angoscia
Gli attacchi di panico
Gli attacchi di panico (ADP) sono costituiti da episodi acuti di intensa paura, angoscia o disagio che si instaurano rapidamente e persistono per un tempo delimitato. Durante l’ADP sono presenti i segni neurovegetativi di paura e angoscia ma possono esservi anche senso di soffocamento, formicolii, vampe di calore, sensazioni di sbandamento, di svenimento, paura di perdere il controllo, di impazzire, di morire. Possono dipendere da cause diverse e rientrare in disturbi diversi, alcuni di chiara origine somatica, durante sforzi fisici intensi, come conseguenza dell’abuso di alcune droghe o per astinenza dalle stesse, in corso di malattie come l’ipertiroidismo, le crisi ipoglicemiche, alcune cardiopatie e nelle embolie polmonari. Ma gli ADP sono in grande maggioranza legati a problematiche psicologiche di cui il soggetto non è consapevole. Gli ADP possono ripetersi, generando il timore che il panico si ripresenti, ossia la paura della paura, che è a sua volta scatenante panico. In questo caso siamo di fronte a quello che si chiama disturbo da ADP, che sovente si accompagna ad agorafobia.
I Greci chiamarono panico ciò che poteva provare un essere umano perdutosi in un bosco, il terrore di udire il flauto del dio Pan, un suono che attraeva e spaventava (forse una forma metaforica del timore di pulsioni sessuali e aggressive fuori dal controllo). Tali episodi acuti di angoscia erano già noti in psichiatria. Per es., Freud descrive caratteristiche di questo tipo nel caso di Katharina, una delle giovani isteriche affidate alle sue cure. Nel 1964 fu scoperto che un tal quadro di ansia acuta recidivante poteva essere curato con farmaci antidepressivi. A questo quadro è stato dato il nome di disturbo da ADP nel Manuale diagnostico statistico dei disturbi mentali III ed. (DSM-III) dell’American Psychiatric Association.
L’individuazione della sindrome dominata da angoscia ha ridato ‘dignità’ di malati a persone che ricorrevano con urgenza alla medicina col terrore di stare male, di essere sul punto di avere un infarto, un ictus, di stare per morire o per impazzire. In precedenza, la negatività clinica e degli esami strumentali portava a definire questi pazienti come ansiosi, nevrotici, psicosomatici; pazienti che, per l’urgenza con la quale richiedevano aiuto, portavano via tempo prezioso al personale sanitario. L’identificazione della sindrome ha offerto la possibilità di trattare questi casi con una terapia specifica, spesso efficace sul piano sintomatologico. è diventato quindi possibile conoscere la frequenza del quadro (dal 2 al 12% per gli ADP, fra 1 e 2% per il disturbo da ADP), la prevalenza per sesso (2÷3:1 di donne rispetto agli uomini) e l’età di insorgenza (in età precoce, 15÷24 anni, o matura, 45÷54 anni) e la fisiopatologia. Si è visto così che vi sono modificazioni nel funzionamento di aree del cervello (per es. il locus coeruleus), di neuromediatori (in partic., la serotonina); gli ADP possono infine essere scatenati da infusioni endovenose di lattato. Questi e numerosi altri reperti mostrano alcune basi biologiche degli ADP. Ma l’angoscia, di cui il panico è una forma specifica, ha una fondamentale valenza psicologica (paura di che? Perché avvertire il panico ora, in una data situazione?). I farmaci possono aiutare molti pazienti, ma a distanza di anni i miglioramenti si mantengono solo in un ridotto numero di casi. Si è così confermato che se gli ADP, nel loro susseguirsi, vengono considerati esclusivamente come una malattia e non anche come una comunicazione, la loro guarigione è spesso parziale. Gli ADP, e il disturbo a essi collegato, trovano invece una possibilità di lettura e di cura più profonda attraverso interventi psicoanalitici.
Freud aveva usato la parola panico per descrivere lo stato d’animo che coglie l’individuo quando, venuti meno i legami affettivi che lo avevano unito ad altri esseri umani in gruppi sociali organizzati, affrontando i pericoli da solo, li teme maggiori di quello che realmente sono. Collegò quindi il panico alle separazioni, un’interpretazione che molti hanno confermato anche per l’agorafobia.Questa impostazione, frutto del contributo anche di numerosi altri psicoanalisti, ha avvicinato la psicoanalisi a impostazioni evoluzionistiche, che vedono nell’angoscia un fenomeno adattativo alle situazioni ambientali e quindi atto a promuovere la sopravvivenza. In questa ottica l’angoscia, anche quella degli ADP, nasce, originariamente, di fronte al pericolo di perdere il contatto con la madre, come hanno evidenziato gli studi sull’attaccamento nell’uomo, filone di ricerca iniziato dallo psicoanalista inglese John Bowlby (➔ attaccamento, neurobiologia dell’). Da questo timore originano modelli operativi atti a evitare la separazione o a ritrovare l’oggetto dell’attaccamento; tali modelli operativi, iscritti nella memoria in forme non coscienti, si riattivano in situazioni nuove ma analoghe a quelle già sperimentate in passato. Questa impostazione si collega anche a nuove conoscenze neurobiologiche e neuropsicologiche, per le quali la ripetizione è fondamentale per la funzione del cervello. Il cervello inconsciamente predice che cosa è più probabile accada in relazione a una certa serie di eventi e mette in moto attività (emozioni, comportamenti, risposte interpersonali) che sono le più adatte a ciò che ci si aspetta. Questo accade sulla base di informazioni che vengono dal passato come guida per quello che ci si può aspettare nel futuro, e tale anticipazione permette risposte più rapide e, sovente, più adeguate. Ma c’è anche la possibilità di errori, per cui possono attivarsi angosce non adeguate alla situazione attuale, angosce legate a esperienze precedenti riattivate o temute. In breve, l’angoscia appare legata alla possibilità della mente di dare significato di minaccia a eventi attuali (per es., di momentanea separazione) sulla base di ricordi inconsci del passato, in modo corretto ed evoluzionisticamente utile, o scorretto, patologico e patogeno, come negli ADP e nel disturbo a essi collegato.