angelo (angiolo; agnolo)
Significa, quasi sempre al plurale, le Intelligenze celesti, che sono sostanze separate dalla materia: Cv II II 7 intendo certe Intelligenze, o vero per più usato modo volemo dire Angeli; IV 2 li movitori di quelli [cieli] sono sostanze separate da materia, cioè intelligenze, le quali la volgare gente chiamano Angeli; Vn VIII 1, XXXIII 8 24, Pg XXXII 74, Pd X 53, XX 102. Come appellativo della prima gerarchia angelica il nome è attestato in Cv II V 6 Lo primo [ordine] è quello de li Angeli, lo secondo de li Arcangeli, lo terzo de li Troni, e, con la specificazione del cielo che da essa riceve il movimento, al § 13 ragionevole è credere che li movitori del cielo de la Luna siano de l'ordine de li Angeli. In quanto creature più vicine a Dio, vengono proposte come segno di perfezione (Pd II 11 drizzaste il collo / per tempo al pan de li angeli; Cv I 17 quella mensa dove lo pane de li angeli si manuca), come termine di paragone per significare la perfezione (Cv III Amor che ne la mente 38 In lei discende la virtù divina / sì come face in angelo che 'l vede [ripreso in XIV 3], II 14 e VII 5), o per commisurarla nelle altre creature, come in Pd XXXII 110 leggiadria / quant'esser puote in angelo e in alma, e Cv III VII 6 è ... da credere... che sia alcuno... di sì alta condizione che quasi non sia altro che angelo (così anche in VII 7, XIV 9, IV XIX 6 e 7). Tale confronto si offre anche alla poesia d'amore, per significare la nobiltà morale (Rime XCIII 14 ella è sì d'ogni peccato netta / come angelo che stia in paradiso), o la bellezza che da quella si esprime: Vn XXVI 2 Ella coronata e vestita d'umilitade s'andava... Diceano molti... " Questa non è femmina, anzi è uno de li bellissimi angeli del cielo "; e in qualche caso è solo la figura dell'a. che significativamente si offre come simbolo di Amore, come in Rime LXIX 8 e i' ebbi tanto ardir, ch'in la sua cera / guarda', [e vidi] un angiol figurato (" Angiol non sarà la donna, come pure è nel Guinicelli... ma piuttosto Amore ", Contini). E altresì punto di attrazione della memoria e della fantasia dell'uomo innamorato, come in Vn XXXIV 1 io mi sedea in parte ne la quale, ricordandomi di lei, disegnava uno angelo sopra certe tavolette (così anche al § 3). In altri luoghi il termine indica le creature angeliche in genere: Pg XI 10 Come del suo voler li angeli tuoi / fan sacrificio a te; Pd VII 130 Li angeli... dir si posson creati, / sì come sono in loro essere intero (essi furono creati come tali immediatamente da Dio, senza l'intervento di cause seconde), XXII 72, XXIX 38, Cv II II 1, V 4 (due volte), III XII 9, Vn XIX 7 15 (ripreso ai §§ 15 e 17), XXIII 7 (due volte) e 25 59, XXXI 10 16; costituiscono una delle più belle scene del Paradiso gli a. che esaltano la gloria di Maria, in XXXI 131 e a quel mezzo, con le penne sparte, / vid'io più di mille angeli festanti, / ciascun distinto di fulgore e d'arte. / Vidi a lor giochi quivi e a lor canti / ridere una bellezza, che letizia / era ne li occhi a tutti li altri santi (anche per Beatrice si levar cento a. per diffondere intorno a lei una nuvola di fiori, Pg XXX 16 ss.).
Il termine indica anche a. determinati, come quelli che in Purgatorio hanno funzione specifica di ministri di Dio, dal nocchiero della navicella (Pg II 29 Ecco l'angel di Dio: piega le mani; / omai vedrai di sì fatti oficiali), a quelli che custodiscono i vari passaggi (IV 129 l'angel di Dio che siede in su la porta; IX 104,XII 79, XV 34, XVI 144, XIX 54, XXI 23, XXII 1 e 2, XXVII 6), o gli altri chiamati a singole operazioni, i quali o sono d'invenzione dantesca - come in Pg V 104 l'angel di Dio mi prese, e quel d'inferno / gridava; vili 26 e 107, XXX 82, Pd XXXII 103 - o appartengono alla tradizione scritturale: così per l'Annunciazione in Pg X 34 L'angel che venne in terra col decreto / de la molt'anni lagrimata pace, e Pd XIV 36; per la resurrezione, in Cv IV XXII 15 uno giovane truovano in bianchi vestimenti, lo quale, secondo la testimonianza di Matteo e anche de li altri, era angelo di Dio. E però Matteo disse: " L'angelo di Dio discese di cielo... " [" Angelus enim Domini descendit de caelo, et accedens revolvit lapidem... erat autem adspectus eius sicut fulgur et vestimentum eius sicut nix ", Matt. 28, 2-3]... Questo angelo è questa nostra nobilitade che da Dio viene (§ 16).
Si distinguono da queste creature sublimi quelle che barattarono col nero dell'Inferno il proprio abito di luce (If XXIII 131 li angeli neri / che vegnan d'esto fondo a dipartirci) e con il loro precipitare sconvolsero l'ordine terrestre (Pd XXIX 50 de li angeli parte / turbò il suggello d'i vostri alimenti), o, neutrali tra il bene e il male, si procurarono l'ignobile sorte degl'ignavi, le cui anime mischiate sono a quel cattivo coro / de li angeli che non furon ribelli / né fur fedeli a Dio (If III 38): il loro gruppo non compare nella teologia tomistica (cfr. C. Zanini, Gli angeli nella D.C Milano 1908; la recens. del Busnelli in " Bui]. " XVII [1910] 94; e soprattutto cfr. oltre, Angeli Neutrali).
La forma del diminutivo angiolel, piccolo angelo, nel senso delle figurazioni stilnovistiche, è attestata solo in Rime LVI 7 e sovr'a lei vidi volare / un angiolel d'amore umile; / e 'n suo cantar sottile / dicea: " Chi mi vedrà... ". Il diminutivo è un ritornante elemento (ghirlandetta, Fioretta, parolette) della grazia musicale della ballata. L'immagine si ritrova nel Poliziano (Cinto di fiamme un angiolel d'Amore; Ma chi è quel che vola? È l'angiolel d'Amore).
In Detto 238 (boce d agnol) e in Fiore CXXIII 5 (Agnol pietoso par, con riferimento a Falsembiante), ricorre la variante ‛ agnolo ', di tono popolare fiorentino.
Gli a. in Dante. - D., seguendo la tradizione cristiana, indica con il termine a. gli a. buoni; le rare volte in cui se ne serve per indicare i diavoli, vi aggiunge un aggettivo (angeli... rei, in Cv III XII 9; angeli neri, in If XXIII 131; cfr. anche neri cherubini, XXVII 113). Inoltre, secondo l'uso del tempo, in D. la parola, in senso lato, indica gli a. buoni di qualsiasi ordine (v. GERARCHIA ANGELICA); in senso stretto, indica quelli di un solo ordine. Nella prima parte di questo articolo trattiamo degli a. buoni in senso stretto, mentre nella seconda, sugli a. neutrali, ci riferiamo alle creature angeliche di qualunque ordine.
Gerarchia. - Nella divisione degli spiriti celesti, dominante prima e al tempo di D., in nove ordini, raggruppati in tre gerarchie, gli a. in senso stretto costituiscono l'ordine più lontano da Dio e più vicino agli uomini. Così D., nel Convivio, enumerando i cori angelici dal meno al più nobile ', afferma che gli a. sono lo primo ordine della prima gerarchia (II V 6); nel Paradiso, procedendo all'inverso, dice che sono l'ultimo, cioè il terzo ordine della terza gerarchia (XXVIII 126). Nella visione simbolica - che D. immaginò di avere nel primo mobile - dei cori angelici quali nove cerchi lucenti concentrici, ruotanti attorno a un punto luminoso (Dio), quello degli a. è il più distante dal punto centrale, il meno veloce e il meno lucente (Pd XXVIII 34-39 e 126). L'immagine significa che gli a. vedono e amano Dio e sono beati meno degli spiriti degli altri otto cori (Pd XXVIII 37-39, 43-45 e 70-78).
Gli a. e la Trinità. - Il Convivio assegna a ciascuna gerarchia angelica, come oggetto particolare della visione beatifica, una delle persone della Trinità, secondo la loro disposizione gerarchica: il Padre alla gerarchia più nobile, il Figlio alla intermedia, lo Spirito Santo all'infima. Gli a., appartenendo all'ultima, contemplano più profondamente la somma e ferventissima caritade de lo Spirito Santo (II V 7-8). Inoltre il Convivio destina ciascun coro di ogni gerarchia alla contemplazione della propria persona divina nella relazione con sé stessa o con una delle altre due persone, sempre secondo la loro disposizione gerarchica. Specifica quanto avviene nella gerarchia più alta: l'ordine più nobile (serafini) contempla il Padre nella relazione con sé stesso; l'ordine intermedio (cherubini) lo contempla nella relazione con il Figlio; l'ordine meno nobile (potestà) lo contempla nella relazione con lo Spirito Santo (II V 9-11). Poiché D. non specifica quanto avviene nelle altre due gerarchie, sorge la difficoltà se nella disposizione gerarchica, scendendo dall'alto in basso, la relazione del Figlio e dello Spirito Santo debba iniziare con sé stessi o con il Padre. Come è evidente, nelle due gerarchie più basse la relazione della persona divina con sé stessa non coincide con la relazione della medesima persona con il Padre, come invece nella gerarchia più alta.
Vincenzo di Beauvais (nello Speculum historiale I 12, Duaci 1624, 6a) e Bonaventura da Bagnoregio (In Hexaëmeron XXI 20, Quaracchi V 434b), che prima di D. avevano riferito i singoli cori angelici alle tre persone divine e alle loro relazioni procedendo dall'alto in basso, nelle due gerarchie meno nobili avevano iniziato dalla relazione del Figlio e dello Spirito Santo con il Padre. Però essi parlavano della " somiglianza analogica " dei nove cori angelici con le tre persone divine; sotto tale aspetto era logico che si osservasse rigorosamente la scala gerarchica ontologica, iniziando sempre dal Padre. Invece D. riduce il riferimento all'oggetto della ‛ visione beatifica '; in tal modo cade la difficoltà che la scala gerarchica inizi la discesa sempre dalla contemplazione di una persona divina nella relazione con sé stessa. Quanto poi il Convivio dice dei troni, ritenuti il coro più alto dell'infima gerarchia, lascia supporre che D. abbia destinato il coro più nobile della seconda e dell'infima gerarchia a contemplare il Figlio e lo Spirito Santo nelle relazioni con sé stessi. Infatti il Convivio riferisce allo Spirito Santo i troni più che i due cori inferiori; li dice naturali de l'amore del Santo Spirito; così spiega l'influsso particolare del cielo di Venere, mosso dai troni, sull'amore umano (II V 13-14). Perciò è da supporre che i troni contemplano maggiormente lo Spirito Santo, nella sua relazione con sé stesso, mentre gli arcangeli lo contemplano nella relazione con il Padre e gli a. nella relazione con il Figlio.
Gli a. e i cieli. - D. ha posto i cori in rapporto diverso non solo con le tre persone divine, ma anche coi cieli. Infatti sia nel Convivio sia nella Commedia ha affermato una corrispondenza tra i nove ordini angelici e le nove sfere celesti mobili. Gli a., infimo coro, corrispondono alla Luna, infimo cielo. La corrispondenza comporta, prima di tutto, che gli a. sono modello della Luna: come gli a. hanno un grado di beatitudine inferiore agli spiriti celesti degli otto cori superiori, così la Luna ha meno virtù degli otto cieli superiori (Cv II V 12; Pd XXVIII 46-78). Poi, per la detta corrispondenza, ragionevole è credere che li movitori del cielo de la Luna siano de l'ordine de li Angeli (Cv II V 13).
Quanto al numero degli a. motori della Luna, D. non lo specifica. Nel Convivio accetta il principio generale de li filosofi e de li astrologi secondo cui ciascun cielo è mosso da tante intelligenze, quanti sono i suoi movimenti (II V 15); fa un'eccezione per il solo moto diurno degli otto cieli più bassi, affermando di non sapere se esso è impresso da un a. motore o dal primo mobile (II V 17); per il numero dei movimenti di ciascun cielo nota che per li filosofi e per li astrologi diversamente è sentito, secondo che diversamente sentito de le sue circulazioni (II V 15), ma che da parte sua preferisce il libro de l'Aggregazioni de le Stelle di Alfragano perché questo riporta in sunto la migliore dimostrazione de li astrologi (II V 16). Secondo Alfragano (Liber de aggregationibus scientiae stellarum 13 [ediz. R. Campani, Città di Castello 1910,117-120]), la Luna ha cinque movimenti oltre il diurno. Quindi secondo il Convivio gli a. motori della Luna dovrebbero essere cinque o sei.
A. Scrocca (Il sistema dantesco dei cieli e delle loro influenze, Napoli 1895, 61-62) scrisse che la Commedia assegna a ogni cielo un solo angelo motore. L'affermazione, più volte ripetuta, dev'essere sottoposta a critica. Considerando bene i passi del poema, se è vero che la teoria del Convivio non risulta riaffermata, non risulta neppure abbandonata. Infatti D. cita, come questione tipica della metafisica, quella de il numero in che enno / li motor di qua sù (Pd XIII 97-98); ricorda di aver attribuito, nella canzone Voi che 'ntendendo il terzo ciel movete, più motori al cielo di Venere (Pd vili 36-37); parla dei motori al plurale, perciò abbraccia quelli di tutti e nove i cieli (If VII 87; Pd II 127-129 e vili 109-110); quando afferma genericamente che ciascun cielo corrisponde a sua intelligenza (Pd XXVIII 78), si riferisce non al motore, ma a tutto il coro angelico, modello del cielo, come appare dal contesto (XXVIII 46-78); egualmente, nel dire che Dio assegnò ai cieli chi conduce (If VII 74), usa un'espressione generica che non esclude la pluralità dei motori dei sette cieli planetari (VII 87). Una sola volta afferma con certezza che il motore è uno (Pd II 130-144), però si riferisce al cielo stellato al quale anche nel Convivio (II XIV 10-13), seguendo Alfragano (op. cit., p. 13), attribuisce un solo movimento oltre il diurno. Per conseguenza, quando nella Monarchia (III IV 18) scrive che motus eius [della Luna] est a motore proprio, intende affermare solo che la Luna non è mossa dal Sole, ma non esclude la pluralità degli a. motori così come, parlando di motus al singolare, non esclude la pluralità dei movimenti.
Gli a. e gli uomini. - Circa questa relazione, i Padri generalmente avevano ritenuto che gli spiriti celesti di tutti i nove cori potevano essere mandati in missione presso le creature (cfr. G. Bareille, Angélologie d'après les Pères, in " Dictionnaire de Théologie Catholique " I, Parigi 1930, 1213). Invece lo Pseudo-Dionigi (De coelesti hierarchia v, IX 2-4 e XIII; Patrol. Gr. III 195, 258-262, e 299-307) aveva scritto che potevano essere destinati a ministeri esteriori solo gli spiriti dei due cori più bassi, cioè gli a. e gli arcangeli. S. Gregorio Magno (XL homiliarum in Evangelia libri duo II, hom. 34, nn. 8-9 e 12-13; Patrol. lat. 76, 1250-1251 e 1254-1255), pur protestandosi dubbioso, propende per lo Pseudo-Dionigi. Inoltre Pietro Lombardo (Sent. II, d. 10, Quaracchi, i 351-353), espone le due teorie senza pronunziarsi; s. Bonaventura (II Sent., 10 1 2 [II 261a-262b], In Hexaëmeron XXI 30 e 32 [V 463b]) insegna che solo gli spiriti celesti dei tre cori più bassi vengono destinati a svolgere missioni presso le creature; s. Tommaso (Sum. theol. I 112 4, 113 3) vi assegna gli spiriti dei cinque cori più bassi; Duns Scoto (Oxon. II 10 [Vivès, XII 522b-523b], Rep. par. II 10 2 [XXII 662b-663b]), ritiene che almeno eccezionalmente possono essere inviati in missioni straordinarie agli uomini anche gli spiriti celesti dei cori più alti.
D. non offre molti elementi su tale questione. L'unica affermazione esplicita lo avvicina allo Pseudo-Dionigi e lo allinea con Bonaventura: la gerarchia più bassa, essendo più propinqua a noi, ci porge de li doni che essa riceve (Cv II V 8). Quindi sarebbero in rapporto con gli uomini i tre cori infimi, tra cui quello degli a.; in nessun altro luogo D. esprime esplicitamente la sua opinione. Infatti quando parla delle relazioni dirette degli spiriti celesti con gli uomini, indica i primi con nomi generici (Ep VI 12, Pg VIII 104 e XXX 18) o li chiama a. senza chiarire se usa il termine in senso stretto o largo (Mn III VI 6, Ep XI 4, Pg II 29, V 104, VIII 26 e 107, XXX 29). Non dice appartenente al coro degli a. neppure la intelligenza separata, la ‛ fortuna ', general ministra e duce (If VII 78), addetta alla distribuzione dei beni terrestri, sebbene lo debba supporre per la corrispondenza dei nove cieli con i nove cori angelici. Neppure Gabriele, inviato a Maria in Nazaret, è chiamato con termini che indichino un qualche coro (Pd XXXII 94-102 e 119; XXXII 94) se non con l'appellativo dubbio di a. (Pg X 34, Pd XIV 36, XXXII 103 e 110).
Per i rapporti della dottrina di D. con l'angelologia medievale e per la bibliografia, v. GERARCHIA ANGELICA.
Gli a. neutrali. - Solo in If III 37-42 D. tratta degli a. che i dantisti sogliono chiamare ‛ neutrali '.
Colpa. - Si tratta di a. peccatori, perché sono detti cattivo coro (If III 37) e sono puniti nel vestibolo infernale insieme con i trapassati ignavi. Sono distinti, perciò, dagli a. che fur fedeli a Dio. Ma sono distinti anche da quelli che gli furon ribelli (vv. 38-39). Il loro peccato consistè nel fatto che per sé fuoro (v. 39). Alcuni interpreti intendono per sé nel senso di " a favore di sé "; ma J. Freccero (in " Studi d. " XXXIX [1962] 36-38) giustamente nota che anche i ribelli scelsero la propria utilità, e perciò dà al per sé il senso di " in disparte ". Lo starsene " in disparte " ci porta alla comune interpretazione di neutralità. Il Nardi (Dal " Convivio " alla " Commedia ", p. 337), accettato dal Freccero (art. cit., p. 7) e dal Fallani, precisa che la neutralità può essere anche una scelta responsabile e coraggiosa tra due belligeranti, mentre gli a. che per sé fuoro non fecero nessuna scelta, per mancanza di coraggio; il per sé indica la colpa di inazione, di ignavia. Senza dubbio nella concezione teologica dantesca tale colpa è meno grave di quelle punite nei sottostanti cerchi infernali (cfr. If XI 67-90); però, secondo il sentimento di D., la colpa degli a. imbelli è più spregevole. D. sente che la creatura intelligente vale per quel tanto che agisce e osa, come si ricava, tra l'altro, dall'esortazione di Ulisse ai suoi compagni (If XXVI 112-120) e da alcuni discorsi di Virgilio a D. (If II 45-48 e XXIV 46-55). La pigrizia e la pusillanimità quasi privano l'anima della personalità.
Pena. - Il vestibolo infernale, in cui gli a. imbelli sono puniti, pur essendo fuori del profondo inferno (If III 41), parte della città dolente, dell'etterno dolore, contiene la perduta gente che non ha più speranza di salvezza (III 1-9), perché si trova dopo la porta d'entrata nell'Inferno.
D., dopo aver detto che l'anime triste di coloro / che visser sanza 'nfamia e sanza lodo sono mischiate agli a. che per sé fuoro, aggiunge immediatamente: Caccianli i ciel per non esser men belli, / né lo profondo inferno li riceve, ch'alcuna gloria i rei avrebber d'elli (If III 34-42). Qualche interprete riferisce questa terzina alle anime degli ignavi. Ma mentre gli a., essendo stati creati nel cielo (VII 11-12; Pd XXIX 32-33 e 46-48), possono dirsene cacciati ' (cfr. anche If IX 91), le anime degli ignavi, non essendovi mai state, potrebbero dirsi soltanto non ‛ ricevute '. L'azione presente espressa da Caccianli indica che tali a., pur essendo stati espulsi dal cielo solamente nel passato, poco dopo la loro creazione, soffrono come pena una perpetua ripulsa sia da parte del Paradiso sia da parte dell'Inferno. La pena corrisponde, per la legge del contrapasso, alla colpa di non essere stati né ribelli / né... fedeli a Dio. Come la colpa, la pena del vestibolo infernale è in sé meno grave di quelle dei nove cerchi, ma è per D. più sgradevole: i dannati dei nove cerchi potrebbero gloriarsi confrontandosi con gli a. imbelli (If III 42).
Fonte storica. - È questione dibattuta in tempi recenti dai dantisti. Ogni segnalazione di passi di opere dottrinali del periodo scolastico che sembravano accennare almeno indirettamente ad a. imbelli s'è dimostrata errata alla verifica. Lo stesso si deve dire del rimando ad Apoc. 3, 14-16, poiché l' " angelo " né caldo né freddo della Chiesa di Laodicea è uno solo, il vescovo o l'a. custode di quella diocesi, e non ci risulta che sia stato mai inteso come un vero a. decaduto. Più felici le recenti indicazioni delle cosiddette fonti letterarie, cioè delle agiografie leggendarie e dei poemi.
Tra queste vanno soprattutto ricordate la Vita secunda Sancti Brendani 20-21 (ed. C. Plummer, Vitae Sanctorum Hiberniae, Oxford 1910, II 276-277), in voga dal sec. XI, e, di Wolfram von Eschenbach (morto il 1225), Parzival IX 471 e XVI 798 (ed. G. Bianchessi, nella collezione I grandi scrittori stranieri, Torino 1957, 361 e 590). Queste fonti menzionano realmente una categoria di a. distinta dai buoni e dai demoni. Secondo il passo citato della Vita secunda Sancti Brendani, gli a. intermedi non intesero ribellarsi a Dio, ma solo, per debolezza, continuarono a obbedire al ribelle Lucifero. Per tale colpa sono trasformati in uccelli, non soffrono pene (tranne la privazione della visione beatifica) e anzi godono di un loro paradiso (naturale) e rendono lode a Dio. Forse nel giorno del giudizio otterranno il perdono (cfr. Nardi, op. cit., p. 242 n. 24). Secondo i passi citati del Parzival, gli a. intermedi, nella battaglia tra Lucifero e la Trinità, non presero " partito né per l'uno né per l'altra "; banditi dal cielo, " sono perduti in eterno: da sé s'hanno eletta la perdizione ". Appare chiara la profonda differenza degli a.-uccelli della leggenda di s. Brandano dagli a. imbelli danteschi che, resi spiacenti anche a Lucifero, sono sottoposti a un tormento nel vestibolo infernale, senza speranza di perdono. Meno lontani dai danteschi sono gli a. neutrali del Parzival; tuttavia anch'essi sono collocati in un contesto ben diverso.
La fonte che presenta una concezione più simile alla dantesca - e dalla quale forse derivano anche gli a. intermedi delle sopraddette opere letterarie - è Clemente Alessandrino (Stromata VII 7; Patrol. Gr. IX 466-467): alcuni a., distinti dai ribelli, caddero per " pigrizia ". La validità della segnalazione, fatta da B. Lombardi e ripetuta tra gli altri da Tommaseo, Poletto, Scartazzini, fu messa in dubbio da chi ritenne che Clemente avesse inteso attribuire a detti a. un peccato di debolezza " carnale " verso le figlie degli uomini. Ma il Nardi (op. cit., pp. 338-339), considerando accuratamente il passo clementino, ha mostrato che esso " calza ottimamente coll'episodio dantesco di questi angeli dubbiosi, abulici e imbelli ", non accennando " affatto alla favola del connubio degli angeli con le figlie degli uomini ".
Concordia con le angelologie scolastiche. - Qualche saggista ha tentato di inquadrare gli a. imbelli danteschi in qualche angelologia scolastica.
G. Busnelli - recensione a C. Zanini, Gli angeli nella D.C. in relazione ad alcune fonti sacre, Milano 1908, in " Bull. " n.s. XVII (1910) 95 - si richiamò a s. Tommaso anche per questo. Invece secondo Nardi (op. cit., pp. 344-346, 348) l'angelologia tomistica è la meno conciliabile con la concezione dantesca degli a. imbelli. Gli a., essendo separati da ogni materialità, perpetui e immutabili, dopo il primo istante della loro creazione furono beati o peccatori (Sum. theol. 162 5, 63 6); in loro non ci fu posto per i dubbi, l'accidia e la pusillanimità.
Al contrario vi si presta l'angelologia francescana. Prima di tutto i francescani, tra gli altri Alessandro di Hales (Sum. theol. II II, n. 92 [Quaracchi III 110a]) e Scoto (Oxon. II 5 2, nn. 14-16 e 18 [Vivès XII 327a-329b]), inclinavano a porre un certo spazio di tempo tra la creazione degli a. e il loro peccato. Poi Pietro di Giovanni Olivi (Ouaestiones in 11 1. Sententiarum, 43 [ed. B. Jansen, I, in Bibliotheca franciscana scholastica medii aevi, IV, Quaracchi 1922, 717-718]) ammise negli a. peccatori un processo psicologico dall'amor sui al contemptus Dei. Similmente Duns Scoto (Oxon. 11 5 2,n. 15; 6 2, nn. 3-6 e 17-18 [XII 346a-350b e 364b-365b]) insegnò che i diavoli commisero una serie di peccati sempre più gravi, partendo dall'eccessivo amore di sé e arrivando all'odio verso il Creatore. Il peccato degli a. imbelli potrebbe logicamente concepirsi come uno stadio intermedio di questi processi.
Bibl. - J. Seeber, Ueber die " neutralem Engel " bei lVolfram von Eschenbach und bei D., in " Zeitschrift fiir deutsche Philologie " XXIV (1892) 32-37; E. Krebs, Die unentschiedenen Engel (Inferno III 37-42), in " Deutsches Dante- Jahrbuch " VI (1921) 41-43; F. Mally, Gli angeli neutrali del Limbo dantesco, in " Corvina " v (1925) X 79-81; B. Nardi, Gli angeli che non fur ribelli né fur fedeli a Dio, Alcamo 1959 (rist. in Dal " Convivio " alla " Commedia ", Roma 1960, 331-350); J. Freccero, D. and the neutra/ angels, in " The romanic Review " LI (1960) 3-14; Id., Dante's " per sé " angel: the middle ground in nature and grate, in " Studi d. " XXXIX (1962) 5-38; J. Lovreglio, Les laches et le pope Célestin V dans l'Enfer de D., in " Bull. Société d'Etudes dant. du Cum " IX-X (1961) 60-61.
Lingua degli angeli. - Nel rivendicare al solo uomo la facoltà del linguaggio, D. esclude (Ve I II 2-3, e III 1) che gli a. la possiedano, non avendone bisogno. Cum... angeli ad pandendas gloriosas eorum conceptiones habeant promptissimam atque ineffabilem suficientiam intellectus, qua vel alter alteri totaliter innotescit per se, vel saltim per illud fulgentissimum speculum, in quo cuncti repraesentantur pulcerrimi atque avidissimi speculantur, nullo signo locutionis indiguisse videntur. L'auctor più vicino a questa formulazione sembra Vincenzo di Beauvais (che a sua volta raccoglie concetti e verba della scolastica parigina duecentesca, da Guglielmo di Auxerre ad Alberto Magno e al primo s. Tommaso), in Spec. Hist. (Strasburgo 1475) II 15, dove si distinguono due forme di comunicazione angelica, una naturale, " scilicet cogitacio directa per voluntatem ostendendi alteri ipsum cogitatum vel intentum ", e una " per graciam, scilicet secundum virtutem speculi sive motoris supremi, in qua communicant angeli boni tantum et animae sanctorum. Unicuique enim innotescit intellectus vel voluntas alterius secundum speculi repraesentacionem et ipsius motoris supremi voluntatem "; e così, quasi alla lettera, anche nello Spec. Nat. (Strasburgo 1473) II 39 (tradizionali del resto, e riprese altrove da D., le immagini di Dio-Verbo e degli a. come specula).
La probabile ripresa da Vincenzo di Beauvais è però inserita in un contesto che, soprattutto se si tiene conto del successivo confronto tra linguaggio angelico e umano di Ve I III 1-2, risente fortemente di formulazioni concettuali e verbali tomistiche. A parte la dipendenza dal commento tomistico alla Politica di Aristotele (I I 36) della struttura ragionativa del cap. II, rimandano puntualmente ai vari interventi di s. Tommaso sulla questione del linguaggio angelico, consultati a tappeto e ‛ contaminati ', tutte le nozioni e i termini chiave dei due passi, e soprattutto del secondo, dalla definizione del linguaggio come nichil alius quam nostrae mentis enucleare aliis conceptum al verbo pandere, agli stessi innotescere e speculum, alla definizione dello spirito umano come obtentus [buona la lezione del manoscritto Berlinese, in forza del riscontro tomistico: il Grenoblese e il Trivulziano obtectus] grossitie atque opacitate mortalis corporis, alla formula Oportuit... genus humanum ad comunicandas inter se conceptiones suas aliquod rationale signum et sensuale habere, all'uso dei verbi accipere e deferre per indicare la trasmissione dei concetti da un individuo all'altro (v. Sum. theol. I 107 1c, e ad 1; commento ai Libri Sententiarum II IX 2, 3, 1, e ad 3; Verit. IX 4c, 6, 4 e ad 4, ecc.). Il modo dell'utilizzazione di tali suggerimenti tomistici è estremamente caratteristico della libertà dell'atteggiamento dantesco verso le proprie fonti filosofiche, tipico di un ‛ filosofante ' eclettico e non sistematico: sia per l'uso di formule e verba tomistici (tratti per lo più, come è assai indicativo, dai materiali delle obiezioni che poi l'Aquinate confuta) in funzione di una tesi antitomistica (s. Tommaso riconosce in sostanza un linguaggio angelico), sia per la contaminazione con Vincenzo di Beauvais e per lo stesso lavoro disinvolto di collage sui vari passi tomistici.
Il ragionamento dantesco è poi completato dalla tesi che gli a. caduti non hanno bisogno di linguaggio perché, per manifestarsi reciprocamente la loro perfidia, non hanno bisogno che della mutua conoscenza, acquistata infatti prima della caduta.
Bibl. - C. Guerrieri Crocetti, Studii di critica letteraria, Teramo 1921, 5 ss.; D.A., De vulg. Eloq., a c. di A. Marigo, Firenze 1948, 11-19; P.V. Mengaldo, Preistoria e componenti di una tesi dantesca (De vulgari eloquentia, I II 3; III 1-2), in " Rivista di cult. class. e medievale " VII (1965).