Angoscia
L'etimo di angoscia si lega al verbo latino angere, "stringere". Il termine indica uno stato emotivo di tono spiacevole, oppressivo, provocato da cause non definite o riconoscibili da parte del soggetto. Affine all'ansia (v.) - cui l'unisce il senso di agitazione e malessere -, l'angoscia se ne differenzia, anche secondo l'esperienza clinica comune, per il grado di sofferenza soggettiva e per il coinvolgimento somatico. Il concetto di angoscia è fondamentale nella teoria psicoanalitica di Freud, che ne fornisce una spiegazione psicogena e distingue l'angoscia nevrotica, liberamente 'fluttuante', dall'angoscia reale, reazione a una situazione di pericolo. Direttamente connesso alla vita psichica e alle sue pulsioni, il termine ha assunto rilevanza culturale con l'esistenzialismo: l'angoscia è qualcosa che sta alle radici dell'esistenza stessa dell'uomo, condizione di incertezza e problematicità costitutiva dell'Esserci nel mondo.
I.
La distinzione terminologica fra angoscia e ansia è presente solo nelle lingue di origine latina. L'inglese (anxiety) e il tedesco (Angst) hanno un'unica parola per indicare questo tipo di affetto e ciò, in ambito psicologico e psichiatrico, ha generato confusioni fra i termini, sovente usati come sinonimi. Può accadere che le traduzioni dal tedesco usino prevalentemente 'angoscia', da Angst, quelle dall'inglese 'ansia', o in taluni casi 'ansietà', da anxiety.
Si può affermare, schematizzando, che riguardo al significato rispettivo di ansia e angoscia esistono tre posizioni: a) i due termini hanno un valore equivalente, intercambiabile; b) la parola 'angoscia' si richiama più specificamente al versante somatico delle manifestazioni di uno stesso stato emotivo; c) angoscia designa uno stadio più grave, vissuto come connesso a maggiore sofferenza e più vicino alla patologia. Le due ultime posizioni circoscrivono un'area semantica propria dell'angoscia, nel complesso diversa per gravità e coinvolgimento somatico da ciò che si chiama ansia, e rappresentativa invece di un'area che va dall'accentuazione di un normale stato di vigilanza e preoccupazione alla patologia. Ansia infatti significa paura dell'ignoto, inquietudine e preoccupazione, termine che implica sollecitudine, cura anche ossessiva. Vi è tuttavia da osservare, a rendere più intricata la questione, che la parola 'ansia' è usata nella psichiatria attuale per indicare una serie di affezioni quali i 'disturbi d'ansia' (anxiety disorders, nel sistema nosografico dell'Associazione americana di psichiatria, 1994): si può per es. leggere in alcuni studi che l'angoscia è un sintomo di quegli attacchi di panico classificati fra i disturbi d'ansia; anche qui essa è riferita a uno stato affettivo di tipo patologico.
2.
La definizione del concetto di angoscia non può prescindere dall'uso che Freud fece del termine Angst (parola tradotta dagli psicoanalisti con "angoscia") e dai successivi contributi psicoanalitici su questo tema. Freud considerò l'angoscia come uno dei fenomeni da collocare e spiegare nell'ambito di quella teoria generale della vita mentale che egli andava elaborando. Fornì cioè una spiegazione psicogena dell'Angst, pur avendo ben presente il versante somatico, in questo differenziandosi dalla psichiatria dell'epoca, che attribuiva l'angoscia a una disfunzione del sistema nervoso vegetativo. Quest'ultima posizione, modificata in alcuni dettagli e arricchita di conoscenze, soprattutto sui neurotrasmettitori (GABA, serotonina, noradrenalina: v. ansia), coincide fondamentalmente con quella di molta psichiatria moderna, 'biologica'.Si considera classicamente (Brenner 1955) l'esistenza, nell'opera di Freud, di due diverse teorie sull'angoscia. Da parte di altri studiosi, invece, si intravvede un'evoluzione della posizione teorica dello stesso autore, che cambia con il variare di alcuni paradigmi. All'inizio la spiegazione di Freud sulla genesi dell'angoscia è meccanicistica (la trasformazione della libido in ansia in seguito a mancata scarica), poi il suo pensiero evolve verso la considerazione di situazioni traumatiche e di pericolo, attribuendo all'angoscia una funzione di segnale, in modo da collegarla con la nuova ipotesi strutturale, che vede nell'Io la sede dell'angoscia e il produttore di segnali.
Le due teorie, o le due diverse ottiche, si possono sintetizzare come segue.
a) Per la prima (Freud 1895), l'angoscia nasce da trasformazione della libido a causa dell'aumento di una stimolazione endogena che non può essere scaricata attraverso azioni specifiche, né psichicamente legata, cioè connessa a certi oggetti o situazioni, o padroneggiata. Essa non è una reazione appropriata perché non diminuisce l'entità del dispiacere, anzi lo aumenta attraverso la percezione di un nuovo stimolo interno. Vi è al fondo il principio dell'equilibrio, dell'adattamento attraverso la riduzione degli stimoli. L'apparato mentale sviluppa una struttura (il sistema preconscio o l'Io in differenti periodi del lavoro di Freud) che inibisce il completo sviluppo della scarica interna. L'angoscia è dunque, in tale fase, un tipo patologico di paura, fenomenicamente analoga a questa ma di origine nettamente diversa, essendo una manifestazione patologica dell'energia propria della pulsione. In questa ottica teorica Freud descrive le condizioni patologiche nelle quali l'angoscia si produce e cioè la nevrosi d'angoscia e l'isteria d'angoscia. Connessa alla normale evoluzione della vita psichica è l'angoscia di castrazione, legata, nel bambino, a minaccia per il suo desiderio della madre, nella bambina vissuta come menomazione. Il superamento di questo tipo di angoscia segna la fine del periodo edipico. L'introduzione del concetto di narcisismo (Freud 1914; v. narcisismo) ebbe, fra altre importanti conseguenze, quella di estendere la spiegazione economica dell'angoscia nelle nevrosi alle angosce ipocondriache, costituendo così un ponte fra normalità, nevrosi e psicosi.
b) La seconda teoria sull'angoscia (Freud 1926) richiama nell'impostazione quanto trattato in due altri fondamentali lavori (Freud 1920; 1923). In essa Freud non riprese ma neppure scartò l'ipotesi che fosse la libido non scaricata a trasformarsi in ansia; sottolineò invece come l'organismo umano fosse geneticamente dotato della capacità di reagire con angoscia a situazioni di pericolo quali la perdita della protezione da parte dei genitori. Il suo interesse si orientò quindi non tanto all'origine e alla natura dell'angoscia, quanto alla sua importanza e al posto che essa occupa nella vita mentale dell'uomo. Freud sostenne che l'angoscia si sviluppa automaticamente quando si ha un afflusso di stimoli troppo grande per poter essere padroneggiato o scaricato.
Questi stimoli possono essere di natura sia esterna sia interna, provenienti dall'Es; quando sono eccessivi la situazione diviene traumatica. Il parto e la nascita sono il prototipo di tali situazioni. L'infanzia, un periodo della vita in cui l'lo è debole e immaturo, è caratterizzata dalla presenza dell'angoscia automatica; ma essa si manifesta anche negli adulti, nella nevrosi attuale d'angoscia. Nel corso dello sviluppo, poi, il bambino impara ad anticipare gli stati traumatici e a reagire a essi con un tipo di angoscia che tende a prevenire quella automatica, direttamente traumatica. Si tratta dell'angoscia segnale o d'allarme, attivata dal pericolo incombente o dall'anticipazione di esso. La separazione dalla madre è il prototipo di tale emergenza, perché il bambino ha appreso dall'esperienza che le richieste di gratificazione pulsionale in assenza della madre originano una condizione traumatica e l'angoscia a essa connessa.
La sede dell'angoscia diviene dunque l'Io, con le sue complesse funzioni collegate fra loro, che riconoscono il pericolo e generano ciò che è percepito come angoscia. Naturalmente anche l'angoscia segnale è spiacevole, ma è finalizzata a evitare dispiaceri maggiori e quindi è legata al principio del piacere. Essa ha grande importanza nello sviluppo ed è il tipo di angoscia presente nella patologia in quanto si è verificata, durante lo sviluppo stesso, una gamma di situazioni di pericolo (perdita dell'oggetto amato o dell'amore dell'oggetto, minaccia di castrazione, perdita dell'approvazione del Super-Io) che persiste come tale nell'inconscio per tutta la vita e le cui vicende sono connesse sia alla situazione esterna che a quella interna, come la forza delle pulsioni, il tipo dei meccanismi di difesa, il loro essere più o meno appropriati.
Angoscia reale, angoscia automatica, angoscia segnale in diverso grado e nel loro reciproco equilibrio o scompenso caratterizzano la vita mentale normale e patologica. Il più elevato livello di angoscia è l'angoscia psicotica, caratterizzata dal terrore per la disintegrazione e la perdita del Sé.Nel complesso Freud credeva che un'esperienza affettiva di una certa intensità entro il soggetto mettesse automaticamente in funzione l'angoscia ed era quindi prevalentemente, ma non esclusivamente, interessato all'angoscia vista entro la persona. Il contributo di Freud al tema dell'angoscia risentì anche del lavoro e del pensiero di altri psicoanalisti, come O. Rank, con il suo concetto di 'angoscia di separazione' (Rank 1924), poi ripreso da altri, per es. da M. Balint (1952).
Dopo Freud l'apporto probabilmente più rilevante in questo campo è quello di M. Klein (1932). L'autrice, partendo dall'analisi dei bambini, anticipò rispetto a Freud l'inizio della conflittualità intrapsichica al periodo pre-edipico. Per Klein l'angoscia è al centro dello sviluppo della vita mentale e delle posizioni che la caratterizzano, cioè la 'posizione schizo-paranoide' e quella 'depressiva', posizioni che possiedono angosce, difese e relazioni oggettuali specifiche. L'angoscia nasce dall'azione dell'istinto di morte contro i legami dell'lo con l'Eros ed è quindi, anche per questa autrice, un fenomeno fondamentale della vita intrapsichica.Le posizioni teoriche di Freud e di Klein si sono espresse e sviluppate in quella che è stata chiamata 'psicologia a una persona', un approccio che descrive i fenomeni psichici come svolgentisi nell'interno di una persona. Questa ottica ha una sua validità teorica e pratica, sottolinea l'importanza della scoperta che la vita mentale si svolge nell'interno di un individuo, che il 'mondo interno' ha una sua esistenza, sue autonome modificazioni in seguito a fantasie, sogni, pensieri che in esso si svolgono. Tuttavia, questa posizione è parziale, perché è ormai accertato che la vita psichica, per nascere e svilupparsi, necessita di una relazione interpersonale, come quella che primariamente ha luogo fra il bambino e la madre.
Per opera di studiosi, anche di orientamento assai diverso, come D.W. Winnicott, J. Bowlby, W.R. Bion e altri, si è progressivamente affermata la prospettiva che vede la vita mentale svolgersi nell'interazione fra persone, primitivamente fra due. Nel contesto della 'psicologia a due persone' l'angoscia può originarsi allorché l'oggetto non tollera l'intensità degli affetti del soggetto. Questo vale per la situazione e il setting psicoanalitici, per il rapporto madre-figlio durante lo sviluppo e per tutte le relazioni di dipendenza e interattive. In altre parole, si riconosce oggi che gli affetti, e fra essi l'angoscia, hanno un ruolo di primaria importanza nel regolare gli scambi fra le persone e che vanno valutati e compresi anche in questa dimensione interpersonale, relazionale. Del resto A. Green (1977) ha osservato che anche in Freud (1926) l'affetto non è più esclusivamente un elemento del disturbo; nel contempo in questo lavoro l'accento è spostato dal complesso edipico, e quindi dall'angoscia di castrazione, all'angoscia di separazione.
È stato anche sottolineato come in quel saggio Freud abbia cambiato radicalmente il significato degli affetti considerandoli non più come passive risposte agli stimoli e come forze disorganizzanti il comportamento, ma come aventi un loro specifico significato nelle relazioni fra le persone. Il concetto di angoscia ha seguito quindi un percorso che lo ha portato dall'essere considerato come dotato di un puro versante somatico ad assumere una dimensione psicologica, dapprima vista secondo l'angolazione delle dinamiche intrapsichiche, poi anche di quelle interattive, attuali e storiche; un itinerario parallelo all'evoluzione delle scienze psicologiche nel nostro tempo.
Il concetto dell'angoscia si trova all'origine della cosiddetta filosofia dell'esistenza, così come essa è stata elaborata dapprima, nell'Ottocento, nell'opera di S. Kierkegaard e, successivamente, sulle sue tracce, nel Novecento, in quella di M. Heidegger. In entrambi questi autori, che si possono scegliere come paradigmatici di tutto un indirizzo spirituale, l'esperienza dell'angoscia è essenziale alla costituzione del singolo e dell'esistenza autentica perché essa sola dischiude l'ambito della libertà. In Kierkegaard la libertà è il fondamento dell'imputabilità, per ogni individuo che viene al mondo, del peccato originale e, dunque, della possibilità di scegliere fra il bene e il male.
In maniera analoga, in Heidegger, è grazie alla libertà che l'esistenza può determinarsi a seguire la vocazione del suo essere autentico, 'l'essere per la morte', sfuggendo alla 'deiezione' dell'essere quotidiano, costituita da chiacchiera, curiosità, equivoco.Kierkegaard (1844) individua nell'angoscia qualcosa come il presentimento, entro l'esistenza puramente 'naturale' dell'uomo, della vita spirituale. Nello stato dell''innocenza' primigenia, che è al tempo stesso ignoranza, l'uomo non è determinato come spirito, ma è determinato psichicamente nell'unione immediata con la sua naturalità. In questa naturalità lo spirito è 'come sognante', è una dimensione evanescente che ha la consistenza del nulla. Poiché la naturalità non è l'unica determinazione dell'uomo, proprio all'interno della sua pienezza si fa strada l'esperienza inquietante del nulla. È il profondo mistero dell'innocenza: sognando lo spirito, essa proietta la sua propria realtà; ma questa realtà è il nulla e questo nulla l'innocenza lo vede continuamente 'fuori di sé' (Kierkegaard 1844, trad. it., p. 50).
Entro la naturalità dell'innocenza, la realtà dello spirito si mostra come una figura che 'tenta la sua possibilità', ma che si dilegua, non appena si tenti di afferrarla: si tratta di un nulla che può solo generare angoscia. Per questa indeterminatezza dell'oggetto cui si indirizza, l'angoscia si distingue dalla paura, è una prerogativa dell'uomo ed è assente nell'animale che, nella sua realtà naturale, non si determina mai come spirito. Alla base della propria elaborazione del concetto di angoscia, Kierkegaard pone una vera e propria antropologia: l'uomo è una sintesi di anima e corpo, ma la sintesi non è pensabile se i due elementi non si uniscono in un terzo, ossia lo spirito (p. 53).
L'angoscia è il primo affacciarsi dello 'spirituale' nell'uomo, in una dimensione che è ancora di ambiguità; è una forza ostile al rapporto fra l'anima e il corpo, ma è anche la sola capace di porre quel rapporto nei suoi giusti termini. Per tale ambiguità, l'angoscia è una sorta di continuazione di ciò che era stata, per Kierkegaard (1843), la malinconia, che non è più innocenza, ma una sorta di abulia dell'elemento spirituale, risprofondato in quella natura da cui dovrebbe emergere. Nell'ambito di tale schema antropologico, l'ambigua dialettica dell'angoscia opera già all'interno della storia di Adamo, poiché è nel peccato originale che nasce la libertà in quanto espressione più alta dell'angoscia. Il divieto biblico di mangiare dall'albero della conoscenza del bene e del male angoscia Adamo, poiché il divieto sveglia in lui la 'possibilità della libertà', la 'possibilità angosciante di potere' (trad. it., p. 54).
Con il peccato originale, l'angoscia si sdoppia, secondo Kierkegaard, in un'angoscia 'oggettiva' e in un'angoscia 'soggettiva'. Angoscia oggettiva è l'effetto del peccato nell'esistenza extraumana, il trasformarsi della sensualità in peccaminosità, dunque nella sessualità e nella storia del genere umano, l'alterazione insomma che si è compiuta nella creazione che ora 'geme'. Angoscia soggettiva è, invece, quella propria di ogni individuo della specie dopo Adamo, la 'vertigine della libertà' che coglie ciascuna esistenza consapevole del peccato. Da questo punto di vista, per Kierkegaard, come poi per l'esistenzialismo in genere, l'esperienza dell'angoscia soggettiva è decisiva per la salvezza dell'uomo; essa è la prova attraverso cui soltanto può accadere la redenzione. Kierkegaard fa sue, a questo proposito, le affermazioni di J.G. Hamann, per il quale l'angoscia nel mondo è l'unica prova nella nostra eterogeneità, 'inquietudine impertinente', 'ipocondria sacra', 'fuoco' dal quale possiamo essere salvati (p. 202). Si tratta allora di imparare a sentire l'angoscia 'nel modo giusto', ciò che significa capacità di stare nell'elemento spirituale (p. 193).
Se l'uomo fosse un animale o un angelo, non potrebbe angosciarsi; poiché è una sintesi, egli può angosciarsi, e più profonda è l'angoscia, più grande è l'uomo. Educato dall'angoscia, l'uomo ritorna libero e si apre alla possibilità dell'infinito, affrancandosi dall'inerzia della finitudine: soltanto colui che è formato dall'angoscia, è formato 'mediante possibilità' e dunque 'secondo la sua infinità'. In tal senso la possibilità è la più pesante di tutte le categorie (p. 194). L'esperienza dell'angoscia mette capo in Kierkegaard all'affermazione del momento religioso, della fede, cui può giungere solo l'individuo che non inganna la possibilità e supera la 'prudenza delle cose finite' (p. 196).Il carattere di 'situazione limite' che l'angoscia riveste in rapporto all'esistenza umana, alla quale è in grado di garantire significato e salvezza, è stato sviluppato e approfondito nella filosofia del Novecento dall'ontologia esistenziale di Heidegger (1927). Tutta la costruzione heideggeriana dell''ermeneutica' dell'esserci umano è fondata infatti sulla centralità dell'angoscia.
Dapprima, in un senso generale, l'analitica dell'esistenza afferma di volersi rifare alle disposizioni emotive come alle possibilità di accesso all'esistenza più feconde (Heidegger 1927, paragrafo 29). In realtà, in luogo di una ricognizione delle diverse possibilità emotive, Heidegger privilegia la sola possibilità dell'angoscia. La trattazione heideggeriana finisce con l'orientarsi verso l'angoscia come verso quella modalità emotiva a partire dalla quale soltanto si chiarisce il senso dell'esistenza e rispetto alla quale, dunque, si comprende il carattere derivato e secondario delle altre tonalità emotive. Quelle tonalità, per es., che sono caratterizzate dalla disposizione alla leggerezza, alla felicità, alla gioia, sono esplicitamente considerate come manchevoli, ovvero come disposizioni che guadagnano il loro significato esclusivamente dal loro riferimento all'angoscia. Al pari di quella di Kierkegaard, anche l'analisi di Heidegger pone la rilevanza filosofica del sentimento dell'angoscia, la sua crucialità quanto alla possibilità di dischiudere il senso dell'esistenza umana, nella constatazione che esso è propriamente il sentimento del 'nulla'.
L'angoscia distacca l'uomo da tutte le sue relazioni abituali, ponendo in discussione il mondo che lo circonda e lo sostiene: il nulla è l'esperienza di questo essere 'deietto', dell'essere gettati in un universo 'estraneo'. L'angoscia è inquietudine, 'rivelatrice del nulla' (Heidegger 1929, p. 16). Da una parte, dunque, l'angoscia ha il senso negativo di svelare il peso della finitudine; ciò che è la naturalità pagana dell'innocenza naturale in Kierkegaard, è in Heidegger l'inautenticità dell'essere-nel-mondo. Dall'altro lato, proprio da qui nasce, di rimbalzo, la grande funzione positiva dell'angoscia, che consiste nel richiamare l'uomo dalla dispersività di questa sua condizione deietta, tramite una vera e propria 'conversione', alla consapevolezza del suo essere autentico, delle sue possibilità.
L'esperienza dell'angoscia è ancora una volta, nel pensiero di Heidegger, un'esperienza privilegiata che, nel farsi peso della libertà originaria incontrata nel nulla, consente al singolo l'ingresso nell''autenticità', variante secolarizzata della 'fede' kierkegaardiana.All'unilaterale concentrarsi dell'esistenzialismo sull'esperienza dell'angoscia sono state mosse importanti critiche da parte, soprattutto, degli esponenti dell'antropologia filosofica d'ispirazione fenomenologica, come O. Becker, O.F. Bollnow e S. Strasser.
In quest'ambito, è stata fatta notare l'importanza cruciale per la vita dell'uomo, non solo della 'deiezione' e dell'abbandono, bensì anche dell'elevazione e della festa. In tal senso, è evidente che l'esistenzialismo, concentrandosi sulle disposizioni emotive alla depressione, sulla dimensione del singolo, sul carattere eccezionale e discontinuo dell'esperienza dell'angoscia, ha trascurato il posto che ha nella vita dell'uomo la sfera del piacere, della comunità, della tradizione e della storia, e, più in generale, ha sottovalutato l'aspetto euforico-creativo legato al sentimento del benessere.
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