Caro, Annibale
, Il letterato marchigiano (1507-1566) deve essere qui ricordato non tanto per le reminiscenze dantesche ravvisabili nell'opera sua, quanto per il posto che D. occupa nelle sue meditazioni sulla lingua. Mentre negli anni giovanili aveva scritto di voler usare non la lingua petrarchevole, e neppure la boccaccevole, " ma solamente la pura e pretta toscana d'oggidì " (Commento di ser Agresto), negli anni maturi, rivolgendosi ad Antonio Cambi, affermava che per un buon uso della lingua toscana occorreva tener presente " la lezione de li vostri tre primi : Dante, Petrarca e Boccaccio, e di'certi buoni che hanno scritto in questi tempi ". Siamo nel 1553 (Lett. Fam., ediz. Greco, II 139). Questa è la prima volta che troviamo un accenno a Dante. Ma più largo posto il C. farà a D. nell'Apologia (edita per la prima volta nel 1558), con osservazioni sulla lingua e lo stile di D., a proposito dell'uso, che è per il C. la norma sovrana dello scrivere, una legge di natura che rispecchia " l'uso de' mortali ".
Il merito di D., secondo il C., è quello di averci dato una lingua nella sua compiutezza, anche se nella scelta del lessico non fece " ghirlanda d'ogni fiore ", ma anzi " adoperò la falce ". Tuttavia anche in quest'opera i giudizi sulla lingua di D. scaturiscono in genere, come è ovvio, dal rifiuto e dal fastidio di un unico modello, come avrebbe voluto il Castelvetro, e cioè del Petrarca. Ma per meglio cogliere l'interesse e l'approfondimento del problema della lingua e della validità del modello dantesco, ci soccorre la testimonianza di una lettera del 29 febbraio 1562 a Giacomo Corrado : " ... Se non l'ha usata il Petrarca l'ha usata Dante... Dir che Dante non sia autentico ne la lingua, è cosa da ridere, che se il Bembo non l'accetta nel modo di poetare, parendoli che non osservi la gravità e 'l decoro, non è per questo che lo possa rifiutar ne la lingua. E secondo m'é stato detto il card. Bembo medesimo, aveva ritrattato il giudicio fatto prima sopra Dante " (Lett. Fam. III 99).
Che D. rappresentasse un modello valido per la lingua il C. lo dimostrò proprio, si può dire, negli ultimi anni della vita, quando tradusse l'Eneide. In quell'opera infatti il modello dantesco risulta evidente.