Angelo
di Marco Bussagli
Figura tipica delle c.d. religioni del Libro che ha per fine quello di connettere il Creatore e la sua opera, la divinità e l'uomo. Il termine gr. ἄγγελοϚ, adottato dalla versione biblica dei Settanta, traduce quasi perfettamente l'ebraico mal'akh, il cui significato è quello di 'messo, inviato, messaggero'.
Secondo la tradizione rabbinica, i nomi degli a. sarebbero nati dal contatto forzato con la civiltà babilonese (Frey, 1911) e, infatti, soltanto nei libri veterotestamentari elaborati dopo il periodo della deportazione ebraica a Babilonia (587-538 a.C.) compaiono i nomi di Gabriele (Dn. 8, 16; 9, 21), Michele (Dn. 10, 13 e 21; 12, 1 ss.), Raffaele (Tb. 3, 25). Questo, però, non significa che la credenza negli a. sia il frutto del rapporto con la cultura assiro-babilonese. Non per nulla l'appellativo di 'figlio di Dio' (bene ha-elohim), riferito agli a., compare nei testi biblici più antichi (Gn. 6, 2-4; Gb. 1, 6; 2, 1); in particolare, il porre in relazione i 'figli di Dio' con le 'stelle del mattino' - come accade in un altro passo di Gb. (38, 7) - ha un precedente in un testo del sec. 14° a.C. ritrovato negli scavi della città siriaca di Ugarit. Secondo Gaster (1962) questo rispecchierebbe la tendenza mesopotamica, ancora più antica, di connettere le divinità con i corpi celesti. La definizione di 'figli di Dio' indicherebbe, infine, divinità cananee vinte da Jahweh e perciò decadute (Giannoni, 1970). Da quanto detto emerge che il mondo degli a. biblici "ha una origine prebiblica, ma nella Bibbia stessa il concetto si è purificato da mescolanze politeistiche e da sottintesi" (Quinlan, 1972). È infatti indubbio che alla formazione del concetto di a. abbiano concorso apporti assiro-babilonesi, egizi e quello persiano-mazdaico con il 'sistema' dei 'Venerabili' (Yazata) e degli 'Immortali benèfici' (Amesha Spenta) il cui rapporto reciproco sembra riconducibile a quello degli a. con gli arcangeli (Dumézil, 1945; Bausani, 1959). Né è da sottovalutare il contributo classico (greco-romano), quello del giudaismo (l'ebraismo posteriore), della gnosi e del neoplatonismo (Giannoni, 1970), grazie al quale il concetto di δύναμιϚ passò dalla metafisica di Proclo alla concezione angelologica dello pseudo-Dionigi Areopagita (Corsini, 1962). Tuttavia, anche se le relazioni fra la cultura ebraica e le altre civiltà appena ricordate hanno concorso alla definizione del concetto di a., questo non vuol dire che le divinità omologhe degli a. possano essere considerate tali. In altri termini, le figure angeliche appartengono, con la loro molteplicità di ruoli, esclusivamente alle c.d. religioni del Libro: l'ebraica, la cristiana, l'islamica.
Naturalmente la soluzione iconografica adottata per raffigurare gli a. non poté non risentire delle speculazioni che l'avevano preceduta. Anzi, il travagliato iter iconografico attraversato dall'immagine angelica per giungere a un risultato definitivo dimostra la stretta dipendenza delle figure stesse dal pensiero che le ha prodotte. In particolare, si possono individuare tre aspetti dell'iconografia su cui è necessario soffermarsi: quello relativo all'a. rappresentato come essere umano adulto, quello che lo presenta come puttino e quello relativo alla raffigurazione dei serafini e dei cherubini. Questi ultimi sono i due ordini più alti del primo coro della gerarchia angelica; si tratta di una costante per tutte le ipotesi di successione gerarchica, da quella di Gregorio Magno (Homilia in Evangelia, XXIV, 7; PL, LXXVI, coll. 1249-1250) a quella di Tommaso d'Aquino (Summa theol., q. 108, a. 2) e a tutte le altre, per le quali si rimanda a Vacant (1902).
Per quanto riguarda l'origine iconografica dei cherubini, si deve rilevare che la tradizione testuale non è unitaria, giacché se il testo privilegiato dalla consuetudine figurativa più tarda è quello di Ez. (1, 4-25; 10, 1-22), tuttavia alcuni altri passi veterotestamentari, tutti storicamente precedenti a quelli del profeta (Rolla, 1969), presentano un'immagine dei cherubini assai diversa (Gn. 3, 24; Es. 25, 18-20; 37, 8-9; 2 Sam. 22, 11; Sal. 18 [19], 11).
Quel che si ricava dai luoghi biblici appena citati, e in particolare dai passi di Samuele, è che gli esseri qui descritti hanno un aspetto animalesco, tanto che Jahweh 'siede' su di loro (mentre Ezechiele, fra l'altro, riferisce del trono di Jahweh sospeso sulle teste dei cherubini: Ez. 1, 26) o, addirittura, li cavalca (Sal. 18 [17], 11) dando vita, oltre tutto, al gioco di parole tra l'ebraico rakab 'cavalcare', e il termine 'kerub', cherubino (Ravasi, 1986). L'ipotesi che ne scaturisce è che i cherubini della più antica tradizione biblica siano quelle sfingi alate dei ritrovamenti archeologici di Biblos databili fra il 1200 e l'800 a.C. (Albright, 1938) che De Vaux (1960-1961) ritiene derivate dal motivo dei grifoni a guardia dell'albero della vita, motivo frequente sui sigilli siriaci e mitannici del 2° millennio avanti Cristo. Questa iconografia non ebbe però alcun seguito e a essa, nella cultura figurativa biblico-cristiana, si sostituì senz'altro la descrizione di Ezechiele secondo la quale questi esseri posseggono quattro ali (e non due) cosparse di occhi, quattro teste (il tetramorfo) e avanzano, in stazione eretta, sopra ruote cosparse d'occhi (Ophanim). Lo dimostrano con particolare evidenza le miniature degli ottateuchi (Roma, BAV, gr. 746, c. 325v; gr. 747, c. 158v) che rappresentano il tabernacolo; ai suoi lati, infatti, compaiono due cherubini che rispecchiano la visione di Ezechiele, mentre è agevole rilevare che l'immagine non tiene conto della descrizione biblica, attestata dai relativi passi dell'Esodo. La discrepanza fra il testo biblico e la consuetudine iconografica egemonizzata dalla visione del profeta favorì, talvolta, la nascita di immagini anomale quali quelle che compaiono nel mosaico absidale della chiesa di Germigny-des-Prés volute da Teodulfo, come recita l'iscrizione metrica nell'abside, ai primi del 9° secolo. Qui i cherubini sono raffigurati come a., ma la scelta iconografica non è affatto arbitraria in quanto, paradossalmente, l'immagine dell'a. corrisponde alla descrizione dell'Esodo da cui si evince che i cherubini hanno due ali e una sola testa per uno. La particolare iconografia dei cherubini di Germigny-des-Prés trova un precedente negli Evangeli detti di Gundohino, databili al 754 (Autun, Bibl. Mun., 3, c. 12v), dove il Cristo in maestà è fiancheggiato da due a. che soltanto la scritta "Cyrubin" qualifica come tali. È da notare che la posizione delle ali degli a. suggerisce l'identificazione di Cristo con l'Arca dell'Alleanza, secondo 1 Re 7, 8. A questo passo, del resto, dovette riferirsi anche Teodulfo quando ideò i citati cherubini di Germigny-des-Prés, sebbene tenesse certamente conto di 1 Re 6, 27. L'iconografia dei cherubini in forma di a. si perpetuò saltuariamente - come, per es., nel Commento all'Apocalisse di Beato di Liebana (New York, Pierp. Morgan Lib., M. 644, c. 112) - fino al sec. 14°, sicché la si ritrova nella Vie et miracles de St. Denis, del 1317 (Parigi, BN, fr. 2090, c. 107v).Di norma, però, l'immagine dei cherubini è fedele alla descrizione di Ezechiele, come nell'Ascensione del codice di Rabula (Firenze, Laur., Plut. 1. 56, c. 13v) ove compare il tetramorfo. Tuttavia, va subito precisato che l'iconografia dei cherubini non di rado si contamina con quella dei serafini, caratterizzati da sei ali - non cosparse d'occhi - e da una testa (Is. 6, 1-4). Basta ricordare il Codex Virgilianus (c. 16v) nel San Lorenzo del Escorial (972) o il Reliquiario di s. Maurizio nel tesoro dell'abbazia a Saint-Maurice d'Agaune (secc. 12°-13°) o, ancora, la volta a mosaico della cattedrale di Cefalù e l'altra del duomo di Monreale. A distinguerli, invece, concorre talvolta il colore: azzurri i cherubini, rossi i serafini, secondo un criterio di 'luminosità' che, se trova rigorosa applicazione in opere come l'Adorazione della Croce in S. Maria Antiqua a Roma o nella cupola del battistero di Firenze (Kirschbaum, 1940), non fu però costantemente rispettato, soprattutto dal sec. 15° in poi. Al di là dell'ovvio riferimento al testo pseudo-dionisiano per il quale - ed è vero - l'appellativo di serafini significa 'quelli che ardono' (De coelesti hierarchia, 7, 1; PG, III, col. 205B), sicché questi sono rossi come il fuoco, non si può fare a meno di ricordare che la speculazione sulla natura luminosa degli a. è comune tanto ai Padri greci (per es. Giovanni Damasceno, De fide orthodoxa, 2, 3, PG, XCIV, col. 886A; pseudo-Clemente Alessandrino, Excerpta ex scriptis Theodoti, 12, PG, IX, col. 661C) quanto ai latini (per es. Agostino, De diversis quaestionibus, 83, 47, PL, XL, col. 31; Gregorio Magno, Dialogi, IV, 29, PL, LXXVII, coll. 365-368). L'idea che gli a. siano esseri luminosi - idea cui certo concorse Lc. 24, 4 - influì su alcuni aspetti dell'iconografia angelica come nel caso degli a. di S. Maria Maggiore a Roma, che, in candide vesti, hanno il volto, le mani e i piedi "meravigliosamente rossi" (Kirschbaum, 1940), secondo quanto recita un verso del Carmen paschale (V, 328; PL, XIX, col. 740) non ignoto a Dante (Par. XXXI, vv. 13-15): "Flammeus aspectu, niveo preclarus amictu". La riflessione sulla natura luminosa degli a. favorì certo l'assimilazione di questi alle stelle - erranti e non - (per es. la Crocifissione e la Lamentazione di Maria ne Le Ore di Rohan, Parigi, BN, lat. 9471, cc. 27 e 135), in ossequio a una tradizione che va da Nicomaco di Gerasa (Bidez, Cumont, 1938, frammento 10) a Clemente Alessandrino (Stromata, VI, 16-17, PG, IX, coll. 369-372; Fragmenta, II, 13, ivi, col. 733), al Libro di Enoch (72, 3), per sfociare in Dante (Convivio II; IV, 2). Sulle immagini, però, influì soprattutto l'idea che la stella dei Magi fosse un angelo. Fra i non pochi esempi che si susseguirono saltuariamente dal sec. 6° al 15°, si ricordano qui l'altare di Ratchis nel duomo di Cividale e il pulpito di Giovanni Pisano nel S. Andrea a Pistoia (1301) dove l'Adorazione dei Magi rispecchia questa particolare iconografia (Bussagli, 1985-1986). La speculazione sulla luce, infine, fu certo alla base delle corrispondenze segnate fra gerarchie celesti e pietre preziose (Gregorio Magno, Homilia in Evangelia, XXXIV, 7; PL, LXXVI, col. 1250: serafini, sardonice; cherubini, topazio; troni, diaspro; dominazioni, crisolito; principati, onice; potestà, berillio; virtù, zaffiro; arcangeli, carbonchio; angeli, smeraldo).
Il passo citato, che prende senz'altro le mosse da Ez. 28, 13, noto a Gregorio attraverso la versione della Vulgata, mostra un dato conosciuto, ma non per questo meno interessante: vale a dire che la successione dei cori angelici proposta dal pontefice (590-604) non corrisponde a quella dionisiana, essendo stata posposta la posizione delle virtù. La discrepanza provocò una certa confusione perfino nella visione dantesca che, se nel Convivio (II, 5) si attiene a questo schema, nella Divina Commedia (Par. III, vv. 73-75, 79-81) concorda con l'altra (che poi è quella tomistica): serafini, cherubini, troni (I coro); dominazioni, virtù, potestà (II coro); principati, arcangeli, angeli (III coro). Come si vede, la problematica relativa ai cori angelici non era chiarita del tutto ancora nel sec. 14°, sicché non deve stupire che, sia pure in tutt'altro ambiente e in altra epoca (sec. 6°), ci si riferisse alle gerarchie paoline (Ef. 1, 21) nei mosaici, purtroppo distrutti, della chiesa della Dormizione a Nicea, ove erano raffigurati Virtù (ΔYNAMIC), Principati (APXE), Dominazioni (KYPIOTYTEC), Potestà (EΞOYCIE). Sono questi da considerarsi fra gli esempi più antichi di immagini di cori angelici, peraltro non differenziati iconograficamente, come del resto avviene anche più tardi (per es. Civate, S. Pietro al Monte, affreschi dell'abside, sec. 12°). Una puntuale diversificazione dell'iconografia dei cori (anche se non ne esiste una codificata) si trova invece nelle cupole dei battisteri di Firenze (primo quarto sec. 13°, primi del sec. 14°) e di S. Marco a Venezia (1342-1354), entrambe a mosaico. Talvolta, poi, la caratterizzazione fra i vari cori è affidata a una arbitraria differenziazione cromatica (per es. Firenze, Bibl. Naz., 22, c. 47v). Sugli aspetti iconografici dei singoli ordini che compongono i cori si rinvia alla voce Gerarchie angeliche.Per quanto riguarda l'a. raffigurato come essere umano adulto, va subito ricordato che la gran parte degli studiosi ritiene che la sua matrice iconografica sia la Nike classica (Strzygowski, 1901; Wulff, 1914; Beck, 1936; Réau, 1956; Panofsky, 1964). Certo le considerazioni di Felis (1912) - in parte anticipate da Leclercq (1909) - vanno sicuramente condivise. Lo studioso tedesco sottolineò, infatti, il perpetuarsi dei quattro schemi compositivi (la Vittoria di profilo, stante e che avanza; la Vittoria frontale con le braccia in alto che sorreggono un medaglione; la Vittoria in volo; le due Vittorie in volo che tengono un clipeo) che, già adottati nell'arte ufficiale romana, furono ripresi dall'arte cristiana, sostituendo gli a. alle Vittorie. Berefelt (1968), dal canto suo, ha approfondito lo studio delle corrispondenze fra gli a. in volo che tengono un clipeo e le Vittorie effigiate in egual maniera.Tuttavia, quanto osservato non dimostra che la Vittoria si sia 'trasformata' in a., come voleva Strzygowski (1902), né è lecito affermare che le Vittorie siano potute divenire a. senza modificazioni iconografiche (Panofsky, 1964).
Del resto già Stuhlfauth (1897) aveva rilevato che non era possibile confondere le Vittorie con gli a., dal momento che le prime sono di sesso femminile e vestono il chitone, mentre i secondi sono maschi e indossano dalmatica e pallio. Queste medesime osservazioni - che si possono facilmente verificare per es. sul Dittico Barberini (Parigi, Louvre) - sono condivise da Berefelt (1968) il quale indica, però, come eccezione gli a. miniati nella Genesi dell'assai danneggiata Bibbia Cotton (Londra, BL, Cott. Otho B.VI), noti da una copia del sec. 17° che raffigura il terzo giorno della Creazione (Parigi, BN, fr. 9530, c. 32). Qui gli a. indossano il chitone tipico della Vittoria, tuttavia l'ipotesi da considerare con maggior favore è che queste immagini derivino dall'iconografia della Psiche (Marini Clarelli, 1984).
La nascita dell'iconografia angelica consta, sostanzialmente, di due fasi. Fino alla fine del sec. 4°, infatti, gli a. erano apteri, in seguito furono loro aggiunte le ali. Prima della nuova iconografia pterofora, si può dire però che gli a. non avessero un'iconografia tale da caratterizzarli e da distinguerli dagli altri personaggi della scena, essendo essi raffigurati come uomini, talora addirittura barbati, come mostrano gli affreschi del sec. 4° nella catacomba di via Latina (Ferrua, 1960). In molti passi vetero e neotestamentari (Gn. 18, 2 ss. e 19, 10; Gdc. 13, 6; Tb. 5, 4; Dn. 8, 15 e 10, 5-15; Mc. 16, 5; Lc. 24, 4), infatti, gli a. sono ricordati come 'uomini', come accade, d'altra parte, anche nel Libro di Enoch (15, 6), considerato apocrifo solo dal 754. Pertanto essi furono rappresentati in tunica dalmatica e pallium, vesti diventate tipicamente cristiane; soprattutto il pallio, per il quale non si può fare a meno di ricordare l'opera di Tertulliano De pallio (PL, II, coll. 1030-1050).
Il fatto che fino alla fine del sec. 4° gli a. siano raffigurati senza ali, però, non è da considerarsi il risultato della mancanza di indicazioni testuali a riguardo, come vorrebbero Landsberger (1947) e Réau (1956), e perciò neppure come 'automatismo' rispetto alle fonti bibliche appena citate. Va infatti ricordato che quando apparvero le prime immagini di a. (ovviamente apteri), Tertulliano aveva già precisato nel 197 (Waltzing, 1929) che gli a., in quanto spiriti, posseggono le ali (Apologeticum, 22, 2; PL, I, col. 466). D'altra parte, anche nella Bibbia stessa, al di là dei riferimenti già ricordati a cherubini e serafini (a. alati), compaiono altre citazioni in Dn. (9, 21) e, per quanto allora considerata apocrifa, in Ap. (14, 6). Ci si trova, quindi, dinanzi a una scelta volontaria degli artisti, forse improntata all'interpretazione pedissequamente letterale del testo biblico, altrove più volte dimostrata (Cagiano de Azevedo, 1963), oppure all'idea che, quando si presentano, gli a. assumono sembianze umane. Quest'ultima ipotesi (che però non ne esclude altre) sembra essere avvalorata dagli a. dell'Ospitalità di Abramo (Gn. 18, 8) nel S. Vitale di Ravenna e da due avori (Monaco, Bayer. Nationalmus.; Milano, Castello Sforzesco, Coll. Trivulzio) che rappresentano le Pie donne al Sepolcro (Mc. 16, 5). In queste tre opere, che sono datate rispettivamente ai secc. 6° e 5° (quando gli a. venivano ormai rappresentati con le ali), essi invece si presentano apteri, proprio perché sono apparsi agli uomini.
L'aggiunta delle ali è da considerarsi, per così dire, una 'apposizione iconografica' in quanto esse non determinano alcuna altra modifica alla figurazione precedente, tant'è che, per es., in un avorio del British Mus. che rappresenta il Battesimo di Gesù (fine del sec. 4°-primi del sec. 5°) compare addirittura un a. pteroforo con la barba, il che dimostra la perfetta continuità dell'iconografia ed esclude la 'filiazione' dalla Vittoria. Le ali, infatti, sono la soluzione figurativa che esprime visivamente quanto era stato stabilito da una complessa plurisecolare speculazione sulla natura degli a., posta in stretta relazione con quella aerea dei venti (Raff, 1978-1979; Bussagli, in corso di stampa). Gli a. occupano una posizione intermedia fra l'uomo, essere di terra (Gn. 2, 7), e Dio, la luce suprema (1 Gv. 1, 5), sicché anche la loro natura è intermedia. Se paragonata a quella degli uomini, essa risulta spirituale, mentre se la si confronta con quella di Dio appare corporea (Gregorio Magno, Moralia, 2, 3, PL, LXXV, col. 557; Clemente Alessandrino, Excerpta ex scriptis Theodoti, 14, PG, IX, col. 664). Per questo Filone d'Alessandria (De planatione, 14) non ha esitato a collocare gli a. nell'aria, insieme agli uccelli e alle anime (Lemonnyer, 1907). Gli a., perciò, hanno un corpo d'aria (Psello, De operatione daemonum), anzi, sono essi stessi i venti (pseudo-Dionigi, De coelesti hierarchia, 15, 6; PG, III, col. 333D); oppure, come nella tradizione apocalittica (Ap. 7, 1) e nel Vangelo di Bartolomeo (IV, 31-34), si trovano a governare i venti dei quattro angoli del mondo. Così, è per esprimere la natura aerea degli a. che gli artisti paleocristiani 'apposero' le ali alla figura degli a.-uomini: "sicut et iuxta fabulas poetarum venti pennas habere dicuntur" (Isidoro, Etymologiae, 7, 5, 3; PL, LXXXII, col. 272B). Come le figure dei venti tardoantiche erano caratterizzate dalle ali (Cumont, 1942; Stefanska, 1971), così lo furono gli a. in quanto esseri spirituali, cioè dell'aria.
Alla base di questa riflessione sta il salmo 104 (103),4 - che influì anche sul Corano (Fahd, 1966) - nell'interpretazione comune alla tradizione rabbinica, ai Settanta e a Eb. 1, 7 ove gli a. sono visti come vento e fiamma (Ravasi, 1986). L'assimilazione della natura angelica a questi due aspetti elementali della realtà - che si ritrova per es. in Basilio di Cesarea (Liber de Spiritu sancto, 16, 38; PG, XXXII, col. 137A) e fra i padri del concilio Niceno II (Mansi, XIII, col. 165A-B) - fece sì che gli a. venissero considerati vuoi esseri luminosi, vuoi esseri aerei. Quest'ultimo aspetto, però, non determinò soltanto l'aggiunta delle ali alla figura aptera degli a., ma fu all'origine di un altro motivo iconografico: quello dell'a. il cui 'corpo' sbuca da una nuvola, o meglio dalla nuvola prende forma. Già nella Bibbia, infatti, si trova l'accostamento fra a. e nuvole (Ez. 1, 4; 10, 3-4; At. 1, 9; Ap. 10, 1). Tuttavia è il commento dello pseudo-Dionigi (De coelesti hierarchia, 15, 6; PG, III, col. 333C) che ne legge gli aspetti simbolici, mentre quello di Tommaso (Summa theol., q. 51, a.2) e, prima ancora, l'altro di Isidoro spiega che "Angeli corpora in quibus hominibus apparent, de superno aere sumunt, solidamque speciem de coelesti elemento induunt, per quam humanis obtutibus manifestius demonstrentur" (Liber Sententiarum, I, 10, 19; PL, LXXXIII, col. 557). Quando gli a. si mostrano agli uomini 'si vestono' di nubi. Il che spiega perché, per es., l'a. che appare a s. Aldegonda, miniato nel codice che racconta la vita e i miracoli di s. Amando (Valenciennes, Bibl. Mun., 502, c. 118v; sec. 11°) sbuchi proprio da una nuvola, oppure perché gli a. dipinti da Taddeo Gaddi nella cappella Baroncelli (Firenze, Santa Croce) abbiano il corpo che termina in un ciuffo nuvoloso. Il motivo dell'a.-nuvola ebbe molta fortuna nel Medioevo (si ricordino la Crocifissione di Giotto nella cappella degli Scrovegni a Padova e l'altra, di Pietro Lorenzetti, nella basilica inferiore di Assisi), si perpetuò nel Rinascimento con effetti sempre più naturalistici, per sfociare nelle figure degli a. barocchi adagiati su 'cuscini' di vapore. Come si vede, gran parte dell'iconografia angelica risente della speculazione sulla natura aerea degli a. tanto che da questa sembra dipendere anche la figura dell'a.-putto.
Innanzi tutto è da dire che il grande impiego di a.-putti si ebbe in epoca rinascimentale e barocca. In ambito medievale, infatti, l'immagine più diffusa è senz'altro quella dell'a.-adulto, mentre i rari esempi di putti alati sono da considerarsi, più che a., eroti. Si ricordino quelli dipinti da Giotto sul timpano della casa di s. Anna (Padova, cappella degli Scrovegni) riportati tanto nella scena dell'Annuncio a s. Anna (dove gli eroti hanno il mantello), quanto in quella della Nascita di Maria (dove il manto non è stato dipinto). Ancora si rammentino gli eroti di Buffalmacco nel Trionfo della morte (Pisa, Camposanto). È chiaro che l'influenza dei modelli classici è tutt'altro che da sottovalutare, tuttavia la nascita dell'iconografia dell'a.-putto dovette avvenire in altro modo.
I presupposti teorici di una simile scelta figurativa sono da ricercarsi, infatti, nella speculazione che avvicinava a. e anime. L'affinità fra queste due entità riposa sull'idea che la natura dell'anima sia aerea (Sal. 39 [38], 6; 144 [143], 4): "Ricordati che la mia vita è un soffio" (Gb. 7, 7). Del resto è noto che il termine ebraico ruah ha tanto il significato di 'anima' quanto quello di 'vento' (Brich Hoyle, 1920), il che è di per sé indicativo e probante giacché - lo si è visto - gli a. sono i venti. Anche il gr. ψυχή è originariamente 'respiro, alito', connesso con ψύχω 'soffio', e il lat. anima corrisponde al gr. ἄνεμοϚ 'vento' (Di Nola, 1970).Giova inoltre sottolineare che Origene (De principiis, II, 8, 3; PG, XI, coll. 222-223), in virtù della relazione tra ψυχή e ψῦχοϚ 'freddo' (Nicole, 1907), indica come le anime non siano altro che a. la cui natura, 'raffreddatasi', sia scesa fino a incarnarsi. Non diversamente Filone d'Alessandria spiega che l'aria è popolata da anime incorporee. Alcune di queste s'incarnano, altre, di natura più divina, non avranno mai un corpo e staranno per sempre nell'etere. Queste ultime si chiamano a. (De planatione, 14; De confusione linguarum, 34, 174). Sulla base di questi passi è agevole giustificare la scelta operata nello scriptorium di Alessandria (Weitzmann, 1984) quando gli artisti si appropriarono dell'iconografia della Psiche (Marini Clarelli, 1984) per raffigurare gli a. del codice Cotton. Non solo, ma le affermazioni di Filone spiegano perché gli a. del codice Cotton hanno le ali di uccello e non di farfalla come quelle della Psiche: perché gli a. volano più in alto delle anime. D'altra parte, già nella sinagoga di Dura-Europos l'affresco che illustra Ez. 37, 9 mostra i quattro venti raffigurati come Psychai dalle ali di farfalla. Si deve ricordare, però, che fra le varie iconografie dell'anima esiste anche quella che la vuole come una piccola figura umana spesso nuda, talvolta alata, l'εἴδωλον (Nicole, 1907). A questo punto appare chiaro perché in un'onice incisa del sec. 8°, che rappresenta l'Annunciazione (Londra, British Mus.), l'arcangelo Gabriele è un a.-putto o perché in una perduta gemma gnostica non ci sia diversità, salvo che per la presenza delle ali, fra l'iconografia degli a. e quella delle anime, entrambi rappresentati come figurette nude (Leclercq, 1909, fig. 653; improbabili le osservazioni di Bonner, 1951). Così ancora viene chiarito per qual motivo, nei Libri sententiarum di Pietro Lombardo (Monaco, Bayer. Staatsbibl., Clm 697, c. 151r; sec. 12°), l'anima che Dio soffia in Adamo abbia l'aspetto di un putto alato. Ma il rapporto fra anima e a. - un rapporto che per Dante, sulla scorta di Tommaso (In X libros ethicorum Aristotelis ad Nicomacum expositio, VII, 1), negli uomini di più nobile natura sfiora l'assimilazione (Convivio III, 7, 6) - è pure responsabile della nascita dell'iconografia femminile di queste figure. Se infatti non di rado la fisionomia dell'a. acquisisce caratteri femminei, questi si accentuarono dalla metà del sec. 14° in poi. Si è persino potuto dire che su essa abbia influito la poetica della donna angelicata. Comunque sia, per es. dei due a. che sorreggono il manto della Madonna della Misericordia, affrescati nella lunetta di S. Maria in Selva nel cimitero di Locarno, l'uno è caratterizzato dal seno mentre l'altro indossa una veste, la pellarda o pellanda, di uso più tipicamente femminile. Così indossano la 'gonnella' gli a. musicanti nell'Assunzione della Vergine di Bartolo di Fredi (Siena, Pinacoteca Naz.).
Quello degli a. musicanti è un tema assai diffuso in ambito medievale. Esso ha un valore filosofico preciso. La concezione platonica e pitagorica della cosmologia medievale, in virtù di Sap. 11, 20, assumeva dunque i rapporti aritmetici a base dell'armonia dell'universo, sicché la musica - che si fonda anch'essa su connessioni aritmetiche - ne era considerata l'esemplificazione (Murdoch, 1984). In particolare il moto delle stelle e dei pianeti era ritenuto armonico, tanto che Filone d'Alessandria paragonò i sette pianeti alle corde della lira (De opificio mundi, I, 34, 9). Ma a muovere i pianeti e i loro cieli - lo si è detto - erano gli a., come mostra per es. un manoscritto provenzale del sec. 14° (Londra, BL, Royal 19. C. I., c. 34v) dove due a. fanno girare il cosmo azionando, ognuno, una manovella. Quanto detto è già sufficiente a chiarire il significato delle raffigurazioni di a. musicanti e perché, nella già ricordata miniatura della Vie et miracles de St. Denis, la visione avuta dal supposto s. Dionigi, mostri gli a. delle nove gerarchie, proprio come a.-musicanti che suonano l'armonia del creato (Hammerstein, 1962). L'intento appare chiaro nell'Incoronazione di Maria dipinta da Paolo Veneziano (Venezia, Gall. dell'Accademia), dove il momento di coniunctio fra il Cristo e Maria, non senza riferimento a Ct. 8, 6, assume il senso dell'armonia universale. La presenza dell'organo tenuto da due a. accanto ai luminari maggiori è da imputarsi alla traduzione della Vulgata che rende il salmo 150, 4 con: "Laudant eum in cordis et organo". Il termine ebraico 'ugab, che indica generalmente lo strumento a fiato, fu erroneamente tradotto òrgano' (Ravasi, 1986). L'errore si ripercosse sull'iconografia anche perché il salmo fu assunto come riferimento per la strumentistica angelica. Un'ulteriore riprova questa della stretta dipendenza fra immagine e testo, dipendenza che l'iconografia angelica sembra ampiamente avvalorare.
Bibliografia
Fonti:
Mansi, XIII, col. 165A-B; G. Ravasi, Il libro dei Salmi. Commento e attualizzazione, 3 voll., Bologna 1986.
Apocrifi dell'Antico Testamento, a cura di P. Sacchi, Torino 1981.
I Vangeli apocrifi, a cura di M. Craveri, Torino 1969.
J. Bidez, F. Cumont, Les Mages Hellénisés, 2 voll., Paris 1938.
Les Oeuvres de Philon d'Alexandrie. Publiées sous le patronage de l'Université de Lyon, 35 voll., 1961-1973.
R. Roques, G. Heil, M. Gandillac, Denis l'Areopagite. La Hierarchie celeste (Sources Chrétiennes, 58), Paris 1958.
Dionigi Areopagita, Tutte le opere, a cura di G. Reale, Milano 1981.
Michele Psello, Sull'attività dei demoni (De operatione daemonum), a cura di F. Albini, Genova 1985, pp. 188-190.
Tommaso d'Aquino, Summa Theologica, a cura di P. Caramello, Torino 1956.
Dante Alighieri, Convivio, a cura di G.R. Ceriello, Milano 1952.
Letteratura critica:
G. Stuhlfauth, Die Engel in der altchristlichen Kunst, Freiburg im Brsg. 1897.
J. Strzygowski, Orient oder Rom, Beiträge zur Geschichte der spätfrühchristlichen Kunst, Leipzig 1901, p. 25 ss.
id., Hellenische und Koptische Kunst in Alexandria, Wien 1902, p. 7 ss.
A. Vacant, s.v. Ange, in DTC, I, 1902, coll. 1189-1271.
A. Lemonnyer, L'air comme séjour d'anges, d'après Philon d'Alexandrie, Revue des Sciences philosophiques et théologiques 1, 1907, pp. 305-311.
G. Nicole, s.v. Psyche, in Dictionnaire des antiquités grecques et romaines, IV, 1, Paris 1907 (rist. anast. Graz 1963), pp. 743-750.
H. Leclercq, s.v. Anges, in DACL, I, 2, 1909, coll. 2080-2161.
J.B. Frey, L'angelologie Juive aux temps de Jesus-Christ, Revue des Sciences philosophiques et theologiques 5, 1911, pp. 75-110.
K. Felis, Die Niken und die Engel in altchristlichen Kunst, RömQ 26, 1912, pp. 3-25.
O. Wulff, Altchristliche und byzantinische Kunst (Handbuch der Kunstwissenschaft, 2), München 1914, p. 136.
R. Brich Hoyle, s.v. Spirit of God, in Encyclopaedia of Religion and Ethics, a cura di J. Hastings, XI, New York 1920, pp. 784-803.
J. P. Waltzing, Préface, in Tertulliano, Apologetique, Paris 1929, pp. I-LXXV: LI-LX.
A.C.N. Beck, Genien und Niken in der altchristlichen Kunst, Giessen 1936.
W.F. Albright, What were the Cherubin, The Biblical Archeologist 1, 1938, pp. 1-3.
E. Kirschbaum, L'angelo rosso e l'angelo turchino, RivAC 17, 1940, pp. 209-248.
F. Cumont, Recherches sur le symbolisme funéraire des Romains, Paris 1942.
G. Dumézil, Naissance d'archange, essai sur la formation de la théologie zoroastrienne, Paris 1945.
F. Landsberger, Origin of the Winged Angel in Jewish Art, Hebrew Union College Annual 20, 1947, pp. 227-254.
C. Bonner, Amulets Chiefly in the British Museum, Hesperia 20, 1951, pp. 301-345: 340, tav. 99, fig. 62.
Réau, II, 1, 1956, pp. 31-36.
A. Bausani, Persia religiosa, Milano 1959.
A. Ferrua, Le pitture della nuova catacomba di via Latina, Città del Vaticano 1960.
R. De Vaux, Les chérubins et l'arche d'alliance, les sphinx gardiens et les trones divins dans l'ancien Orient, Mélanges de l'Université Saint-Joseph 37, 1960-1961, pp. 93-124.
E. Corsini, Il trattato ''De divinis nominibus'' dello Pseudo-Dionigi e i commenti neoplatonici al Parmenide, Torino 1962, p. 58 ss.
T.H. Gaster, s.v. Angel, in The Interpreters Dictionary of the Bible, I, New York 1962, pp. 128-134: 131.
R. Hammerstein, Die Musik der Engel. Untersuchungen zur Musikanschauung des Mittelalters, Bern-München 1962.
T. Klauser, s.v. Engel in der Kunst, in RAC, V, 1962, coll. 258-322.
M. Cagiano de Azevedo, Il patrimonio figurativo della Bibbia all'inizio dell'Alto Medioevo, in La Bibbia nell'Alto Medioevo, "X Settimana di studio del CISAM, Spoleto 1962", Spoleto 1963, pp. 341-386.
E. Panofsky, Tomb Sculpture. Its Changing Aspects from Egypt to Bernini, London 1964, p. 43.
T. Fahd, La divination arabe. Etudes religieuses sociologiques et folkloriques sur le milieu natif de l'Islam, Leiden 1966, p. 69 n. 1.
K.A. Wirth, s.v. Engel, in RDK, V, 1967, coll. 342-555.
G. Berefelt, A Study of Winged Angel. The Origin of a Motiv (Acta Universitatis Stockolmiensis. Studies in History of Art), Stockolm 1968.
s.v. Engel, in LCI, I, 1968, coll. 626-642.
A. Rolla, Letteratura ebraico-biblica, in Storia delle letterature d'Oriente, I, Milano 1969, pp. 475-660.
A. Di Nola, s.v. Anima, in Enciclopedia delle Religioni, I, Firenze 1970, coll. 373-395.
P. Giannoni, s.v. Angeli e Angelologia, ivi, coll. 346-358.
H. Stefanska, Observations sur les répresentations des Vents sur les couvercles de sarcophages romains, Etudes et travaux 6, 1971, pp. 105-144.
J. Quinlan, Angeli e diavoli, in Giornale di teologia, Brescia 1972, pp. 61-92.
D.I. Pallas, s.v. Himmelsmächte, Erzengel und Engel, in RbK, III, 1978, coll. 13-119.
T. Raff, Die Ikonographie der mittelalterlichen Windpersonifikationen, Aachener Kunstblätter 48, 1978-1979, pp. 70-218.
M.V. Marini Clarelli, I giorni della creazione nel ''Genesi Cotton'', OCP 50, 1984, pp. 65-93.
K. Weitzmann, The Genesis Mosaics of San Marco and the Cotton Genesis Miniatures, in O. Demus, The Mosaics of San Marco in Venice, I, Chicago-London 1984, pp. 105-145.
J.E. Murdoch, Album of Sciences. Antiquity and the Middle Ages, New York 1984.
M. Bussagli, Sul contacio della Natività di Romano il Melodo. A proposito dell'Angelo-stella, RSBN, n.s., 22-23 (XXXII-XXXIII), 1985-1986, pp. 3-49.
id., Gli Angeli e i Venti. Riflessioni nel simbolismo aereo delle ali angeliche, in Mille Angeli festanti, "Convegno di Studi, Genova 1989", a cura di P.A. Rossi (in corso di stampa).
di F. Panvini Rosati
L'a., rappresentato raramente sulle monete medievali, appare dapprima sulle monete bizantine, poi su quelle delle zecche occidentali. Esso si trova infatti sui solidi di Giustino I, sul cui rovescio si vede una figura alata stante, in posizione frontale con lunga croce e globo crucigero o globo semplice senza croce, che viene comunemente denominata 'angelo'. Il tipo continua anche con Giustiniano I, ma sui solidi di questo imperatore battuti tra il 538 e il 547 l'a. è raffigurato, nello stesso atteggiamento, con uno scettro sormontato dal P̶. Si ritiene generalmente che l'a. derivi dal tipo della Vittoria stante, di profilo con lunga croce, raffigurata agli inizi del sec. 5° sui solidi di Arcadio della zecca di Costantinopoli e poi all'epoca di Valentiniano III sui solidi delle zecche occidentali. Il motivo centrale della Vittoria e dell'a. era la figura stante alata, che nella monetazione romana fin dall'età repubblicana era usata solo per la Vittoria. Il momento della trasformazione della Vittoria in a. è stato visto, come si è detto, all'epoca di Giustino I, ma si tratta di una data più che altro convenzionale perché già con Anastasio era effigiata sui solidi una figura alata con scettro terminante nel monogramma costantiniano o nel P̶. Questa figura, che diverge dal normale tipo della Vittoria visibile sulle monete romane, potrebbe essere identificata con un angelo.
L'a. con indicazione del nome appare per la prima volta in Occidente sui tremissi longobardi di Cuniperto agli inizi del sec. 8° sui quali è raffigurato l'arcangelo Michele stante, di profilo con croce astile e scudo rotondo insieme alla leggenda sanctus Mihahil. L'arcangelo Michele è raffigurato ancora sui solidi della zecca di Benevento a nome di Sicone (817-832); è rappresentato stante, di fronte con le ali aperte, con lunga croce astile ricurva nella destra e globo crucigero nella sinistra e viene individuato dalla leggenda "Michael archangelus". In queste immagini di s. Michele ogni rapporto con la vecchia immagine della Vittoria è ormai scomparso: la figura sul rovescio dei solidi beneventani è del tutto diversa per concezione e stile da quella della Vittoria sulle monete romane dell'ultimo periodo, fino a diventare una figura nuova.
L'a. appare di nuovo nella scena dell'Annunciazione raffigurata sui saluti d'oro e d'argento coniati nella zecca di Napoli, riaperta nel 1278 da Carlo I d'Angiò: è rappresentato stante, di fronte alla Vergine nell'atto di pronunciare l'annuncio evangelico, ricordato dalla leggenda della moneta "Ave gracia plena dominus tecum".In Francia sulle monete d'oro di Filippo VI nel 1341 è rappresentato l'arcangelo Michele stante che tiene con la destra una croce sulla testa di un drago giacente ai suoi piedi.
Bibliografia
E. Martinori, s.v. Ange, Angel, Angelot, Angelo, Angelus, in La Moneta, Roma 1914 (rist. 1977), pp. 9-10.
A. Suhle, s.v. Ange d'or, in Wörterbuch der Münzkunde, Berlin-Leipzig 1930, p. 28 ss.
F. Panvini Rosati, La tipologia monetale della zecca di Costantinopoli da Anastasio a Giustino II, Felix Ravenna, s. IV, 125-126, 1982-1983, pp. 39-61.