legate al decollo economico della città dopo l’istituzione del porto franco. La madre proveniva a sua volta da un’importante famiglia di commercianti e finanzieri, residente dal 1848 nel centro di Firenze e partecipe della vita amministrativa della città; Emilia fu educata nel culto del Risorgimento, al quale aveva partecipato suo padre, affiliato alla carboneria. Entrambi i genitori trasmisero ad Angelo e al secondo figlio Giacomo Ernesto (1875-1890) il senso di un forte legame con la religione e la comunità triestina ebraica e l’amore per l’italianità, che coincideva con l’appartenenza alla cultura politica liberal-nazionale propria della borghesia cittadina. La ditta in cui da decenni convergeva l’ampio reticolo familiare dei Vivante fu liquidata nel 1880 in seguito ai mutamenti economici che colpirono in particolare le capacità di profitto dell’intermediazione commerciale; Felice si rivolse quindi al più promettente ramo dell’industria cotoniera e poi, nel 1883, tentò l’avvio di una nuova impresa a Lugano, che richiese una lunga procedura per ottenere la cittadinanza svizzera; la domanda fu accolta nel 1886, ma il progetto imprenditoriale naufragò subito. Persa la cittadinanza austriaca, il ritorno a Trieste lo vide escluso dalle numerose cariche pubbliche e associative che aveva ricoperto in passato.
Angelo frequentò il ginnasio italiano a Trieste, luogo cruciale per la formazione della classe dirigente irredentista e nel 1887 si iscrisse a giurisprudenza all’Università di Bologna, una scelta probabilmente collegata alle ormai vaghe prospettive imprenditoriali della famiglia nel contesto triestino, ma anche al prestigio dell’ateneo. Qui infatti pose le basi della sua formazione intellettuale, che ricevette l’impronta della ‘scuola positiva’ rappresentata nel campo del diritto da docenti come Pietro Ellero ed Enrico Ferri. Si laureò nel 1891 con una tesi dedicata agli infortuni sul lavoro, nel momento in cui in Europa prendeva corpo la prima legislazione in tema di servizi sociali. Rientrato a Trieste, inizialmente affiancò il padre negli affari, dedicandosi in particolare al ramo immobiliare. Nonostante il declino economico la famiglia Vivante era in grado di usufruire di vaste rendite e Angelo partecipò alla vita sociale dell’élite triestina, associandosi ai circoli più esclusivi della città e dedicandosi in particolare all’alpinismo, all’ippica e alla scherma. Nel 1899 il definitivo ritiro del padre dagli affari e la vendita del patrimonio immobiliare della famiglia lo spinsero a cercare una nuova collocazione professionale, un evento che portò con sé un intenso approfondimento dei suoi interessi intellettuali e politici.
Dal 1900 al 1906 Vivante lavorò come redattore a Il Piccolo della sera, l’edizione culturale dell’organo di stampa del partito liberal-nazionale Il Piccolo; si dedicò in particolare alle analisi di politica estera, ma entrò nel contempo in un contatto più ravvicinato con i fatti e le dinamiche della scena politica triestina. Intorno al 1902 cominciò a frequentare il Circolo di studi sociali, una filiazione del Partito socialista, e contemporaneamente maturò il suo distacco dall’area liberale; si riconobbe nella matrice teorica del socialismo austro-marxista e particolarmente nell’attitudine all’analisi scientifico-sociologica dei problemi sociali. Nel 1902 pose fine anche al vincolo con la fede ebraica e presentò istanza al comitato civico per uscire dalla comunità, dichiarandosi aconfessionale. Furono scelte che lo misero in conflitto con l’ambiente sociale dal quale proveniva; soffrì di queste incomprensioni e venne descritto, nella sua maturità, come un uomo di carattere schivo e incline alla solitudine, ma sempre molto legato agli affetti familiari.
Vivante divenne l’intellettuale più autorevole del socialismo triestino, un teorico che si identificava con il programma della II Internazionale e con l’idea di una riforma in senso federale dello stato plurinazionale austriaco; in sintonia con il suo partito fu critico nei confronti del movimento irredentista che nel contesto giuliano assumeva sempre più il carattere di un’aspra competizione tra italiani e slavi.
Le sue argomentazioni si distinsero per l’attitudine analitica e per un approccio che puntava alla confutazione puntuale delle tesi nazionaliste, ritenute in larga parte infondate storicamente e alimentate da pulsioni irrazionali. Fu un’attitudine che lo accostò a Gaetano Salvemini, che conobbe nel 1904 in occasione di una conferenza al Circolo di studi sociali e con il quale strinse un rapporto di amicizia e condivisione di un metodo che trovava nel materialismo storico prevalentemente «uno strumento di analisi economica e sociale» (Apih, 1983, p. 9). Salvemini fu anche un tramite con l’opinione pubblica e con i socialisti italiani, che considerò sempre come interlocutori essenziali delle sue riflessioni.
Alla fine del 1905 Vivante lasciò Il Piccolo per dedicarsi pienamente all’impegno politico e svolgere un ruolo di primo piano nel gruppo dirigente del partito, seguendo in particolare la propaganda per il suffragio universale e l’elaborazione di proposte per la riforma del voto amministrativo; nel 1906 cominciò a scrivere per Il Lavoratore, organo di stampa socialista di cui divenne caporedattore e, abbandonata la cittadinanza svizzera e ottenuta nuovamente quella austriaca, si presentò come candidato alle elezioni locali. Nello stesso anno fu costretto ad abbandonare ogni attività per l’insorgere di una grave crisi depressiva, un malessere che lo accompagnò con fasi alterne per il resto della vita; nel 1907 riprese la direzione del giornale che mantenne fino al 1909, gli anni di maggior successo e impegno politico-culturale del periodico. Nel 1907 fu delegato del partito alla conferenza di Stoccarda dell’Internazionale socialista, che ebbe come tema principale la mobilitazione contro il militarismo e le minacce di guerra. Nonostante egli avvertisse in azione un clima di fervente internazionalismo, le divergenze tra francesi e tedeschi sulla linea da seguire nell’eventualità di un conflitto europeo non si ricomposero, ma nelle sue cronache valutò comunque positivamente la mozione finale, perché rispecchiava, con declinazioni diverse, la volontà di difendere la pace. Nella lettera di dimissioni con la quale lasciò definitivamente la direzione del Lavoratore Vivante affermò di continuare a condividere la linea politica del partito, sempre fedelmente rispecchiata dalla sua conduzione del giornale; tuttavia dai suoi scritti traspaiono divergenze tra lui e Valentino Pittoni a proposito del bisogno di essere più in sintonia con le rivendicazioni e le mobilitazioni operaie e delle modalità da adottare per affrontare le crescenti difficoltà economiche e gestionali.
Vivante non abbandonò comunque l’impegno politico e continuò a pubblicare le sue riflessioni nell’Avanti, Il Lavoratore, l’Unità e in Critica sociale; qui nel 1909 illustrò le scelte elettorali dei socialisti triestini, che in occasione delle elezioni amministrative avevano accordato agli sloveni la possibilità di eleggere due loro candidati nei collegi della città: il ‘compromesso’ italo-sloveno voleva indicare la rinuncia alle velleità annessionistiche agitate dal nazionalismo italiano; inoltre smorzare i toni della competizione nazionale avrebbe comportato vantaggi anche per lo sviluppo economico e mercantile della parte italiana. Come Vivante affermò nel corso di un dibattito a Reggio Emilia, seguito a un processo per querela intentato dal socialista Amilcare Storchi contro il periodico nazionalista La Voce del popolo, la vita di Trieste e dei Paesi dalmati «è legata da vincoli economici con l’interno dei paesi dell’Austria. Perché dovremmo negare questa verità? Se tali sono le condizioni nostre il problema si pone da sé: o vivere in accordo con la stirpe vicina e quindi riconoscere i suoi diritti per potere con maggiore vigoria pretendere che siano rispettati i nostri, o inasprire il conflitto fino alle estreme conseguenze» (cit. in Millo, 1998, p. 196).
Approfondì queste tesi nella sua opera più significativa e discussa, Irredentismo adriatico. Contributo alla discussione sui rapporti austro-italiani, pubblicata nel 1912 nelle edizioni fiorentine della rivista La Voce di Giuseppe Prezzolini, con il quale collaborava da alcuni anni. «Io lavoro da cinque mesi in biblioteca», scrisse già nel 1909 in una lettera a Salvemini, «per una specie di diagnosi dell’irredentismo adriatico, decomponendolo nei suoi fattori economico, sentimentale, etnico, ecc.» (Apih, 1991, p. 149). Volle offrire ai lettori, «col minimo di passione consentito agli umani» fonti, dati, analisi «dei rapporti fra la nazione italiana, riunita in un tutto politico. E le nazionalità varie (compresi gli italiani della Giulia) che dalle Alpi orientali gravitano [...] sulla costa orientale adriatica» (Irredentismo adriatico, 1977, p. 20). Frutto di lunghi studi e ricerche, il libro si sviluppa anche come un racconto storico, a partire dai secolari conflitti tra Trieste e Venezia e poi dall’istituzione del porto franco che aveva trasformato un comune oligarchico in un emporio statale cosmopolita, senza la presunzione di trarre conclusioni definitive e senza occultare il punto di vista socialista e internazionalista.
L’annessione di Trieste all’Italia, infatti, l’avrebbe privata di un retroterra che aveva consentito e consentiva innanzitutto le fortune della classe imprenditoriale. Vivante riaffermò, marxianamente, la centralità della questione economica, una ‘bussola’ chiarificatrice nell’interpretazione dei nazionalismi europei e analizzò il particolare intreccio delle questioni nazionale e sociale nel territorio giuliano, indicando nello sviluppo del sistema capitalistico, bisognoso di manodopera a basso costo (e non – come voleva la propaganda liberal-nazionale – nei disegni imperiali asburgici), la causa dell’immigrazione del proletariato sloveno e del suo inurbamento; era la formazione di una borghesia slava piccola e media, non più disposta all’assimilazione, che aveva poi acceso lo scontro tra identità e culture che variamente si mescolavano e convivevano da secoli.
L’opera fu attaccata violentemente dalla stampa nazionalista, che prese di mira anche personalmente il suo autore, e recensita positivamente da pochi, tra i quali Scipio Slataper; fu apprezzata dai socialisti austriaci e in particolare da Wilhelm Ellenbogen, molto vicino ai socialisti italiani dell’Impero, come un contributo prezioso per le argomentazioni rigorose e per il suo messaggio di pace.
In seguito alle guerre balcaniche del 1912-13 Vivante pubblicò le sue riflessioni sui rapporti tra nazionalità, gruppi sociali e Stato nell’Austria-Ungheria, indicando nella debolezza dei vecchi strumenti del centralismo e nell’immobilismo legislativo del Parlamento viennese le cause di un possibile ricorso alle armi e all’«imperialismo della paura». Nel 1914 raccolse nell’opuscolo Dal covo dei traditori una serie di articoli apparsi nell’Avanti!, in polemica con l’irredentismo e a difesa dei socialisti triestini sempre più violentemente accusati di «austriacantismo» dai liberal-nazionali.
Lo scoppio della guerra e poi l’ingresso dell’Italia nel conflitto lo colpì profondamente, come una smentita definitiva del suo contributo a una politica di pacificazione e di riforma in senso federalista dello stato plurinazionale austriaco.
Nel 1915 fu ricoverato per l’aggravarsi di una crisi depressiva; si gettò dalla tromba delle scale dell’ospedale psichiatrico di Trieste e morì pochi giorni dopo, il 1° luglio 1915.
Slataper (1915-1925), difendendo la sua memoria dai commenti volgari apparsi su alcuni organi di stampa, lo ricordò come un socialista, un uomo onesto, un «tolstoiano», atterrito «quasi fisicamente» dalla realtà della guerra, un intellettuale che «ha tentato di dare una soluzione nazionale assolutamente nuova a quel misto aggregato di popoli che è oggi l’Austria-Ungheria, e che domani saranno, autonomi, ma non perciò meno impuri nazionalmente» (pp. 432-434).
Opere. Irredentismo adriatico. Contributo alla discussione sui rapporti austro-italiani, Firenze 1912, Genova 1977; Dal covo dei traditori. Note triestine, Milano 1914, Genova 1977).
Fonti e Bibl.: S. Slataper, A proposito del Dott. V., in La Tribuna, 19 luglio 1915, poi in Id., Scritti politici, Roma 1925, pp. 432-434; E. Collotti, A. V., in F. Andreucci - T. Detti, Il movimento operaio italiano. Dizionario biografico, V, Roma 1978, pp. 149-252; E. Apih, Come vide la luce “Irredentismo Adriatico”. Le lettere di A. V. a Prezzolini ed a Salvemini, in Qualestoria, n.s.,1983, n. 2, pp. 3-45; Id., Il socialismo italiano in Austria, Udine 1991; V. Calì, Gli scritti di A. V. sull’Unità di Salvemini e sul Popolo di Cesare Battisti, in Archivio trentino di storia contemporanea, aprile 1991, pp. 3-11; M. Cattaruzza, Socialismo adriatico: la socialdemocrazia di lingua italiana nei territori costieri della monarchia asburgica: 1888-1915, Manduria 1998; A. Millo, Storia di una borghesia. La famiglia Vivante a Trieste dall’emporio alla guerra mondiale, Pasin di Prato 1998; A. V. e il tramonto della ragione, a cura di L. Zorzenon, Trieste 2017.