CARO, Annibale
Nacque nella marca d'Ancona a Civitanova il 19 giugno 1507, da un Giambattista speziale e da Celanzia Centofiorini di nobile famiglia. Fece i suoi studî a Firenze, dove conobbe Benedetto Varchi; ancora giovanissimo entrò, come precettore, in casa di Luigi Gadi, il cui fratello, monsignor Giovanni, chierico della Camera apostolica, lo condusse con sé a Roma quale segretario e gli fece avere il priorato di Monte Granaro e la badia di Somma. A Roma il Caro strinse amicizie con poeti ed artisti, e fece parte delle allegre compagnie che si adunavano nella contrada dei Banchi, e delle accademie della Virtù e dei Vignaiuoli, dando sfogo al suo buonumore in due licenziose dicerie, l'una chiamata di Santa Nafissa, l'altra detta Nasea, e nel commento alla Ficheide del Molza, sconcio capitolo in terza rima. A Roma fece parte anche di un'accademia più seria, quella fondata da Claudio Tolomei, detta della Nuova poesia, mirante a introdurre nella poesia italiana i metri classici; due sue elegie in distici furono pubblicate dal Tolomei nel 1539.
Nell'anno 1538 il Caro fu con il Gaddi a Napoli, dove conobbe il Tansillo, il Rota, Bernardo Tasso, il Telesio, il Costanzo. Non sempre però andava d'accordo col suo protettore; e di tratto in tratto lo abbandonò, ora andando a vivere con mons. Giovanni Guidiccioni, vescovo di Fossombrone, e ora ritirandosi in un suo beneficio fra Serra S. Quirico e Monte Granaro. Morti, il Guidiccioni nel '41 e il Gaddi nel '42, il Caro, già noto come squisito letterato, fu assunto come primo segretario da Pier Luigi Farnese, figlio di Paolo III, in Roma. Con lui o per lui viaggiò in legazioni e commissioni varie. Quando Pier Luigi fu investito del ducato di Parma e Piacenza, il C. fu messo a capo dell'amministrazione della giustizia, e quando il duca fu ucciso, nel settembre 1547, egli si salvò a stento. Disputato dai fratelli Farnese, stette prima a Parma col duca Ottavio, poi a Roma col card. Alessandro.
Cade in questo tempo la famosa sua disputa con Ludovico Castelvetro. Avendo egli scritto nel 1553, per incarico del card. Alessandro, una canzone in lode della casa reale di Francia: Venite all'ombra dei gran gigli d'oro, poesia artificiosa, fredda, senza vero afflato lirico, il Castelvetro la censurò, e, in una Replica e quattro scritture, di cui una sola è restata, tornò sull'argomento dopo che il C. ebbe pubblicato un commento alla sua canzone. Allora questi gli rispose con l'Apologia dell'Accademia dei Banchi (Roma 1558), sfogo di collera a lungo trattenuta, in cui mescolò ad arguzie e polemiche di non comune finezza, offese e villanie, non senza velate accuse di tendenze eretiche; alla prosa violenta aggiunse sonetti zeppi di ingiurie, i Mattaccini, e una Corona di altri sonetti. Rispose meno violento, ma non serenamente, il Castelvetro con le Ragioni d'alcitne cose segnate nella canzone di A. C., Venite all'ombra (1559) e la polemica ebbe ancora uno strascico postumo, quando, morto il Varchi, fu pubblicato l'Ercolano (1570), con cui egli era venuto in aiuto dell'amico, e morto il Castelvetro, la Correzione al dialogo delle lingue di B. Varchi (1572). Triste episodio di questo litigio fu la morte di Alberico Longo, giovane letterato partigiano del C., ucciso a tradimento (1555), non si sa bene da chi; ma fu accusato di quella morte il Castelvetro e condannato nel capo in contumacia.
Sentendosi stanco e precocemente vecchio, il C. desiderò la quiete, e licenziatosi dal Farnese nel febbraio 1563, si ritirò in una sua terra vicino a Frascati. Qui, cominciata "per ischerzo", la versione dell'Eneide la condusse a termine per "far prova di questa lingua con la latina". Nel 1566 era ancora a Roma, ove morì il 21 novembre di quell'anno; fu sepolto in S. Lorenzo in Damaso.
La fama del C. è specialmente raccomandata alla raccolta delle sue Lettere familiari e alla sua Eneide. Le lettere, che con quelle aggiuntesi alla raccolta antica sommano a oltre un migliaio, sono fra le migliori del sec. XVI: il C. vi tratta con impareggiabile agilità i modi epistolari e gli argomenti più varî, ora in brevi biglietti ora in ampî discorsi, ora con leggiadra giocondezza e ora con ricca, ma non mai pedantesca dottrina, sempre con fresca eleganza e con vivacità leggiadra d'immagini. Non ha tali pregi la versione giovanile degli Amori pastorali di Dafni e Cloe di Longo Sofista, la quale si svolge o con stile manierato e togato che raffredda la calda spigliatezza del testo, o con linguaggio popolaresco che rende volgari le sue grazie squisite. La traduzione dell'Eneide è invece mirabile opera d'arte; anche se, confrontata col testo, essa appare generalmente infedele amplificazione di esso, ha tale freschezza di linguaggio, tale impeto di vena, tale pienezza d'armonia da vincere ogni confronto di traduzioni consimili, come opera a sé stante vivente di vita propria. Pregi non comuni ha anche la commedia gli Straccioni (composta nel 1544), sia per la novità dell'invenzione, sia per il modo vivo con cui vi sono rappresentati, oltre ai due protagonisti, i due vecchi fratelli Giovanni e Battista, altri tipi colti dalla realtà, quali il libraio Barbagrigia, che è il Blado editore della Nasea e della Ficheide del Molza, lo sciocco Mirandola assai noto in Roma, il procuratore della giustizia che rende possibile, col suo illuminato giudizio, la felicità dei due vecchi.
Ediz.: A eccezione dell'Apologia, tutte le opere del C. furono pubblicate postume: le Rime (poche canzoni e sonetti petrarcheggianti), a Venezia 1569; le Lettere familiari, 2 voll., pure a Venezia 1572 e 1574 (più volte ristampate, per es. a Padova 1763, a Milan0 1807; e con nuove cure e accrescimento, quelle che vanno dal 1531 al 1544, da M. Menghini, a Firenze 1920; la traduzione dell'Eneide, a Venezia nel 1581 (ristampata innumerevoli volte, e ultimamente a cura di V. Cian, che vi premise un'introduzione su A. Caro traduttore dell'Eneide, Torino 1921, e a cura di G. Lipparini, Torino 1926); gli Straccioni, a Venezia nel 1582 (fra le ristampe si ricordi quella a cura di E. Camerini, Milano 1863); la traduzione degli Amori pastorali, a Parma nel 1784. Altre cose minori videro la luce solo nell'età moderna: una versione di dodici lettere di Seneca, a Treviso nel 1820; una del primo idillio di Teocrito, a Colle nel 1843; alcune Prose inedite a cura di F. Cugnoni, Imola nel 1872, ecc. Un gruppo di 63 Pensieri di ben vivere pubblicò L. Gaudenzio in Pègaso, I (1929), 11, pp. 129-147, attribuendoli dubitosamente al C. (ma contro questa attribuzione si vedano le forti obbiezioni di B. Croce, in Critica, XXVIII (1930), pp. 211-212). Due edizioni delle Opere del C., iniziate rispettivamente da N. A. Amico (Firenze 1864) e da V. Turri (Bari 1912), rimasero interrotte al primo volume.
Bibl.: M. Sterzi, Studi sulla vita e sulle opere di A. C., in Atti e mem. della Deput. di st. patria per le Marche, n. s., V (1908); VI (1909-10); IX (1913); id., A. C. iviato di P. L. Farnese, in Giorn. stor. della lett. ital., LVIII (1911); M. Casella, A. C. segretario di Ottavio Farnese, in Bollettino st. piacent., VIII (1913); D. A. Capasso, Note critiche sulla polemica tra il Caro e il Castelvetro, Napoli 1896.