ANGELO (fr. ange; sp. ángel; ted. Engel; ingl. angel)
Nel greco antico ἄγγελος (da ἀγγέλλω "annunzio") aveva il significato generico di "messaggero"; ma poi, per l'uso che ne fecero i traduttori greci della Bibbia per rendere la parola ebraica mal'ākh "messaggero o ministro", acquistò, al pari di questa, anche il senso specificamente religioso di essere sovrumano, intermediario fra il cielo e la terra, fra Dio e gli uomini, di cui Dio si serve per annunziare agli uomini e per fare eseguire sulla terra la sua volontà; e in questo senso più ristretto la parola è passata nel latino e nelle lingue da esso derivate.
A dir vero, anche prima della versione della Bibbia e indipendentemente da essa, il greco ἄγγελος si trova adoperato talvolta in stretto senso religioso, in relazione col mondo infernale, come denominazione di demoni e di divinità ctonie, protettrici dei defunti; il che avviene non solo per Ermete, noto come psicopompo o guida dei defunti, e per Artemide Ecate, nota come dea infernale, ma anche per Zeus, al quale è attribuito il titolo di ἀγαϑὸς ἄγγελος ("angelo buono''), che lo qualifica come dio degli inferi (cfr. Kaibel, Epigr. gr., 511) in opposizione all'epiteto ὔψιστος "altissimo" (iscrizione di Stratonicea), che lo qualifica come dio celeste. Nella pittura famosa della tomba di Vincenzo sacerdote di Sabazio nel cemeterio di Pretestato in Roma, Vibia viene accompagnata da Mercurius nuntius al tribunale di Dispater, e poi da un angelus bonus viene introdotta attraverso una porta nel soggiorno dei beati. Dunque la parola greca probabilmente possedeva già per sé medesima, oltre al profano, anche un significato religioso (così M. Dibelius, Die Geisterwelt, pp. 210-221, dietro il Dieterich, Nekyia, 2ª ed., Lipsia 1913, p. 61, n.1, contro il Rohde, Psyche, 7ª-8ª ed., Tubinga 1921, II, p. 388, n. **) che la rendeva meglio adatta ad essere adoperata dai giudei ellenistici e dai cristiani in un senso specifico più alto, per indicare gli esseri soprannaturali che operano, non più nell'inferno a favore dei defunti, ma nel cielo e sulla terra in servizio di Dio, e come tali vanno distinti anche dagli spiriti o demoni che abitano e vagano alla superficie della terra ovvero per l'aria. Questi più o meno si trovano in tutte le religioni (v. animismo); ma angeli nel vero senso sono proprî soltanto di quelle religioni che pongono la sede delle loro divinità lontana dalla terra, nel cielo, ciò che si verifica specialmente nelle religioni monoteistiche, le quali alla divinità unica e trascendente credono di dover dare una corte di ministri e di ambasciatori celesti.
Nella religione babilonese. - Le prime preformazioni della figura dell'angelo s'incontrano nella religione astrale degli Assiro-Babilonesi. In generale ogni nume, capo di una famiglia o di un gruppo di dei, aveva i suoi araldi, rappresentati o da qualche membro della stessa sua famiglia, per lo più il figlio o la figlia, oppure da speciali categorie di divinità inferiori, i Papsukal, i Gaga, i Gibil, ecc., delle quali poi diventò proprio l'ufficio di messaggero (sukal) delle divinità più alte. Figure alate di questi esseri divini, che discendono dal cielo in terra, si vedono rappresentate in una vasca cultuale di Gudea, governatore (patesi) di Lagash (riprodotta da E. Unger, Untersuchungen zur altorientalischen Kunst, Breslavia 1921), e nella stele di Ur-Namu, trovata a Ur, ora nel museo dell'università di Philadelphia (L. Legrain, The stela of the flying angels, in The Museum Journal, XVIII, pp. 75-98). Inoltre, fino dall'età più remota, come dimostra la corrispondenza epistolare del tempo di Hammurabi, era comune tra i Babilonesi l'idea di divinità protettrici di ogni singolo individuo (il-ameli e iètar-ameli), che si sdegnano col loro protetto ed anche l'abbandonano, se pecca, ma a lui ritornano se si pente, gli perdonano e si fanno anche suoi intercessori presso gli dei superiori. Figure simili, sebbene di grado inferiore, sono i genî protettori, i quali, come sotto la forma di grandi tori alati custodiscono l'ingresso dei templi o dei palazzi reali, così stanno invisibilmente presenti, come demoni buoni (èēdu damqu) o demoni custodi (èēdu nasiru), a lato di quegl'individui a cui qualche nume benefico li ha inviati, per proteggerli soprattutto contro gli assalti e le insidie dei demoni cattivi.
Nel parsismo. - Questa lotta tra gli esseri divini e gli esseri demoniaci, per o contro l'uomo, ebbe un'estensione molto più grande, un'organizzazione più perfetta e un'importanza universale nel parsismo (v.: e cfr. zoroastrismo), nel quale tutto il mondo degli esseri spirituali è diviso in due partiti accentrati intorno ai due capi, fin da principio e per natura tra loro diversi ed opposti. Ormazd (Ahuramazda), il dio buono, lo spirito santo (spanta mainyu), è attorniaio dagli Amesha spənta (v.), santi immortali, e dalle Fravashi, che insieme formano la classe degli esseri divini, simili sotto molti rispetti agli angeli; e dall'altro lato è Ahriman, lo spirito cattivo (angra mainyu), l'antidio, e intorno a lui i daēva o demoni. Gli Amesha spənta, che nel pensiero originario di Zarathustra sono delle personificazioni di qualità o virtù astratte, come il "buon consiglio", la "buona leggen, ecc. in seguito acquistarono una personalità più spiccata, dai contorni più concreti. Le Fravashi assistono gli uomini nella loro lotta coi demoni, ché anzi ogni uomo ne ha una a sua custodia e difesa: a differenza però degli Amesha spenta, le Fravashi hanno forse un'origine terrena, in quanto risalgono probabilmente all'antico culto degli antenati e dei morti, comune agli antichi Irani come ai Greci e ai Romani.
Nell'Ebraismo. - I diversi elementi babilonesi e persiani si trovano uniti e completati nell'idea più perfetta che degli angeli ebbero gli Ebrei. Fin da quando essi credettero in Jahvè dio unico, residente nel più alto dei cieli, gli attribuirono, sull'esempio dei grandi monarchi terreni, una corte di messaggeri e ministri, quale per numero e qualità a lui si conveniva.
Gli angeli perciò sono a migliaia e miriadi, innumerevoli come le stelle del cielo (Deuteronomio, XXXIII, 2; Daniele, VII, 10; Salmo LXVII, 18; Giobbe, XXXIII, 23). E, per la loro natura, da una parte essi sono estranei alla sfera terrestre, alla quale l'uomo appartiene, e invece fan parte della sfera celeste divina, resi partecipi da Dio, perché ne usino in suo onore e servizio, delle stesse sue prerogative, in ispecie della sua gloria, del suo potere e della sua santità, onde portano gli stessi suoi titoli e sono chiamati i santi (Deut., loc. cit.; Salmo LXXXVIII, 6; Giobbe, V,1; XV, 15; Daniele, VIII, 13; Zaccaria, XIV, 5; cfr. nel Nuovo Testamento: Marco, VIII, 38; Atti, X, 22; I Tessalonicesi, III, 13; Apocalisse, XIV, 10), i figli di Dio (Giobbe, I, 6; II, 1; Salmo XXVIII,1, 9, ecc.) e perfino gli dei ('Elohīm: Salmi VIII, 6; LXXXI, XCVI, 9). D'altra parte però, di fronte a Dio, nessun confronto è possibile, la distanza è incommensurabile (Salmo LXVIII, 7, 9; Esodo, XV, 11; I Re [Samuele], II, 2); cosicché da questo punto di vista gli angeli insieme con gli uomini appartengono alla sfera del finito e dell'imperfetto (Giobbe, IV, 18; XV, 15; XXV, 5), essendo l'uomo poco di meno di loro (Salmo VIII, 6), mentr'essi quando sono in terra prendono dell'uomo le sembianze e i costumi (Gen., XVIII, 2, 8, 9, 16, 22; XXXII, 24; Giosuè, V, 13; Dan., III, 23; X, 16; IX, 21; Salmo LXXVIII, 25, ecc.), come lui mangiano e bevono, toccano e camminano, in una parola niente hanno nella loro figura che li distingua dall'uomo, nemmeno le ali (con le quali una volta erano raffiggurati dai Babilonesi e ora dal cristianesimo), eccetto in Dan., X (cfr. Enoch slavo, I, 43).
Evidentemente però la persona degli angeli è spirituale, giacché, diversamente da quella degli uomini, essa può in un attimo superare le distanze, improvvisamente comparire e sparire. Di più per sé medesima è di natura luminosa (Dan., X, 6; cfr. II Corinzî, XI, 14; Atti, XII, 7; XXVI, 13), della natura cioè della gloria di Dio (cfr. Luca, II, 9), al pari delle stelle (cfr. I Cor., XV, 40); le quali, secondo alcuni testi (Giudici, V, 20; Giobbe, XXXVIII, 7; Isaia, XIV, 12, seg.; XXIV, 21; XL, 26), sarebbero appunto figure di angeli, che, mentre dal cielo attendono alle loro mansioni e percorrono le loro vie, ci appaiono nel nativo splendore.
Varî sono gli uffici degli angeli, e il primo è quello di lodare il Signore. Il cielo è avanti tutto il tempio di Jahvè, di cui quello terreno non è che una pallida immagine. Come pertanto quaggiù i sacerdoti insieme con le schiere devote d'Israele, così lassù i cori degli angeli in santi paramenti (Salmi XXVIII, 2, ebr.; XCV, 7-9 id.) si prostrano innanzi a Dio per adorarlo, e cantano in un immenso concerto le sue lodi (Salmi XXVIII, 1, 5; CII, 20 seg; CXLVIII, 2; Isaia, VI, 3). A una di queste liturgie celesti assisté Isaia, quando ricevette la sua consacrazione a profeta (Isaia, VI).
In secondo luogo, giusta il significato del loro nome, gli angeli sono i ministri di Jahvè e l'assistono nel governo del mondo. Nel cielo egli ha la sua reggia e in mezzo ad essa il suo trono, intorno al quale a destra e a sinistra gli fanno corona schiere di ministri pronti ai suoi cenni (II Re [Samuele], XXII, 19). Nei tempi stabiliti, qui egli tiene la generale adunanza o consiglio dei suoi santi (Giobbe, I, 6; II, 1; Salmi LXXXVIII, 6, 8; LXXXI, 1), per ascoltare le loro relazioni e proposte, e per impartir loro i suoi ordini (Gen., I, 26; III, 22; XI, 6,7; Isaia, VI, 8; Zac., III, 1-10; Giobbe, loc. cit.). Giacobbe vide in sogno a Bethel la porta del cielo, cioè la scala che mette in comunicazione il cielo con la terra (Gen., XXVIII, 12), per la quale gli angeli scendono in terra ad eseguire i loro uffici, e risalgono in cielo dopo che li hanno adempiti. Insieme con gli angeli talora anche Jahvè discende personalmente dal cielo in terra (Gen., XI, 5 ecc.); anzi in alcune antiche storie non si distingue sufficientemente tra Jahvè e il suo angelo (Gen., XVI, 7-13; Giudici, VI, 11-24; XIII, 2-23 ecc.), per il che molti critici moderni sono indotti a credere che nei tempi più antichi l'angelo di Jahvè non fosse altro che Jahvè stesso, in quanto apparisce in maniera sensibile agli uomini.
Le mansioni che gli angeli vengono a compiere in terra sono: annu ziare i voleri e le promesse di Dio, o interpretare le sue visioni (Dan., VIII, 16; Zac., I-III) e i suoi disegni nel governo del mondo; perlustrare la terra e informarsi della condotta, soprattutto morale e religiosa, degli uomini (Gen., XVIII, 20-22; Giobbe, I, 7 seg.; Zac., I, 10 seg.); metterli alla prova e accusarli al tribunale divino se colpevoli o sospetti di colpa (Giobbe, I, 9-11; Zac., III, 1); assistere i buoni e i devoti di Jahvè e castigare invece gli empî e i suoi nemici. È chiaro che nel disbrigo di queste missioni, se gli angeli rimangono, come ministri, fedeli verso Dio, non sempre sono, almeno quanto agli effetti immediati, benefici verso l'uomo; e per questo talora sentiamo parlare di uno spirito di Dio maligno (I Re [Sam.], XVI, 14), o di angeli del male (Salmo XXVII, 49). Tali sono: l'angelo accusatore e tentatore (Satan: v. Giobbe, I, II seg.; II, 5 seg.; Zac., III, 1; ovvero di Satan: II Cor., XII, 7); l'angelo distruttore (Es., XII, 23; cfr. I Cor., X, 10), l'angelo della peste (Isaia, XXXVII, 36; IV [II] Re, XIX, 19, 35 cfr. 29); lo spirito dell'inganno (III [I] Re, XXII, 21, segg.; Ecclesiastico, XXXIX). Per di più non tutti gli angeli disimpegnano fedelmente i loro uffici, p. es. quelli che Dio ha dati come protettori e governatori alle s. ngole nazioni (Deut., XXXII, 8 greco; IV, 19; XXIX, 25, Eccl., XVII, 14; Dan., XIII, 20 seg.), i quali invece, usurpando la dignità divina, si sono costituiti numi delle genti e le hanno condotte alla violazione della morale e del diritto; e perciò dovranno renderne stretto conto al tribunale di Dio nell'assemblea generale dei cieli (Salmi LXXXI, 2; LVII); e saranno severamente puniti insieme c0i loro adoratori e coi re loro rappresentanti sulla terra (Salmo XLVI, 7; Isaia, XXIV, 21 seg.).
In terzo luogo, gli angeli formano l'esercito celeste di Jahvè, che è il "dio delle battaglie", e appunto come tale porta il titolo sacrosanto di Jahvè Sabaoth (Salmo XXIII, 8, 10; Ger., XIII, 4): il suo esercito è composto di forze aeree, quali i venti, le tempeste, i tuoni e i fulmini; di forze terrestri, che sono le schiere d'Israele (I Re [Sam.], XV, 2; XVII, 45; II Re [Sam.], V, 10); e infine delle forze celesti che sono le schiere degli angeli, le quali hanno a capo un comandante generale (Giosuè, V, 14), e sono da credere la stessa cosa delle schiere del cielo, cioè delle stelle (Giudici, V, 20; Isaia, XXIV, 20).
Questa concezione degli angeli, nella sua organica unità, rimase sostanzialmente uguale, come le citazioni dimostrano, tanto nel vecchio quanto nel nuovo Israele; onde non sembra esatto affermare, come fanno molti critici moderni, che essa abbia avuto origine, successivamente al profetismo, nel giudaismo postesilico. Naturalmente, per ragione della sua indole popolare, essa ricorre più spesso tanto nelle antiche storie quanto nella tarda letteratura apocalittica; s'incontra invece più di raro negli scritti dei profeti e nei libri di legge o di morale. E vero altresì che, dopo il periodo della cattività, l'angelologia raggiunse un più ampio sviluppo e insieme una più netta e distinta formulazione.
Nel giudiamo posteriore. - Anzitutto essa ricevette una larga e complessa classificazione: sia con l'annettersi alcune classi di esseri sovrumani, che prima, sebbene conosciuti, non erano compresi sotto il nome di angeli, come i Cherubini e i Serafini, sia col dar luogo a classi nuove, che con le antiche avevano soltanto qualche affinità ed analogia. Come prima si ammetteva che alle singole nazioni fossero preposti degli angeli, che nel gentilesimo apparivano quali numi nazionali, così di poi si credette che alle diverse parti della natura, ai pianeti e al loro corso, ai venti e alle tempeste, al mare e ai fiumi, ai vulcani e ai monti ecc., presiedessero degli angeli, conosciuti dai gentili come numi naturali o elementa (στοιχεῖα), e da S. Paolo tanto come elementi quanto come governatori di questo mondo (Galati, IV, 3, 9; I Cor., II, 6, 8); nel numero dei quali probabilmente sono da porre i cori angelici che furono designati coi nomi di troni, potestà e virtù (cioè "forze" δυνάμαις). Inoltre agli angeli protettori e custodi delle singole nazioni si aggiunsero gli angeli protettori e custodi dei singoli individui (Matteo, XVIII, 10; Atti, II, 15). Ma soprattutto si concepirono le diverse classi degli angeli come ordinate gerarchicamente, onde dai semplici angeli si distinsero i loro capi, cioè gli arcangeli, che nel numero sacro, ora di quattro ora di sette (cfr. le sette divinità planetarie presso i Babilonesi, e i sette Amesha spenta presso i Persiani), stanno più vicini a Dio (Tobia, XII, 15; cfr. Apoc., IV, 5), e portano anche nomi proprî personali, dei quali nei libri canonici sono ricordati soltanto Michele (Dan., X, 13, 21; Giuda, 9; Apoc., XII, 7), Gabriele (Daniele, VIII, 16; IX, 21; Luca, I, 19 ecc.) e Raffaele (Tobia, XII, 15) e nei libri extracanonici (v. apocrifi). oltre ai suddetti, anche Phanuel, Oriel, Raguel, Saraquel, Jeremiel, ecc. (v. specialmente la lunga lista in Enoch, VI, 7); tutti questi nomi sono composti di El "Dio", a designare lo stretto rapporto che intercede tra gli angeli e Dio.
Ma ciò che maggiormente distingue l'angelologia postesilica è l'idea dualistica che la pervade, e che comunemente si crede derivi dal parsismo: da una parte il regno di Dio coi suoi angeli buoni e dall'altra il regno contrario di. Satana coi suoi angeli cattivi, come, presso i Persiani, Ormazd con gli spiriti buoni contro Ahriman e i demoni. Questo riavvicinamento, però, tra le due concezioni, giudaica e persiana, è più formale che sostanziale. In sostanza gli angeli di Satana non sono esseri originariamente indipendenti da Dio e a lui contrarî, come Ahriman e i daēva, ma esseri che, avendo avuto origine da Dio, poi si sono volontariamente ribellati a lui, e tuttavia, loro malgrado, servono di strumento ai suoi voleri. Ora questa idea si può benissimo ricongiungere direttamente con l'antica concezione degli angeli sopra descritta, mediante un'altra concezione, quella del regno di Dio, che, come ha dimostrato il Mowinkel (Psalmenstudien, II, Oslo 1921), era propria dell'antico Israele anche prima ch'esso venisse a contatto coi Persiani e con la loro escatologia; un regno di Dio universale, la cui venuta era intensamente desiderata e creduta imminente nella grande festa del primo di ogni anno, incessantemente però ostacolata dall'opposizione delle genti per istigazione e opera dei loro numi, cioè degli angeli preposti al loro governo, i quali, invece di curare l'onore e il dominio universale di Dio, dominavano ed agivano per il proprio onore e per i propri interessi. Così la speranza del regno di Dio per molti e molti anni andò delusa, finché, per la conquista di Gerusalemme fatta dai Babilonesi e per la dominazione sopra i Giudei degli altri imperi, succeduti a Babilonia, parve fallire completamente. Da ciò sorse l'idea di un regno insieme delle genti e dei demonî loro capi, opposto a quello di Dio; e alla testa dei demonî si pose l'angelo di Babilonia, che Isaia (XIV, 12 segg.) descrive prima sfolgorante nel cielo e poi caduto giù in fondo all'abisso, onde tra i cristiani è venuto il nome di Lucifero per designare Satana. Così si spiegherebbe storicamente la caduta degli angeli e la loro costituzione in un regno indipendente e rivoluzionario, capitanato da Satana; la quale solo posteriormente, presso gli Ebrei, si sarebbe trasformata nel tema, racconto ecc. della corruzione degli angeli attirati sulla terra, secondo il racconto della Genesi (VI, 2), dalla bellezza delle donne (cfr. Enoch), e, presso i Padri della chiesa, nella dottrina teologica della ribellione degli angeli a Dio, o per la gelosia dei doni da lui concessi all'uomo (Tertulliano, S. Ireneo e S. Cipriano) o per l'orgoglio di credersi a lui uguali (Origene). E, una volta formata l'idea del regno dei demonî, essa si sarebbe anche maggiormente affinata e ingrandita al contatto con le idee persiane: agli angeli protettori e governatori delle nazioni si sarebbero aggiunti non solo gli angeli degli elementi, rettori di questo mondo, ma anche gli angeli ministri dell'ira e della vendetta di Dio (cfr. I Cronache, XXI, 1, con II Re [Samuele], XXIV, 1) che fanno per malignità e per odio verso gli uomini quello che Dio nella sua sapienza ha preordinato per il bene e la giustizia. Comunque sia, la prospettiva del pieno regno di Dio si allontanò sempre più in un'epoca futura indeterminata, oggetto dei sogni apocalittici, mentre al secolo attuale rimase l'incubo opprimente di sapersi alla mercé del regno di Satana e dei suoi angeli malvagi, a cui l'uomo cercava di sfuggire rifugiandosi sotto la protezione degli angeli santi, la fede nei quali veniva ad essere, così, grandemente accresciuta.
Nel cristianesimo. - Questa fu la prospettiva in mezzo alla quale nacque il cristianesimo. Il Vangelo fu appunto l'annunzio del prossimo regno di Dio, da fondarsi sulla rovina del regno dei demonî (Matteo, XII, 28; cfr. Luca, X, 18); il regno di Dio, che è l'impero effettivo della sua volontà, alla quale si sono ribellati i demonî ma sono rimasti fedeli gli angeli in cielo, ora, per avere la sua piena attuazione, dovrà assoggettare a sé anche la volontà degli uomini in terra (Matt., VI, 10), sicché la terra si ricongiunga al cielo e gli uomini agli angeli (Matt., XXII, 22, 30). S. Paolo celebra la libertà, che Cristo ci ha acquistata, dal timore e dalla servitù verso gli spiriti degli elementi o i rettori di questo mondo (Romani, VIII, 8, 15; Gal., IV, 9); per combattere i quali egli è disceso in terra e da loro è stato ucciso (I Cor., II, 8), ma, risuscitando, su loro ha trionfato, ed ora siede in cielo adorato indistintamente dagli angeli tutti (Filippesi, II, 10), avendo riportato la pace universale tra gli esseri che sono sia in cielo, sia in terra (Colossesi, I, 15, 20). Questa rappresentazione drammatica della salute cristiana ha la sua spiegazione e ragione nel mondo ideale, in cui vivevano i giudei, e quindi anche, dietro il loro influsso, i primi cristiani; man mano però che il cristianesimo si svincolò dai primitivi legami col giudaismo, l'idea degli angeli si affievolì e la loro figura così complessa si semplificò. I santi del cristianesimo non sono più i soli angeli, ma anche le anime di coloro che sono morti nella grazia di Dio, e tanto gli uni quanto gli altri, mentre in cielo si beano della visione di Dio, si fanno presso di lui intercessori a favore degli uomini che ancora peregrinano su questa terra.
Tuttavia, la posizione intermedia, tra Dio e l'uomo, che gli angeli hanno già nella Scrittura, ha aperto l'adito a molte discussioni circa la natura, il carattere, le funzioni degli angeli, specie nel periodo più antico dello sviluppo teologico del cristianesimo. La dottrina origeniana che, dovendo la potenza e la bontà di Dio essersi manifestate sempre, gli angeli fossero stati creati prima del mondo, incontrò scarsa opposizione, fino al sec. IV, quando fu combattuta da S. Epifanio e poi da Teodoro di Mopsuestia; S. Agostino finì col ritenere che fossero stati creati insieme con il cielo e la terra (De civit. Dei, XI, 33). L'influenza del libro di Enoch e del racconto della caduta degli angeli, fu grandissima e contribuì a fare che si discutesse il problema - angoscioso per pensatori che, più o meno, si movevano nell'orbita ideale del platonismo - della natura degli angeli. I Padri orientali credettero comunemente alla corporeità degli angeli, pur insistendo sulla loro differenza dagli uomini, e guardandosi dal farli uguali a Dio; gli occidentali, forse sentendo più vivamente questo pericolo, insistettero sopra una loro corporeità sui generis (specialmente Tertulliano, la cui affermazione nihil est incorporeum nisi quod non est, in De carne Chr., XI, rivela tutto un modo di pensare). Sotto l'influenza anche di speculazioni neoplatoniche, lo pseudo-Dionigi areopagita nel libro De caelesti hierarchia distinse i tre ordini, suddivisi ciascuno in tre cori (in ordine discendente, da Dio all'uomo) dei Serafini, Cherubini, Troni, Dominazioni, Virtù, Potenze, Principati, Arcangeli, Angeli; la sua influenza sul pensiero medievale fu grandissima, soprattutto nella Chiesa orientale; ma dominò anche l'Occidente.
Ma nella teologia medievale il problema degli angeli fu associato, e complicato, con quello della grazia, del libero arbitrio e della predestinazione. Gli angeli, creati buoni, poterono esercitare il libero arbitrio: di modo che alcuni furono giustamente puniti (e, privi della grazia, perseverarono irrimediabilmente nel male); altri invece, superata la prova, hanno conseguito la beatitudine (v. specialmente S. Anselmo, De casu diaboli). Ma si discusse se questi angeli buoni avessero conservato o no l'esercizio del loro libero arbitrio.
Con l'introduzione dell'aristotelismo, la questione si complicò ancor più, e assunse una portata più generale e più filosofica. Le "intelligenze separate" di Averroè (che ammetteva l'unità dell'intelletto agente) furono identificate agli angeli. Per S. Tommaso (v. Summa Theol., I, q. 111 segg.; l segg.), gli angeli, la cui intelligenza ha per oggetto specifico ciò che è immateriale, non hanno bisogno dell'intelletto agente e conoscono per mezzo di specie intelligibili non derivate dalle cose stesse, ma congenite alla loro natura. La conoscenza naturale che hanno di Dio non è per essenza, ma per l'immagine che di lui portano in sé medesimi, quindi non conoscono direttamente come lui le cose future, i pensieri e i sentimenti occulti degli altri e, molto meno, i misteri della grazia divina. Sono incorporei, immateriali ("forme sussistenti", ciascuno una forma diversa dall'altro) e incorruttibili. Vi è dunque una separazione netta tra la natura umana e l'angelica. Duns Scoto, invece, abbassò alquanto la posizione attribuita agli angeli.
Il concilio vaticano (1870) rinnovò, nella costituzione Dei Filius, il decreto Firmiter del IV concilio lateranense (1215) diretto, in origine contro gli albigesi, completandolo in alcuni punti: di modo che è ora di fede, per i cattolici, che gli angeli sono stati creati da Dio, come esseri spirituali, dal nulla, e al principio del tempo, con gli esseri corporei, prima dell'uomo. Quanto agli angeli custodi, si ammette generalmente che ve ne sia uno per ogni uomo; la devozione della Chiesa agli angeli si manifesta nella liturgia con la festa loro dedicata (2 ottobre). Che esistano gerarchie di angeli è di fede secondo alcuni teologi (Suarez), ma la classificazione dello pseudo Dionigi, benché ammessa per lungo tempo, e generalmente, non ha tuttavia avuto l'accettazione generale.
Nell'islamismo. - Dal giudaismo la fede negli angeli passò anche all'islamismo, il quale dopo l'esistenza di Dio pone come fondamentale la credenza in quella degli angeli, superiori agli uomini ma infinitamente inferiori a Dio, dal quale sono stati creati. Varie sono le loro classi e soprattutto sono da distinguere gli arcangeli, in numero non di sette ma di quattro, con a capo non Michele ma Gabriele; questi, come nel giudaismo è l'interprete delle visioni divine e nel cristianesimo il nunzio del mistero dell'Incarnazione così nell'islamismo porta a Maometto la rivelazione di Dio.
Bibl.: H. Zimmern, in Schrader, Die Keilinschriften und das Alte Testament, 3ª ed., Berlino 1903; Kohut, Über die jüdische Angelologie und Dämonologie in ihrer Abhängigkeit vom Parsismus, 1886; W. Bousset e H. Gressman, Die Religion des Judentums in neutest. Zeitalter, 3ª ed., Tubinga 1926; G. F. Moore, Judaism in the first centuries of the christian Era, Cambridge (Mass.) 1926; A. Bertholet, Biblische Theologie des Alten Testaments: II, Die jüdische Religion von der Zeit Esras bis zum Zeitalter Christi, Tubinga 1911; Eberling, Die paulinische Angelologie und Dämonologie, Gottinga 1888; M. Dibelius, Die Geisterwelt im Glauben des Paulus, Gottinga 1909; H. Leclercq, art. Anges, in Dictionnaire d'Archéol. chrét., Parigi 1907, I, ii, art. Anges, in Dict. de Théologie catholique, Parigi 1923, I, i; M. Schwab, Dictionnaire de l'angelologie, Parigi 1807; Turmel, Histoire de l'angélologie, in Revue d'histoire et de littérature religieuses, III (1898); IV (1899); Jung, Fallen Angels in Jewish, Christian and Mohammedan Literature, in Jewish Quarterly Review, XV (1924-25), p. 467 segg.; XVI (1925-26), pp. 45, 171, 286 (e a parte, Philadelphia 1927).
Iconografia. - Nell'arte delle catacomo e gli angeli appaiono rarissime volte, e tardi, in aspetto giovanile, con tunica e pallio, privi di nimbo, di ali e di attributi. A questo tipo, che si mantenne a lungo, e riappare poi in alcuni avorî carolingi, si aggiunse, circa il sec. V, l'altro degli angeli con nimbo ed ali, derivato probabilmente dal tipo classico delle Vittorie. Nei mosaici della navata di S. Maria Maggiore in Roma ritroviamo i nimbi, e in quelli dell'arco trionfale nella stessa chiesa le ali. L'arte orientale, già nei musaici ravennati del sec. VI, diede loro bianche vesti, capelli lunghi e ricci legati da una benda, e, per attributo, una verga, mentre gli arcangeli ebbero le sfarzose vesti della corte. Nel S. Vitale di Ravenna e in numerosi avorî, angeli in volo sostengono clipei, oppure, come a Roma, in S. Prassede (sec. IX), derivando da uno schema d'origine egizia che rappresentava il cielo, sorgono sulla volta sostenendo un clipeo centrale. Nel sec. VI si venne formando anche la tipologia delle gerarchie angeliche secondo lo schema fornito dallo pseudo Dionigi areopagita (v. sopra). Nelle colonne anteriori del ciborio di S. Marco a Venezia, di origine forse siriaca e risalenti al sec. VI, si vede il Cristo venerato da angeli ricurvi e con le mani velate dal pallio, e fra tetramorfi figurati con quattro ali, su ruote. La figurazione dei tetramorfi, certamente allusiva all'unità dèi quattro Vangeli, ritorna con frequenza nell'arte medievale e viene descritta nel Manuale della pittura del Monte Athos, insieme col primo ordine delle gerarchie angeliche. Nella stauroteca di Limburgo un tetramorfo è inscritto ΑΡΧΑΙ (Dominazioni), nel Cosma Indicopleuste della Vaticana ΧΕΡΩΒΙΜ, nei mosaici di Monreale ΣΕΡΑΦΙΜ: nell'evangeliario siriaco del monaco Rabbūlā (Firenze, Bibl. Laur., Pl. I, 56) sostiene la mandorla del Cristo dell'Ascensione. I Troni si ritrovano ai piedi del Cristo nella dalmatica del tesoro di S. Pietro a Roma (secolo XIV), le Dominazioni, le Virtù, le Potenze e i Principati, somiglianti in tutto ad arcangeli, rivestiti di fastosi abiti bizantini, e sostenenti un globo crociato e un labaro inscritto con acclamazione del Santissimo, nei musaici del sec. VIII o IX nella chiesa della Dormizione a Nicea. Difficilmente sono rappresentati tutti e nove gli ordini delle gerarchie angeliche; in un affresco di S. Maria Antiqua di Roma (Arco trionfale; età di Giovanni VII 705-707) ai lati del Cristo crocifisso sono due folte schiere di angeli adoranti e cherubini su ruote alate.
Una parte preponderante ebbero gli angeli anche nelle decorazioni di un gruppo di chiese a cupola che presero a prototipo la Chiesa Nuova di Costantinopoli, fondata da Basilio I (867-886). Sono queste, in Italia, la Cappella Palatina e la "Martorana" di Palermo, il Duomo di Monreale, dove intorno al Cristo che appare nel clipeo centrale sono in adorazione angeli e arcangeli; il Battistero di Firenze e una cupola di S. Marco di Venezia, con tutte le gerarchie. Gli arcangeli non ebbero durante il Medioevo attributi che li distinguano l'uno dall'altro; Michele solo veste armatura, egli ha inoltre gli attributi di guardia del Paradiso e di conduttore delle anime; incerto è invece se gli si debba riferire l'ufficio di pesare le anime, che nelle figurazioni del Giudizio finale è nettamente distinto da lui, e nei musaici di Venezia è riferito alle Dominazioni. La sua lotta col drago è scena amata dall'arte carolingia e ottoniana e torna nella porta di bronzo del Santuario di S. Michele a Monte Gargano, eseguita a Costantinopoli nel 1076. Dal sec. XIII in poi - e sempre più nel Rinascimento - gli angeli assumono varietà di aspetti e di attributi sempre maggiore. Il Torriti (Roma, S. Maria Maggiore) negli angeli volanti intorno all'aureola dell'Incoronazione della Madonna, e Duccio, Cimabue, Giotto, Simone, nelle loro maestà, dànno nuovo valore al corteggio celeste, già composto dall'arte medievale (Roma, S. Maria in Domnica, sec. IX).
Gli angeli, che l'arte medievale aveva introdotti raramente se non erano richiamati dai testi sacri (p. es.: nell'Adorazione dei Magi; nella Fuga in Egitto; nella Crocifissione), dal Trecento in qua intervennero sempre più nelle sacre rappresentazioni, mentre l'iconografia tradizionale si modificava in tanti aspetti cedendo sempre più all'immaginativa individuale degli artisti. Formarono il coro delle scene sacre quasi a esprimerne i variati sentimenti, come vede, per indicare almeno un soggetto in tema così vasto, chi scorra le rappresentazioni della Natività, da Giotto a Bernardo Daddi e ai Senesi, dai Fiamminghi ai pittori fiorentini del Quattrocento fino a Benozzo Gozzoli e al Botticelli, dalla Notte del Correggio alla pittura del Seicento. Liberati dagli atteggiamenti ieratici e dal formalismo delle gerarchie, si avvicinarono nuovamente all'umanità, e parvero idealizzarne gli affetti: spargono rose sul Bambino nelle Natività (F. Botticini, Tondo della Galleria di Pitti), si commuovono fino al pianto riguardando i segni della Passione (S. Botticelli, Madonna di S. Barnaba agli Uffizî; G. L. Bernini, in Sant'Andrea delle Fratte), si perdono nella contemplazione mistica (P. Perugino, Assunzione, negli Uffizî) o nell'onda dei suoni (Giotto e scolari, Incoronazione della Madonna, in S. Croce a Firenze; Melozzo da Forlì, negli affreschi della chiesa dei Ss. Apostoli in Roma). Gli artisti del Rinascimento, quasi indifferenti alle tradizioni iconografiche, esaltarono ed espressero negli angeli una sovrumana forza e libertà di movimento, sciolta dal peso terreno, come appare al massimo grado negli angioli apteri del Giudizio di Michelangiolo, e in quelli del Correggio nella cupola del Duomo di Parma; e l'arte dei secoli XVII e XVIII non ebbe che a sviluppare quei concetti volgendoli sempre più alla decorazione.
A parte le innumerevoli altre rappresentazioni, grande fortuna ebbero, specialmente nella scultura italiana, le figure isolate di angeli intenti a sostenere candelabri presso l'altare ai lati di un'immagine sacra (Giovanni Pisano, nell'Arena di Padova; Niccolò dell'Arca e Michelangiolo, in S. Domenico di Bologna; Luca della Robbia, nel Duomo di Firenze, ecc.) o ad adorare il Sacramento (Benedetto da Maiano, nel S. Domenico di Siena); ma il concetto delle loro figure simmetriche e subordinate alla decorazione non limitò la libertà degli artisti, che nell'aspetto e nel sentimento degli angeli ceroferarî e adoranti impressero tutta la varietà del proprio temperamento. Dinanzi alla quale lo studio delle tradizioni iconografiche è d'importanza molto ristretta. Giova soltanto accennare che col Rinascimento apparve, per influsso dell'antichità che tutto animava di genietti e di amori, il tipo iconografico degli angeli in figura di putti. Comunissimo nella scultura e nella pittura del sec. XV, esso ebbe poi un costante e crescente favore fino a noi, adatto facilmente a ogni necessità di decorazione (v. tavv. LXV-LXVIII).
Bibl.: Didron, Annales Arch., XI, XII, XVIII; Stuhlfauth, Die Engel in der altchristlischen Kunst, Friburgo in B. 1897; W. Neuss, Das Buch Ezechiels, ecc., Münster in W. 1912; H. Mendelssohn, Die Engel in der bildenden Kunst, Berlino 1916; K. Küstle, Ikonogr. der christl. Kunst, Friburgo in B. 1928.