Annalistica e letteratura tecnica nell'eta di Augusto
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Quadro grandioso della vicenda storica di Roma, degli uomini che hanno costruito un Impero, dell’identità profonda di un’esperienza senza precedenti nel mondo antico, le Storie di Livio influenzano come poche altre opere antiche l’immaginario della cultura europea. Ad esse coeva, e non meno significativa, l’opera di Vitruvio è l’unico grande manuale di architettura che ci sia giunto dal mondo antico, miniera di dati e informazioni su un’arte che i classici hanno insegnato al futuro.
Tito Livio vive per quarant’anni all’ombra di Augusto, dedicandosi infaticabilmente alla redazione di una monumentale opera storica in quasi 150 libri, che traccia le vicende di Roma dalla mitica fondazione sino agli anni dell’autore. La sua è la storia di una decadenza: Roma è stata capace per metà della sua storia di costruire un impero, per l’altra metà di distruggerlo. Di questa immensa produzione restano i libri sulla storia più antica della città, da Romolo alla prima espansione in Oriente: a Livio dobbiamo così le storie dei re, quelle degli eroi, dei grandi generali e dei valorosi soldati, delle lotte tra patrizi e plebei, della conquista del mondo, in quadri di grande efficacia narrativa che hanno orientato per secoli la percezione di Roma nell’immaginario europeo.
Tito Livio nasce a Padova nel 59 a.C.; la città è nota nell’antichità per l’attaccamento ai costumi tradizionali, ed è possibile che questo tratto abbia influenzato l’atteggiamento con cui il futuro storico guarderà alle vicende di Roma. A partire dalla fine degli anni Trenta Livio è a Roma, e qui rimane quasi tutta la vita. Perduta è la produzione giovanile: Seneca allude a dialoghi filosofici, o storico-filosofici, di cui non è possibile ricostruire il contenuto. Per noi, Livio è l’autore di una monumentale opera in 142 libri, gli Ab urbe condita libri (“libri dalla fondazione della città”), che ripercorrono la storia di Roma dalla mitica fondazione di Romolo (collocata sull’autorità di Varrone nel 753 a.C.) al 9 a.C. Poiché nell’opera si coglie una scansione in gruppi di dieci libri (decadi o deche), si è supposto che l’intento di Livio fosse quello di giungere a 150 volumi, arrestandosi al 9 d.C. (disfatta di Teutoburgo) o alla morte di Augusto, nel 14 d.C., e che tale programma sia stato stroncato dalla scomparsa dello storico.
Le dimensioni gigantesche dell’opera liviana ne rendono sin da subito problematica la circolazione; Livio è naturalmente presente nelle biblioteche pubbliche (dalle quali l’imperatore Caligola voleva bandirlo per la sua verbosità), ma alla fine del I secolo il poeta Marziale confessa che la sua casa non riesce a contenerlo tutto – e presto inizia la compilazione di sintesi ed estratti. Brevi compendi dei singoli libri, le periochae, sono giunti sino a noi; abbiamo invece integralmente i libri 1-10 (dalla fondazione di Roma alla fine della terza guerra sannitica, nel 293 a.C.) e 21-45 (dallo scoppio della seconda guerra punica, nel 218 a.C., al 167 a.C., anno del trionfo di Lucio Emilio Paolo sulla Macedonia). Come di norma nella storiografia latina, la suddivisione della materia assegna un rilievo crescente alla contemporaneità: i primi 45 libri ripercorrono quasi 600 anni di storia, i circa 100 successivi coprono poco più di un secolo e mezzo; del resto Livio sa bene che i suoi lettori hanno fretta di giungere al resoconto degli eventi contemporanei, affermazione che apre un interessante spiraglio sulla fruizione della letteratura storiografica da parte dei contemporanei.
Livio mette mano al suo progetto all’indomani della battaglia di Azio, negli anni in cui la posizione di Augusto si va progressivamente consolidando e si avvia la lunga transizione dalla repubblica al principato. Lavora dunque all’ombra del principe, con il quale stringe un’amicizia personale e che gli affida tra l’altro l’educazione del futuro imperatore Claudio. Forse in seguito alla morte di Augusto decide di tornare a Padova, dove muore nel 17.
L’opera liviana è preceduta da un’ampia prefazione, essenziale per chiarire i presupposti ideologici dai quali muove l’autore. Livio condivide il paradigma, da tempo egemone nella cultura romana, che interpreta la storia di Roma come un percorso a parabola che ha imboccato la sua fase discendente: la crisi si è manifestata dapprima lentamente, poi in forme sempre più gravi, sino all’attuale cronicizzazione del male, “nella quale non tolleriamo né i nostri vizi né i rimedi apprestati per combatterli”. La scelta di prendere le mosse dal remoto passato della città si giustifica perciò anche col desiderio di allontanare lo sguardo dai mali presenti. Altrettanto comune nel pensiero storiografico latino è la diagnosi che Livio propone per la crisi, legata al diffondersi di avidità e amore per il lusso, e dunque di un individualismo che ha rimpiazzato l’antica etica civica, la subordinazione dell’individuo alla collettività, la prevalenza dell’interesse pubblico su quello privato; d’altra parte, Livio rivendica con orgoglio il carattere tardivo della degenerazione: in nessun’altra città povertà e parsimonia sono state tenute così a lungo in onore, nessun’altra esperienza storica presenta la ricchezza di vicende esemplari quanto quella romana.
Il compito che Livio si propone è allora quello di illustrare con quali uomini e attraverso quali costumi Roma abbia costruito un impero e lo abbia poi mandato in rovina; lo scopo – oltre al diletto del lettore – è quello di fornire una galleria di esempi positivi e negativi, in particolare a quanti ricoprono ruoli di governo: una funzione di insegnamento politico riconosciuta all’attività storiografica già nella cultura greca.
Per quanto possiamo ricavare dalla porzione giunta fino a noi, Livio si attiene fedelmente a queste indicazioni programmatiche. La storia arcaica di Roma appare sotto una luce largamente positiva; Livio conosce, e documenta, gli scontri anche drammatici tra patrizi e plebei, le lotte politiche legate ai mutamenti istituzionali, ma questi aspetti non compromettono il quadro complessivo: sono crisi di crescita, superate ogni volta attraverso sintesi nuove e progressive, e che non intaccano in ogni caso la diffusa moralità, fatta di sobrietà, lealtà verso alleati e nemici, dedizione allo stato, valore militare, scrupolosa osservanza del culto religioso, rispetto verso l’autorità, sia in ambito politico che privato e familiare. La posizione di Livio rispetto ai conflitti dell’età monarchica e poi della repubblica coincide con quella dell’aristocrazia moderata: la ricerca di forti poteri personali è condannata, come nell’esperienza del decemvirato e prima ancora nel caso dell’ultimo Tarquinio; il senato è il punto di equilibrio dello stato, il baluardo contro tentazioni autoritarie o derive plebiscitarie; al contrario, i tribuni della plebe assumono spesso atteggiamenti demagogici: gli interessi popolari sono meglio tutelati da aristocratici che ne assumono la rappresentanza, ma senza mettere in questione i rapporti di potere fra i ceti; la concordia interna è esaltata come valore assoluto e come premessa ai successi militari: di conseguenza, si condanna qualsiasi iniziativa che rischi di minare la compattezza del corpo civico.
Livio giustifica pressoché invariabilmente le ragioni dei Romani in politica estera: l’espansionismo di Roma non è mai dettato da sete di potere; le guerre sono dovute alle provocazioni e alle violazioni del diritto da parte dei nemici, o alla necessità di soccorrere alleati in difficoltà oppure di rispondere a richieste di aiuto. Il valore militare dei Romani è indiscusso, ma non disgiunto dal rispetto della giustizia e dall’osservanza del culto: perciò è favorito dagli dèi, che proteggono l’impero ma sono pronti a punire la città quando si sia verificata una inadempienza; le sconfitte sono dovute alla sconsiderata iniziativa dei singoli, al mancato rispetto della disciplina militare, al desiderio di affermazione individuale, ma l’esercito è nel complesso un corpo sano e coeso.
La superiorità etica, oltre che militare, di Roma spiega anche il prestigio di cui essa gode, secondo Livio, agli occhi dei sudditi: questi accettano di buon grado la sottomissione, che del resto garantisce loro pace, sicurezza e dignità, quando non chiedono essi stessi di entrare nell’impero: è il caso dei Falisci, che si consegnano spontaneamente a Furio Camillo dopo che quest’ultimo si è rifiutato di prendere la loro città con il tradimento, riconoscendo “che vivremo meglio sotto le vostre leggi che rimanendo autonomi”. Questa visione edulcorata mutava forse nei libri relativi alle vicende più recenti; nella prefazione Livio lamenta che l’impero “soffre ormai per la sua stessa grandezza” e che Roma, un tempo egemone, “si consuma con le sue stesse forze”, ma in nessun momento la politica espansionistica è messa in dubbio o contestata.
Quando Livio inizia a scrivere Roma è ancora formalmente una repubblica, anche se Augusto va progressivamente consolidando il proprio primato all’interno dello stato. Lo storico ha verso il principe un atteggiamento deferente, ma non servile: nel quarto libro riferisce le gesta di Cornelio Cosso attribuendogli la carica di tribuno militare, ma subito dopo aggiunge che Augusto, “fondatore e restauratore di tutti i templi” gli ha dato notizia di un’iscrizione, posta nel santuario di Giove Feretrio, che fa di Cosso un console. Livio si rimette all’autorità del principe, ma non censura la versione tradizionale; d’altra parte, esalta la politica di restaurazione dei templi di cui Augusto andava evidentemente molto fiero, tanto da dedicarle ampio spazio nelle sue memorie. Nella prefazione, come si è visto, Livio è lontanissimo dall’idea di un ritorno dell’età dell’oro proclamata dalla poesia di stretta osservanza augustea: l’impero è un gigante fragile, Roma una città viziosa e corrotta. Alcuni libri più tardi, però, esalta la ritrovata concordia e “l’amore per la pace”, in consonanza con altrettante parole d’ordine del nascente principato.
La ricostruzione del pensiero di Livio sul collasso della repubblica aristocratica è resa più difficile dalla perdita delle deche relative alla storia recente; sappiamo però che lo storico portava alle stelle Pompeo, l’avversario di Cesare, e parlava con grande rispetto di Bruto e Cassio, leader della congiura che aveva liquidato quest’ultimo (e perciò definiti “parricidi” da Augusto, che di Cesare era figlio adottivo). Ancora a proposito di Cesare Livio scriveva di non sapere se la sua nascita si fosse risolta in un bene o in un male per lo stato (ma è anche possibile che il giudizio si riferisse a Gaio Mario): una valutazione ponderata e certo tutt’altro che “allineata”. Del resto, alludendo alle nostalgie repubblicane di Livio il principe stesso lo definiva bonariamente “il pompeiano”. Ma non c’è contraddizione tra quelle nostalgie e l’amicizia con Augusto: Livio crede a lungo all’immagine che questi intende accreditare di sé come restauratore della repubblica; a patto di prestare fede alla propaganda del regime, tra repubblicanesimo e fedeltà ad Augusto la conciliazione è tutt’altro che impossibile. Inoltre, Augusto è il promotore di una restaurazione morale che non può dispiacere a chi confessa di avere un animus antiquus, una incoercibile ammirazione per il passato.
L’ottimismo di Livio dovette peraltro attenuarsi con gli anni. I libri a partire dal 121 sono pubblicati dopo la morte di Augusto: erano quelli in cui si raccontava l’ascesa del giovane Ottaviano, una pagina torbida sulla quale il principe glissava volentieri, e questa circostanza dovette essere decisiva; anche la stretta dell’ultimo Augusto contro il dissenso intellettuale ha una parte nella scelta di Livio, così come in quella di concludere non a Roma, ma nella città natale una vita dedicata interamente alla storia.
A fronte dell’enorme influenza che il suo trattato ha avuto sulla cultura europea dell’età moderna, l’autore del De architectura resta in larga misura uno sconosciuto: viene stimato da Cesare, ed è forse l’artefice del ponte di legno costruito sul Reno durante la campagna gallica di quest’ultimo, un gioiello di ingegneria; Augusto lo incarica della realizzazione e manutenzione delle macchine da guerra e gli assegna un vitalizio; la composizione del De architectura, dedicato al principe, inizia prima del 33 a.C. e prosegue nel decennio successivo. Quello di Vitruvio è tra i pochi trattati tecnici che ci siano giunti dal mondo romano (se si eccettuano grammatiche e manuali di retorica). I primi due libri si occupano di materiali per l’edilizia urbana; terzo e quarto sono dedicati agli edifici sacri, il quinto a quelli pubblici; all’edilizia privata e alla decorazione Vitruvio consacra i libri sesto e settimo, all’idraulica, e in particolare agli acquedotti, l’ottavo, agli orologi il nono, alle macchine, con specifica attenzione a quelle belliche, l’ultimo.
Di grande interesse sono i proemi premessi ai singoli libri, nei quali Vitruvio affronta questioni di ordine generale. In particolare, nel proemio al primo libro si rivendica la dignità intellettuale dell’architettura: all’architetto è necessaria una formazione completa nelle discipline “liberali”, dalla filosofia alla musica alla medicina all’astronomia, un vero sapere “enciclopedico” (Vitruvio è tra l’altro il primo a tradurre in latino l’espressione greca enkyklios paideia). Il secondo libro si apre con una succinta storia dell’umanità e dell’architettura; nel proemio del quinto Vitruvio riconosce lo scarso appeal che la sua prosa tecnica ha sul lettore e la difficoltà della lingua scientifica rispetto a quella poetica; ma la soluzione non sta nel rinunciare alla precisione terminologica, semmai nel chiedere al lettore di familiarizzarsi rapidamente con il lessico specifico, in modo da seguire senza difficoltà lo svolgimento dell’argomentazione.
Ma Vitruvio è tutt’altro che digiuno di retorica, benché affermi il contrario; la sua prosa non manca di una patina letteraria e rivela uno sforzo costante di elaborazione formale. Merita un cenno infine la sezione iniziale del sesto libro, che contiene l’esposizione più ampia disponibile in latino del cosiddetto “modello geo-climatico”, che lega strettamente i caratteri fisici e psicologici di un popolo al contesto ambientale nel quale esso vive; qui Vitruvio inserisce anche un’apologia di Roma signora del mondo che si inquadra nell’atmosfera di ottimismo della prima età augustea. Il resto è un manuale nitido e completo (in origine accompagnato da disegni, purtroppo perduti), che ha codificato i canoni estetici del classicismo maturo e ha insegnato al Rinascimento a costruire secondo lo stile degli antichi.