VADORI, Anna (Annetta)
– Nacque a Venezia in una famiglia borghese da Vincenzo e da Speranza Sporeno, il 1° settembre 1761.
Poco sappiamo della sua istruzione che dovette comunque esser accurata, come dimostrano i suoi discorsi, gli scritti, le traduzioni e le composizioni poetiche a cui amava dedicarsi; tra le prime, un sonetto per le nozze di Gabriele Dondi dell’Orologio con Elisabetta Marcello. Sulla sua formazione risultò determinante la figura di Alberto Fortis, scienziato, giornalista collaboratore dell’Europa letteraria di Domenico ed Elisabetta Caminer. Attraverso di lui si avvicinò alle idee dell’Illuminismo e a quel milieu intellettuale veneziano vivace e progressista che le condivideva e le diffondeva, entrando in relazione con Elisabetta Caminer, Tommaso Gallino, Giuseppe Compagnoni.
Fu in questo ambiente probabilmente che incontrò il nobile Mattia Butturini, di Salò, avvocato, poeta e librettista presso il teatro di S. Benedetto, con il quale intrecciò una relazione amorosa. I due si sposarono a Venezia il 1° giugno 1785, all’insaputa del padre di lui e senza il suo consenso. Si trattò di un matrimonio di breve durata, se è vero che poco più di un anno dopo, l’8 agosto 1786, Vadori avanzò richiesta di annullamento al tribunale ecclesiastico, che venne concesso con sentenza del 14 marzo 1787 per «impotentia respectiva naturalis et insanabilis» (Archivio storico del Patriarcato di Venezia, Curia patriarcale Venezia, sez. antica, Filciae Causarium, b.155).
I primi anni Novanta la videro attiva frequentatrice del Circolo giacobino del farmacista Vincenzo Dandolo, che riuniva i più importanti democratici veneziani. Gli informatori della polizia, che li tenevano sotto controllo, la descrivono nel 1792 come donna «di moltissimo e singolare ingegno», che «non può amare o degnarsi di adottare opinioni comuni», dalla conversazione «vivacissima e amabilmente strana»; sincera «democratica»; caratteristiche tutte, che intrecciate a un aspetto bello e «piacevole», ne avevano fatto «l’anima stessa del casino» (Archivio di Stato di Venezia, Inquisitori di stato, b. 1952).
Negli anni della Campagna d’Italia, all’arrivo delle armate napoleoniche, fu convinta sostenitrice della Municipalità che si instaurò a Venezia nel maggio del 1797. Assunse un ruolo attivo nella Società di Pubblica Istruzione, aperta per la prima volta anche alle donne, organismo finalizzato a diffondere i nuovi principi democratici e a recepire le istanze della popolazione, di cui facevano parte vari letterati, e dove Ugo Foscolo ricopriva la funzione di segretario.
Vi figuravano iscritte poche donne, tra cui Gioseffa Cornoldi Caminer, redattrice di La donna galante ed erudita. Giornale dedicato al bel sesso (1786), e Cecilia Tron, cognata di Caterina Dolfin Tron, «prima ex-patrizia a dare il pubblico esempio di una abiurazione solenne del passato suo rango e nobiltà» e per questo accolta per acclamazione (Prospetto delle sessioni della Società d’Istruzione Pubblica di Venezia, 1797, 18 fruttidoro).
La sua attività è documentata anche dalla traduzione dell’opera di Aubert du Bayet, Rapporto d’una festa civica celebrata in Costantinopoli da’ Francesi e Veneziani riuniti per la felice rigenerazione di Venezia (1797), da lei letta in una seduta dell’assemblea e pubblicata per deliberazione della stessa.
In questa sede si esplicò anche la sua battaglia per i diritti delle donne. Il vento della Rivoluzione aveva infatti innescato profonde aspettative di libertà e riconoscimento dei diritti in una società in cui molte donne occupavano già spazi importanti in campo culturale, nei salotti, nelle riviste, avviando nelle varie Repubbliche del triennio giacobino un’intensa stagione di dibattiti, da più parti considerata il punto d’avvio del movimento di emancipazione in Europa. Come già avvenuto nella Parigi rivoluzionaria con Olympe de Gouges, nelle maggiori città italiane attraversate dalle truppe napoleoniche varie donne presero la parola (o la penna) per denunciare la subordinazione femminile nel passato regime, per rivendicare un’inclusione nella cittadinanza che pure assumeva connotazioni e sfaccettature diverse, incentrate ora sul diritto delle donne all’istruzione, ora su una riforma morale, ora sul riconoscimento sociale della funzione materna in una nuova famiglia coesa da legami affettivi, presupposto della rigenerazione sociale e fondamento stesso dello stato democratico.
Particolarmente attive in area padana furono Fulvia Mattei, autrice di Dell’educazione che si deve dare alle donne, animatrice della Società patriottica di Verona e di altre società venete, e la mantovana Carolina Lattanzi, autrice di La schiavitù delle donne.
Questo tema aveva suscitato dibattiti anche a Venezia, in un terreno reso fertile dalla presenza di autorevoli letterate e salonnières, come Giustina Renier Michiel e Isabella Teotochi Albrizzi. Erano stati pubblicati alcuni opuscoli anonimi, come i Pensieri della libera cittadina I.P.M. alle sue concittadine, o le Istruzioni d’una libera cittadina alle sue concittadine, cui avevano fatto seguito interventi e polemiche. La discussione era approdata anche nella Società di Pubblica Istruzione, con l’intervento di Giorgio Ricchi, sostenitore dei diritti delle donne (Discorso sull’influenza che possono avere le donne sullo sviluppo dello spirito pubblico, in Prospetto delle sessioni della Società d’Istruzione Pubblica di Venezia, cit., 13 fruttidoro).
Ma non erano mancate posizioni decisamente contrarie, come quella del parroco don Antonio Zalivani, autore di un Catechismo cattolico-democratico, intervenuto a più riprese (il 14, il 16, il 19 termidoro) per denunciare la «naturale vanità delle donne» e la loro estraneità allo spirito pubblico e alla politica. A lui erano andati gli applausi dell’assemblea, suscitando la reazione indignata di Vadori. Salita alla tribuna il 24 termidoro per pronunciare il solenne giuramento di fedeltà alla patria («viver libera o morire»), di cui non sfugge la portata simbolica, aveva denunciato il tentativo di «escludere dall’esercizio dei diritti comuni le donne», con un appassionato discorso nel quale aveva evocato le virtù delle donne (offuscate da una rappresentazione unilaterale dei loro vizi), i meriti di tante eroine della storia (Filippini, 2006). L’assemblea l’aveva acclamata, decretando la pubblicazione del suo intervento: Discorso della cittadina Annetta Vadori pronunciato nella Società di Pubblica Istruzione in occasione che fu invitata a pronunciare il giuramento solenne: vivere libera o morire (1797).
A questo importante riconoscimento non era seguita però nessuna concreta iniziativa o progetto di riforma del governo, con la conseguente delusione di molte aspettative femminili.
Da questa constatazione prende spunto La causa delle donne. Discorso agli italiani della cittadina***, pubblicato in forma anonima, ma da più parti attribuito a Vadori. Indirizzato ai «Cittadini e fratelli carissimi», è una severa denuncia delle loro incongruenze politiche, una stringata confutazione storico-filosofica della presunta inferiorità delle donne, la coniugazione dei principi di uguaglianza con le differenze di genere nel superamento di ogni discriminazione; si conclude con un’appassionata rivendicazione di diritti civili e politici, con il conseguente pieno diritto di accesso delle donne a tutte le cariche elettive.
«Dunque noi abbiamo un vero diritto di esser a parte di tutti gli affari pubblici dipendenti dallo spirito e dall’intelletto [..]. Abbiamo dunque diritto di assister alle vostre adunanze, abbiamo diritto di concorrere alla formazione delle leggi, alle quali dobbiamo del pari assoggettarci; abbiamo diritto di sedere nei tribunali, nei magistrati, nei direttori esecutivi; abbiamo diritto di andare ai consolati, alle commissioni, alle ambasciate; abbiamo diritto di maneggiare le finanze; di governar le provincie; di regolare gli eserciti; abbiamo diritto di approvare e riprovare tutti i trattati nazionali o di commercio o di alleanza o di guerra o di pace».
Il trattato di Campoformio, con l’arrivo degli austriaci, segnava, qualche mese dopo, la fine della breve esperienza democratica e dell’indipendenza secolare di Venezia.
Come gli altri democratici, Vadori si trovò costretta a lasciare la città, iniziando da esule una vita vagabonda e movimentata anche dal punto di vista sentimentale. Riparata dapprima a Milano con l’avvocato Gallino, consigliere di Stato in quella città, con il quale aveva stretto un’intima amicizia, si separò presto da lui nel 1799 per riunirsi ai rifugiati cisalpini a Parigi, entrando a far parte di quel gruppo di democratici che teneva alta in città l’attenzione politica sulla situazione italiana: Giovanni Pindemonte, Giuseppe Ceracchi, Saverio Scrofani, Francesco Gianni, con cui condivideva l’abitazione. Il suo salotto divenne punto di aggregazione di questi fuoriusciti e di importanti personalità del tempo (come il generale Louis-Alexandre Berthier). Entrata in relazione con la madre di Napoleone, Letizia Bonaparte, di cui frequentava il salotto, dedicava a lei, «invidia delle madri», il sonetto I Fiori del primo dell’anno. Arrestata e interrogata dalla polizia a seguito della congiura Ceracchi, il 22 vendemmiaio, fu subito rilasciata, avendo dimostrato la sua estraneità al complotto antinapoleonico, ma venne costretta a lasciare la Francia, pare per volere stesso di Napoleone, che incontratala presso la madre avrebbe detto: «Ce n’est assez de cette italienne. Il faut la renvoyer», affidandola al generale Pasquale Antonio Fiorella per il rimpatrio in Italia (Rao, 1992, pp. 488 s.).
Al suo rientro, secondo la testimonianza dell’ufficiale napoleonico Pietro Grisetti, si sarebbe rifugiata per breve tempo a Pavia, presso l’ex marito Butturini chiamato alla cattedra di letteratura greca della città. Ma questa testimonianza non è suffragata da altre fonti. È certo che negli anni successivi la troviamo nuovamente a Milano, animatrice di uno dei più importanti salotti della città, luogo di incontro di esuli veneti (come Cecilia Tron), di artisti e letterati famosi, tra cui lo scrittore Giovanni Rosini, Flaminio Massa (redattore del Monitore Cisalpino), Melchiorre Cesarotti, che in una lettera a Vincenzo Monti del 20 gennaio 1807 raccontava di aver sentito questa dama «graziosa, colta e spiritosa» declamare con entusiasmo la sua poesia, La spada di Federico, cosa di cui Monti stesso la ringrazia in una lettera, a riprova di un lungo legame di amicizia.
Il 26 giugno 1805 (anno che vede l’entrata in Milano dell’imperatore Napoleone) sposò uno degli scienziati e uomini politici più in vista del tempo: il medico ‘giacobino’ Giovanni Rasori, promotore della teoria del ‘controstimolo’, protomedico della Repubblica italiana, chiamato alla clinica medica all’ospedale Maggiore di Milano, che era rimasto vedovo con una figlia. Un matrimonio, anche questo, poco felice e di brevissima durata, sebbene la separazione non venne formalizzata in divorzio.
Le sue caratteristiche di donna colta, libera, avvenente, le scelte di vita anticonformiste, le molte relazioni intellettuali, affettive, politiche, la resero facile preda delle invettive dei conservatori, assunta a simbolo della donna dissoluta e depravata, oggetto di attacchi furiosi dei benpensanti ma anche di alcuni democratici a lei avversi per motivi personali o per divergenze politiche. Tra questi ultimi, l’ex amico Foscolo, che ne traccia un impietoso ritratto nelle vesti di una vecchia libidinosa nel libretto satirico Ipercalisse (scritto a più riprese tra il 1810 e il 1815) e pubblicato sotto lo pseudonimo di Didimo Chierico (1810), non perdonandole di aver accolto nel suo salotto milanese tanti suoi avversari. «Aspasia», «Aspasietta veneziana» è l’appellativo più benevolo assegnatole da Rosini, ripreso e divulgato dallo storico Guido Bustico (1910; 1917). In realtà si trattò di una donna coraggiosa, che restò fedele alle proprie idee e principi di libertà sul piano sia personale sia politico, disposta a pagarne le conseguenze.
Alla caduta di Napoleone, il nuovo clima della Restaurazione costituiva per lei, come per molti democratici, l’inizio di un duro periodo di emarginazione e povertà, segnato anche dall’arresto e dalla detenzione di molti suoi amici (tra cui Rasori).
Monti, in una lettera a Urbano Lampredi del 22 marzo, racconta di «miserrime sue circostanze» a Milano, che la indussero a cercare lavoro come istitutrice a Napoli presso i principi Pignatelli. Un impiego, pare, non duraturo. Morì sola e in miseria in quella città il 20 novembre 1832.
Fonti e Bibl.: Venezia, Archivio storico del Patriarcato, Curia patriarcale Venezia, sez. antica, Filciae Causarum, b. 155, e Documentazione Curia, Sentenziarum, sez. antica, b. 11-15; Archivio di Stato di Venezia, Inquisitori di Stato, b. 1952. Cfr. inoltre Prospetto delle sessioni della Società d’Istruzione Pubblica di Venezia, Venezia 1797. L’Archivio del Patriarcato di Venezia contiene gli atti inerenti all’annullamento del matrimonio, con relativa istruttoria e sentenza, che rivela la precocità di questo atto rispetto a quanto asserito da vari biografi del primo Novecento. L’attività politica di Vadori nella Muncipalità provvisoria si può ricostruire dai verbali delle sessioni della Società d’Istruzione Pubblica di Venezia, dove sono riportati interventi suoi e di altri democratici sulla questione dei diritti delle donne. Notizie frammentarie della sua attività e della sua figura sono messe a fuoco per il periodo di fine Settecento da un informatore degli inquisitori di Stato, trascritte da A. Bazzoni, Un confidente degli inquisitori di Stato di Venezia. Memorie e documenti, in Archivio storico italiano, XVII (1873) pp. 380-383. Per l’epoca successiva sono note da alcune biografie e da vari epistolari di amici o conoscenti, spesso più attenti alla vita privata che non all’attività culturale e politica; si segnalano tra questi Lettere di illustri italiani a Mario Pieri, a cura di D. Montuori, Firenze 1863, p. 181; V. Monti, Lettere inedite e sparse raccolte, ordinate ed illustrate da A. Bertoldi e G. Mazzatinti, Torino 1893-1896, I, pp. 380 s., II, p. 396; G. Gambarin, Melchiorre Cesarotti e Vincenzo Monti, Torino 1915, pp. 7 s. Tra la bibliografia, cfr. in particolare: N.M. Filippini, Figure, fatti e percorsi di emancipazione femminile (1797- 1880), in Storia di Venezia. L’Ottocento, a cura di S. Woolf, Roma 2002, pp. 453-488; Ead., Donne sulla scena politica: dalle Municipalità del 1797 al Risorgimento, in Donne sulla scena pubblica. Società e politica in Veneto tra Sette e Ottocento, a cura di N.M. Filippini, Milano 2006, pp. 81-137. Si segnalano inoltre: A. Rao, Esuli. L’emigrazione politica italiana in Francia (1792-1802), Napoli 1992, pp. 488 ss. (che riporta particolari del suo interrogatorio a Parigi per la congiura Ceracchi); G. Pillinini, 1797: Venezia giacobina, Venezia 1997, pp. 81-88; E. Strumia, «Rivoluzionare il bel sesso». Donne e politica nel triennio repubblicano (1796-1799), Napoli 2011 (che ricostruisce il panorama delle rivendicazioni delle donne in Italia). Vanno menzionati anche G. Chiarini, La vita di Ugo Foscolo, Firenze 1910, pp. 216, 328; R. Barbiera, Il salotto della contessa Maffei, Milano 1925, pp. 29 s. (con riferimenti al suo salotto milanese), e i saggi di Guido Bustico, che presentano però varie imprecisioni e inesattezze, oltre a un approccio scandalistico, purtroppo ripresi anche in successive scritture: Un’Aspasia del primo Regno Italico, Domodossola 1910, e Il salotto milanese di un’Aspasia veneziana del periodo napoleonico, in Nuovo archivio veneto, XXXIII (1917), pp. 370-378.