anima
Nell’accezione più generica, come del resto nella coscienza comune, è il principio vitale dell’uomo (dal lat. anima, affine, come animus, dal gr. ἄνεμος «soffio, vento»), di cui costituisce la parte immateriale, che è origine e centro del pensiero, del sentimento, della volontà, della coscienza morale.
I termini con cui l’a. è designata appaiono quasi universalmente collegati con l’idea della respirazione (gr. ψυχή e ϑυμός [cfr. lat. fumus] e πνεῦμα; lat. animus, anima [cfr. gr. ἄνεμος] e spiritus; sanscr. asa, ātman [cfr. ted. Atem «alito»]; per l’ebr. ➔ oltre), della mobilità e con manifestazioni analoghe che vengono sperimentate come caratteristiche della «vita». E non v’è popolo presso il quale non si trovi la nozione di un elemento «animatore», cioè, appunto, «vivificatore» del corpo e in qualche modo distinto da esso; variano bensì le concezioni relative alla natura, al numero, all’origine e al destino delle anime. L’a. non è dapprima concepita come staccata dal corpo al quale è congiunta, come al proprio «portatore», e in cui la sua potenza si manifesta materialmente. Essa è perciò localizzata quasi in ogni parte, o funzione, del corpo, in tutto ciò che viene considerato come parte essenziale dell’io vivente: quindi anche nell’immagine, riflessa in uno specchio d’acqua o altrove o in quella che appare nella pupilla; e altresì nel nome, o nell’ombra. E la credenza in una pluralità di anime si osserva in varie parti del mondo (Africa Occidentale, Melanesia, Malesia), mentre ne rimangono tracce nella mitologia e nel folclore. Queste varie «anime» sono classificate da taluni etnologi in tipi, quali a. alito, a. vita, a. immagine o a. ombra. Alla concezione di una pluralità di a. si può ricondurre anche la distinzione, presente in civiltà religiose più complesse (in Cina, Egitto), tra a. respiro, sotto la quale si raccolgono le esperienze relative a un centro animatore sul piano della vita pura e semplice, e a. razionale, centro motore di attività psichiche diverse ma tutte più o meno gravitanti nella sfera delle esperienze relative al pensiero riflesso e alla consapevolezza vera e propria. Nel mondo etnologico la «mobilità» dell’a. – che si manifesta in immagini come quella dell’a. uccello, dell’a. farfalla, ecc. – accenna anche a una generale labilità dell’unità psichica individuale: il primitivo è soggetto alla possibilità di perdere temporaneamente la propria autonomia psichica (e quindi la propria a. nel significato arcaico dell’espressione) in occasioni diverse; in questa condizione l’individuo, anziché dominare le sollecitazioni che il mondo esterno propone alla sua coscienza, mantenendosi come unità individuale che continuamente riceve sollecitazioni e continuamente le oltrepassa per accoglierne altre, rimane chiuso nell’ambito di un unico stimolo esterno, perdendosi in esso: per es., l’automatismo mimetico di chi, ‘sorpreso’ dal movimento dei rami di un albero, imita il movimento stesso (ecocinesi), o di chi ripete passivamente una sollecitazione vocale (ecolalia). Nell’ambito di questo regime psicologico vanno ricondotti anche altri aspetti e altri momenti delle rappresentazioni arcaiche dell’anima, tra le quali la nozione dell’a. esterna. Un oggetto materiale, talvolta anche un nome segreto, più spesso un animale, sono concepiti come il ricettacolo in cui l’individuo depone l’a. o una delle sue a., assicurando con ciò la propria continuità di presenza e la possibilità di controllo della propria a., che altrimenti potrebbe «fuggire» o «essere rapita», ecc.: credenze che si collegano con il nagualismo e con il totemismo. L’idea di un’a. esterna è connessa con quelle dell’a. sogno, indipendente dal corpo e assai più di questo capace di muoversi liberamente, e dell’a. che sopravvive al corpo, dotata di poteri sovrumani e capace di fare del bene e del male. Perciò le a. dei morti sono da allontanare, con riti apotropaici: importante è specialmente impedire che esse vaghino, sia presso la tomba, sia intorno alla casa; e quindi il dar loro sepoltura, che diventa uno dei primi doveri religiosi, assicurando il loro ingresso nel «regno da cui non si ritorna» (l’arallū babilonese, l’Ade, l’Orcus, ecc.), ove vivono una loro pallida vita di ombre, sottoterra o nel lontano Occidente, dove il Sole vivificatore sparisce, o nelle fredde nebbiose regioni settentrionali. Bisogna evitare di offenderle con parole (de mortuis nihil nisi bene) o atti sconvenienti; anzi placarle e renderle favorevoli, con offerte, che hanno il potere di rinvigorirle e assicurarne la sopravvivenza come protettrici della famiglia e della casa (Mani e Lari, in Roma; culto degli antenati, particolarmente vivo in Cina; ecc.), anche perché possono predire il futuro. Ancora, la concezione dell’a. esterna e staccata dal corpo si presta a essere svolta nel senso della «trasmigrazione», non rettamente chiamata metempsicosi, nella quale è implicata l’idea che nel neonato ritorni l’a. di un progenitore, e che pertanto l’a. sia, nella perpetua mutabilità del mondo, ciò che rimane identico a sé stesso. Ma l’affermazione della sopravvivenza non coincide con quella dell’immortalità, soprattutto dell’immortalità beata. Questa appare, nel mondo della cultura occidentale, con i misteri, nei quali il rito e la conoscenza del mito assicurano agli iniziati la stessa sorte toccata al dio che – in origine divinità agraria, della vegetazione che muore e rinasce – ha conosciuto appunto la morte e la rinascita nel mondo dei celesti. Nel mondo antico le rappresentazioni del regno dei morti e del tipo di esistenza che vi conducono i trapassati accennano a una vera e propria degradazione ontologica dal livello dell’esistenza a quello, infimo, della non-esistenza; nelle tenebre i morti divengono ombre senza voce e senza consistenza vitale, vere e proprie espressioni dirette dello stato di morte. La progressiva ‘eticizzazione’ porta poi a intendere l’immortalità beata concessa agli iniziati come ricompensa di meriti, quindi di azioni buone, e a concepire il mondo sotterraneo, il Tartaro, come luogo di punizione dei malvagi. Queste concezioni non sono state senza influsso sul pensiero greco che, dai presocratici a Platone, è venuto elaborando la nozione di immortalità (➔ oltre) e ha concepito l’a., come spirito, in opposizione al corpo (σῶμα), materia e ‘sepolcro’ (σῆμα) dell’a.; onde la morte è per essa liberazione. Tuttavia il processo comincia anche in questa vita. Su tale contrapposizione infatti si fondano gli sforzi per ottenere la purificazione dell’a. mediante procedimenti anche materiali, ma variamente spiritualizzati ed eticizzati; e giungere altresì, mediante l’abbandono di tutto ciò che, anche intellettualmente, avvince l’a. al mondo, al congiungimento, anche in questa vita, e attuabile in vari modi, dell’a. stessa con il divino, comunque inteso. Su tale via procedette con rigore il brahmanesimo (identità tra ātman individuale e ātman universale, o brahman); il buddismo giunse invece alla negazione dell’a. individuale e dell’io. Nell’Antico Testamento i termini più frequentemente usati (oltre nĕshāmāh, «soffio») alludono anch’essi alla respirazione. La «carne» (bāśār) è animata dalla nefesh, che è il respiro (reso in greco con ψυχή e quindi a.), ma che significa piuttosto la vita, tanto da essere usato in luogo di pronome personale o riflessivo. Ruaḥ, reso in greco con πνεῦμα e quindi con «spirito», indica anch’esso l’alito vitale, comunicato agli uomini da Dio; sotto l’influsso della cultura greca, nei libri dei Maccabei e della Sapienza, πνεῦμα diventa lo spirito divino e ψυχή l’elemento superiore nell’uomo, che nella Sapienza è detto immortale. Anteriormente al libro della Sapienza non si trova nell’Antico Testamento una dottrina dell’immortalità dell’a.: i testi parlano solo di un’esistenza umbratile condotta dai molti nella sotterranea shĕ’ŏl; si tratta dunque soltanto di una certa sopravvivenza dell’uomo, senza alcuna idea di premi o castighi. Anche nel Nuovo Testamento manca un’esposizione dottrinale circa l’a., e la terminologia greca riproduce, in sostanza, quella dell’Antico Testamento; ma πνεῦμα, là dove non designa lo spirito divino, indica le attività propriamente spirituali. Poiché s. Paolo usa, per designare le facoltà intellettuali, anche il termine νοῦς («mente»), talvolta contrapposto e talvolta unito a πνεῦμα, sorge il problema se almeno egli, tra gli scrittori del Nuovo Testamento, abbia accolto, e con piena informazione, la tricotomia platonica di «mente» (νοῦς), «anima» (ψυχή) e «carne», limitandosi a sostituire il primo elemento con lo «spirito» (πνεῦμα), come fecero alcuni pensatori cristiani. Ma, nel complesso, anche nel Nuovo Testamento è difficile enucleare una dottrina dell’a. e della sua immortalità, mentre in primo piano si pone il problema della sopravvivenza dell’uomo in una prospettiva escatologica in cui la salvezza collettiva ha la priorità rispetto all’immortalità dell’a. individuale e ai suoi immediati destini dopo la morte. La Chiesa cattolica non si è preoccupata tanto di far propria una determinata dottrina, quanto di tenere fermi alcuni principi essenziali, quali la natura spirituale e immortale dell’a. individuale, creata da Dio, e il diverso destino di ciascuna dopo la morte, in base ai meriti acquistati in vita. Da ciò deriva la principale preoccupazione e considerazione per la salvezza delle anime. Perciò sebbene quei principi siano, dal punto di vista cattolico, meglio tutelati da s. Tommaso, la Chiesa si è soprattutto preoccupata di condannare dottrine a essi contrarie. Sono stati ripudiati: l’emanatismo, di gnostici e tardi priscillianisti (l’a. sarebbe parte della sostanza divina, anzi una con il Verbo, quindi increata); la preesistenza dell’a., la sua identità di natura con gli angeli e la sua unione con il corpo conseguenza di un decadimento (dottrina di Origene); il traducianismo (l’a. è generata dai genitori nell’atto del concepimento) sostenuto da Tertulliano (per il quale l’a. è materiale) e che fu ripreso modernamente nel generazionismo di J. Frohschammer (condannato, 1847), e da A. Rosmini; la duplicità delle a., sia nel senso del dualismo manicheo (un’a. buona e una malvagia, in lotta nell’uomo) sia come continuazione (in Fozio) della tricotomia platonica; le dottrine di Pietro di Giovanni Olivi, il quale, contro Tommaso d’Aquino, negava che l’a. razionale o intellettiva fosse la forma del corpo (quest’ultima condanna del concilio di Vienne, 1311, fu ripresa dal V concilio lateranense che condannò, 1513, altresì gli averroisti e gli alessandristi; come fu condannato poi, 1857, A. Günther); l’opinione che il feto nel grembo materno non sia dotato di a. razionale (condanna del 1679), e varie opinioni, connesse con tutto il suo sistema filosofico, di Rosmini.
L’elaborazione del concetto dell’a. come ‘soffio’ vitale è contemporanea allo svolgersi della riflessione filosofica greca. Anassimene considera l’aria quale principio del cosmo proprio in quanto la concepisce come soffio vitale che tiene insieme il corpo del mondo. Parallelamente, la tradizione orfico-pitagorica asserisce il principio della sopravvivenza dell’a. al corpo, e del suo passaggio dall’uno all’altro corpo in rinnovate esistenze. A tale concezione si oppone l’atomismo democriteo, che considera anche l’a. come un aggregato di atomi, più piccoli, lisci e mobili degli altri, destinato a dissolversi dopo la morte. Questa dottrina viene in seguito ripresa da Epicuro e dagli epicurei, i quali vedono in essa il più sicuro argomento per affrancarsi da ogni timore circa il destino oltremondano dell’anima. La fede orfico-pitagorica nella sopravvivenza dell’a. e nella metempsicosi è poi nuovamente affermata e approfondita da Platone. Caratteristico di Platone è il collegamento del problema dell’immortalità con quello gnoseologico: l’a. può conoscere le idee, forme ideali di assoluta realtà, solo per reminiscenza. Dal punto di vista della struttura interna, poi, Platone considera l’a. divisa in una parte razionale e in una irrazionale, a sua volta scissa in a. irascibile e in a. concupiscente: tripartizione alla quale corrisponde poi quella delle classi nello Stato tratteggiata nella Repubblica (➔). Altrove (per es., nel Fedone ➔) egli tende ad attribuire tutto l’elemento irrazionale e passionale al corpo, considerando l’a. come puramente razionale, quando dal corpo si stacchi o comunque lo domini escludendo ogni sua influenza. Il nesso dell’a. col corpo è invece ritenuto essenziale da Aristotele, che lo riconduce a quello della «forma» e della «materia» nella «sostanza», e che quindi nega la sussistenza dell’a. indipendente dal corpo. Essa dispiega la sua attività in certe proprietà corrispondenti ai gradi dello sviluppo vitale, e da queste si denomina; le nutritive nelle piante (a. vegetativa), le sensitive e motrici negli animali (a. sensitiva), le intellettive nell’uomo (a. intellettiva); le quali non sono separate tra di loro, le più complesse includendo le più semplici. Dalla concezione aristotelica dell’a. come forma del corpo deriva la grande difficoltà cui si trovò di fronte il pensiero cristiano quando accolse in sé l’aristotelismo con l’introduzione come testi, nella facoltà delle arti, delle opere di Aristotele (circa la metà del sec. 13°). Il grande sforzo di Tommaso d’Aquino fu allora quello di interpretare i testi aristotelici in modo da conciliarli con la dottrina cristiana dell’a. immortale; e perciò egli dovette combattere contro la psicologia dell’agostinismo (➔), sfociata poi nelle proposizioni di Olivi (➔ sopra), e contro la tradizione dell’averroismo latino, capeggiata a Parigi da Sigieri di Brabante, più fedele alle dottrine di Aristotele (così come più tardi nel Rinascimento lo furono Pomponazzi e gli altri alessandristi). Il problema dell’a. nel suo rapporto col corpo viene posto in modo nuovo nella filosofia cartesiana: dedotta dal cogito – e dalla sua autonomia rispetto a ogni attività sensibile – l’esistenza di una res cogitans di cui il pensiero è manifestazione, questa si pone come sostanza, caratterizzata quale nettamente distinta e contrapposta alla res extensa in cui il corpo è fatto rigorosamente rientrare. Tutto lo sviluppo del pensiero posteriore, che, attraverso l’occasionalismo e l’empirismo, culmina, da un lato, in Leibniz e, dall’altro, in Berkeley, viene a risolvere l’Universo in una molteplicità di a., per ciascuna delle quali la totalità delle cose s’identifica con la rappresentazione che essa ne ha. Ma Hume rivolge la stessa analisi soggettitivistica ed empiristica che già aveva condotto alla risoluzione della res extensa, dimostrando come neppure questo tipo di sostanza sia pensabile, quale entità permanente e distinta dall’infinito variare delle sensazioni e degli stati di coscienza. Il concetto dell’a. si dissolve in tal modo completamente in quello della coscienza soggettivisticamente considerata, ossia dell’io. Concezione questa che sostanzialmente si ritrova nelle filosofie idealistiche, dai postkantiani in poi. Kant invece seguita a considerare l’a. e la sua immortalità, concepita in senso tradizionale, come uno dei postulati che la ragione pratica deve presupporre, pur senza poterli dimostrare, ai fini dell’accordo oltremondano tra virtù e felicità. Nel pensiero contemporaneo – nelle correnti che ancora accettano una problematica dell’a. – si hanno soluzioni ed esiti diversi, mentre altri orientamenti speculativi negano la stessa proponibilità del problema.