CHIEPPIO, Annibale
Nacque nel 1563 a Mantova da Giovanni e Anna di Paolo Arrigoni, entrambi d'origine milanese. Quasi povero, il padre - un po' si risolleva, comunque, acquistando, con la modesta dote della moglie, nel 1561, del terreno - s'era da anni adattato a "servire" il canonico Giulio Cesare Spada, il quale, a lui affezionato, volle tenere a battesimo il C. e occuparsi della sua educazione. E grazie allo Spada, divenuto suo tutore dopo la morte, nel 1576, del padre, il C. poté studiare sino alla laurea in legge in seguito alla quale fu aggregato al "collegium doctorum et iudicum" nel 1584 e divenne membro dell'Accademia degli Invaghiti, ove si distinse recitando un'orazione sul bacio. In fama di giovane colto ebbe un'ulteriore occasione d'affermarsi pronunciando e poi pubblicando l'Oratio in funere Francisci Medici (Mantuae 1587). Non scelse, comunque, l'aleatoria carriera delle lettere: docente di giurisprudenza, avvocato fiscale - di sua mano la trascrizione dell'interrogatorio fatto all'accusato d'avere incendiato, alla fine del 1588, dietro istigazione di Ranuccio Farnese, l'armeria gonzaghesca nel Prato del castello -, il duca Vincenzo lo creò, nel 1591, segretario ducale. A questo punto la sua biografia s'intreccia e si mescola alla storia di Mantova e dei suoi duchi. In missione diplomatica a Roma nel 1592 e nel 1594, consigliere supremo di Stato nel 1595, (peraltro a lungo infermo e costretto a letto) di Vincenzo I nella sfortunata e ridicola impresa di Canissa del 1601, non v'è questione d'una qualche importanza in cui non si avverta la sua presenza: dalla tensione col vescovo di Ferrara per le decime da lui pretese su un terreno alluvionale ai logoranti abboccamenti coi vari governatori di Milano, dal ventilato e presto rientrato progetto d'affidare a Vincenzo I il comando supremo delle milizie della Serenissima all'intricato nodo monferrino, vale a dire il "negotio dell'accomodamento", impossibile, "con Savoia" e il connesso delicato equilibrismo fra Spagna e Francia.
"Ministro prudente et intelligente" lo definiscono concordi i contemporanei, dotato di lucida accortezza e d'una notevole capacità di lavoro sì da tener testa al ritmo intensissimo della corrispondenza di Stato e alla necessità ricorrente di repentini spostamenti specie a Milano e a Casale. Indicativa delle sue qualità soprattutto la serrata orchestrazione diplomatica a lui facente capo quando Mantova covò velleità di mediazione nel conflitto tra Venezia, colpita dall'interdetto, e Paolo V. Né certo agevolò il suo compito il volubile infantile egocentrismo di Vincenzo I, che ora, nel novembre del 1606, smaniava di tentare un colpo di mano su Verona, Peschiera, Legnago per punire la Repubblica disobbediente a Roma, ora, nell'aprile del 1607, proponeva al papa una lega antiturca, alla quale, assicurava, avrebbe convinto Venezia ad aderire. Sventando abilmente conseguenze disastrose alle velleitarie improvvisazioni ducali, il C. inviava, pressoché quotidianamente, una impressionante mole d'istruzioni a Giovanni Magni e ad Ercole Udine, rappresentanti gonzagheschi, rispettivamente, a Roma e Venezia. Esse attestano il suo fiuto politico immediato, ma anche il suo fatalismo ("Dio sa quel che ne sarà", "voglia Dio", "che Dio lo voglia") quando, resosi conto che il conseguimento dell'"accordo" andava, "in ogni caso", affidato "a più potente mano", appare soprattutto atterrito dalla prospettiva d'un conflitto: questo sarebbe stato un disastro sicuro pel Mantovano, "perché il papa farà la guerra sedendo e tutto il male s'haverà in casa". V'è, inoltre, una certa angustia mentale nella sua esplicita adesione alle tesi romane: non vale, forse, di più l'opinione del papa e del Collegio cardinalizio di quella, al più "ingegnosa" e "soffistica", d'un frate, il Sarpi, "che può ingannarsi facilmente et esser guidato da spirito diabolico"? "Tengo per indubitato che la Republica diffenda causa ingiusta" asserisce con sicumera. Sfuggono al C. la valenza emblematica della contesa, il significato esemplare della fermezza veneta; non capisce come ci si possa intestardire tanto per una semplice "picca"; dubita della "prudenza di un tanto Senato, a cui conviene per una bagatella o cedere... et ubbidire con poca reputatione o separarsi... dalla Chiesa".
Gli osservatori costatano la preminenza del C.: "tra i ministri principali" di Vincenzo I - così la relazione, del 21 giugno 1608, dell'inviato straordinario veneziano Francesco Morosini - egli "ha la cura del stato di Mantova e supera tutti in autorità"; è, a detta del residente veneto Antonio Maria Vincenti, "il miglior et più fedel ministro che habbi il duca et al consiglio del quale si regge in tutte le sue operationi"; "il migliore ed il più sicuro ministro... e, però, anco il più adoperato ed..., insieme, la prima persona a chi si confidino dall'Altezza Sua i secreti del governo", conferma al Senato veneziano, il 3 febbr. 1614, Alvise Donà, già generale dell'artiglieria a Casale.
Un ruolo di tutto spicco, dunque, ma tutt'altro che pacifico, insidiato come fu da gelosie cortigiane e da sospetti, incomprensioni, ripicche e fraintendimenti da parte di Francesco II e Ferdinando. Ancora una volta i veneti sono i migliori testimoni. Pietro Gritti, a Mantova nel luglio del 1612, riferisce al suo ritorno che il nuovo duca, Francesco II, è irritatissimo col C. "per li disgusti da lui ricevuti quando era prencipe", accusandolo d'aver, allora, fomentato "il pensiero che suo padre aveva di pigliar per moglie la sorella del... duca di Parma, la quale già da molt'anni aveva ripudiata"; per cui, pur impossibilitato a rinunciare alla sua esperienza sì che al C. rimaneva, "il carico più principale de' negozi e la maggior autorità", l'aveva, però, umiliato privandolo del "luogo di primo consigliero che aveva innanzi" e anteponendogli Giovanni Carbonelli e Giovanni Gonzaga. Giovanni da Mula, nell'osservare, nella sua relazione del 1615, come "li negozi di Mantova, del Monferrato e di Francia sono raccomandati" al C. - è lo stesso duca a dirgli che egli "possedeva pienissimamente tutto il negozio del Monferrato, nel quale aveva le mani già tanto tempo" -, aggiungeva tuttavia che non mancavano "degli emuli che, con censurare le relazioni che egli ebbe già col governatore di Milano", mettevano "in dubio la sua fede".
Insinuazioni alimentate anche dal collega e rivale Alessandro Striggi che non trovarono insensibile Ferdinando, il quale, nel 1616, lo cacciò, senza tanti complimenti, in prigione. Ci vollero autorevoli pressioni esterne per liberarlo: intervenne persino la moglie dell'imperatore, Anna (cugina, per parte di madre, del duca), con una accorata e nel contempo decisa lettera del 9 genn. 1617, nella quale, pur concedendo che Ferdinando si fosse deciso a tanto "per rispetti... ragionevoli", gli ricordava la "longa et honorata servitù" del C. e gli chiedeva di ridare allo sventurato "consigliere" non solo la "libertà", ma anche di reintegrarlo "se non nel pristino grado di servitù, almeno nella sua gratia"; Ferdinando sappia, concludeva, "che della resolutione che pigliarà... servarò la dovuta memoria". La preghiera, che era, pure, un velato ordine, fu accolta: il "vecchio servitore", uscito dal carcere, pur segnato nell'intimo dalla amara esperienza (guardatevi dal consigliarvi "con gli amici", raccomanda ai figli nel testamento del 17 maggio 1617, e soprattutto evitate di fare la mia stessa professione. "Lodate le magistrature piuttosto che seguitarle, perché, sotto la coperta del miele dell'honore, spesse volte io stesso ho provato il veleno del dolore"), riprendeva - anche se non più col ruolo preminente ed accentrante d'un tempo - ad occuparsi delle faccende del ducato.
Nel 1618 elabora, assieme ad Alessandro Striggi, un piano di rigido contenimento finanziario per risalire la china rovinosa dello sperpero rappresentato dalla vita lussuosa della corte: questo mirava non solo a "risicar... le spese superflue", ma pure all'estinzione dei troppi e ingenti "debiti"; e, a tal fine, suggeriva un drastico sfoltimento della servitù, un'altrettanto cospicua riduzione del numero degli armati, ipotizzando addirittura il trasferimento della corte in campagna; il duca, insomma, avrebbe dovuto "restringersi in maniera che, toltone il necessario et una ben moderata honorevolezza, voglia, del resto, andar disimpegnando le entrate e discaricarsi di mano in mano di livelli et interessi". Consigli del tutto ignorati da Ferdinando che proseguì, imperterrito, a dilapidare e a scialacquare, pagando i debiti vecchi con nuovi; ordina, ad esempio, il 12 nov. 1618, al C. di procurargli in tutta fretta - a costo d'impegnare l'argenteria presso il Monte di Verona - 15 mila scudi romani per soddisfare i suoi numerosi creditori di Roma e di Firenze. E ad incombenze del genere il C. è sempre più costretto sino alla morte. E si sa che i suoi ultimi anni lo videro impegnato nel ventilato baratto del Monferrato e nell'agevolare in tutti i modi - "non s'è atteso ad altro negotio più principale che a riordinare e a perfettionare il processo", scrive il 3 dic. 1621 a Ferdinando - le frodi del fratello del duca Vincenzo (il futuro duca) per annullare il suo matrimonio con Isabella di Novellara.
La sua opera, comunque, non è circoscrivibile al solo aspetto politico. Factotum, infatti, oltre che ministro, specie durante il ducato di Vincenzo I, non poco del suo tempo fu assorbito dal vorticoso costosissimo ritmo di splendore e lusso che fu vanto e, insieme, rovina della corte mantovana: spettacoli da allestire, quadri da rastrellare, grandiose smanie edilizie. Sì che, se da un lato fu suo cruccio la voragine pazzesca di spese, dall'altro ne fu complice, sia pure coatto.
Sin dal 1591 interviene nella travagliata vicenda - si conclude felicemente solo nel 1598 - della rappresentazione del Pastor fido guariniano affidando parti, sollecitando "le musiche" commissionate, assistendo alle prove; sua cura, pure, la rappresentazione dell'Arianna di Monteverdi del 26 maggio 1608, felicemente riuscita malgrado lo "scompiglio", arrecato dalla morte della cantante Caterina Martinelli che venne sostituita dall'attrice comica Virginia Andreini; protegge la compagnia degli Uniti; a lui si rivolgono attori quali Pier Maria Cecchini, in arte Frittellino, e Tristano Martinelli, in arte Arlecchino, sovrintendente dei comici dello Stato mantovano. Stimola l'andamento dei lavori, avviati nel 1616, per l'erezione, su progetto del Sebregondi, della Favorita; è interlocutore autorevole d'artisti e d'uomini di cultura dall'incisore trentino Aliprando Caprioli a Giovanni Antonio Magini, dal cosmografo e architetto Fausto Rughesi a Francesco Albani (che riesce a liquidare nel 1622; "parte con le buone, parte con le brusche lo sloggiai", scrive soddisfatto allo Striggi), da Claudio Monteverdi a Pietro Maria Marsolo e all'"organista di Sua Altezza", il portoghese "fra Giovanni Leite".
Coinvolto, dunque, nel dispendioso mecenatismo dei suoi signori, senz'altro rilevante fu il ruolo da lui giocato nella costituzione della selezionatissima e nel contempo ricchissima galleria gonzaghesca, per la quale condivise il raffinato criterio collezionistico, smanioso d'originali e di primizie, di Vincenzo I.
"Essi quadri - scrive il C. l'8 dic. 1600, dopo aver sdegnosamente respinto la proposta d'acquisto di copie - non sono a proposito per Vostra Altezza, la quale non ha bisogno di copie, ma ricerca originali di buona mano et degni di stare fra molti altri, che l'Altezza Vostra si ritrova, di pittori principalissimi". Del C. le istruzioni ad Ottavio Gentili, agente mantovano a Napoli, perché scovi ritratti di belle donne che Vincenzo I intendeva accumulare con maniacale perseveranza: Assidui i suoi contatti con pittori, procacciatori, mediatori: Domenico Fetti, Andrea Andreasi, Paolo Falcone, Francesco Bergamo, François Pourbus il Giovane, il figlio del Tintoretto, Domenico. Particolarmente intensi quelli col Rubens, di cui fu protettore e confidente sì che questi gli esponeva liberamente i suoi desideri - "perdonami Vostra Signoria... si l'oreccie sue, occupati da maggior negotii, stracco con le mie ineptie" - non mancando di lamentarsi dell'insolvenza del duca. Ed è grazie al Rubens che il C. riesce ad acquistare, tra l'altro, dai preti di S. Maria della Scala in Trastevere, La morte della Madonna del Caravaggio al prezzo di duecentottanta ducati (cui vanno, comunque, aggiunti i venti andati al fiammingo per la mediazione).
Ministro il cui riconosciuto "valore" si sostanziava dell'"amor de' patroni" e di "fedeltà", si faceva vanto d'un'obbedienza assoluta: "delle cose de' padroni io non curo di saperne se non quello [che] essi vogliono, et così crederei fosse bene facesse ella anchora", scrive brusco, il 31 ag. 1605, al rappresentante mantovano presso la Serenissima che aveva osato manifestare delle perplessità. Non va dimenticato, comunque, che tanto zelo d'obbediente servizio s'accompagna alla formazione d'un imponente patrimonio coincidente con l'aprirsi di falle sempre più rovinose nella finanza pubblica travolta e squassata dall'incontenuto andazzo spendereccio dei duchi, malamente tamponato dal ricorso a prestiti forzosi, dall'indebitamento a tassi usurari, dall'impegno dei gioielli, dai disastrosi appalti nella riscossione dei tributi.
"Siate obbligati a me - raccomanda il C. ai figli nel testamento -, dal quale havete ricevuto l'essere, il stato, i beni e lo splendore della casa, perché io, come fabro della mia fortuna, con le mie virtù e fatiche ho inalzato ai primi onori la nostra famiglia".
In effetti si tratta d'orgoglio giustificato: aveva il titolo di conte; abitava in uno splendido palazzo in città (l'attuale palazzo d'Arco), acquistato dal duca il 13 febbr. 1602 per mille scudi (il duca lo aveva avuto, lo stesso giorno, in dono dal nobile Giovan Francesco Cortona, così alleggeritosi dalla minacciata pena capitale per omicidio; né è da escludere che a siffatta commistione finanziario-giudiziaria il C. non abbia prestato i lumi della sua "prudenza") e nel restauro del quale spese, tra il maggio del 1602 e il marzo del 1603, quasi 43.000 lire; egli aveva ereditato terre e case dal tutore, il canonico Spada; possedeva una residenza in campagna prestigiosa, la villa Olmo; vantava una ricca collezione di preziosi reliquiari e di quadri di valore, tra i quali ne figurava uno "di mano del Mantegna co' sopra le tre gratie e Mantova vecchia incornisato di noce con due perfili d'oro", come precisa un inventario del 29 apr. 1623. Una ricchezza stupefacente: "di povero ch'era, ora possiede 6000 scudi d'entrata, un nobilissimo palazzo in Mantova e ogni giorno accresce la sua fortuna" osserva la relazione, del 1608, del veneto Morosini; "ha tutto il suo nel Mantovano", precisa nel 1615 quella di Giovanni da Mula, "è ricco assai, ha... molti denari contanti".
Il C. morì a Mantova il 28 genn. 1623, "universae urbis iactura" commenta Francesco Negri Ciriaco.
Sposatosi, nel 1590, con Lavinia Rovelli (1570 circa-1635), ne ebbe, tra il 1592 e il 1618, ben quindici figli, alcuni morti precocemente. Delle femmine si sa che quattro vennero destinate al convento e tre convenientemente accasate. Due i figli di cui si ha notizia: Francesco, fattosi cappuccino, stampò un'Hypotyposis philosophiae... (Bononiae 1657); Ludovico, che, evidentemente dimentico del consiglio paterno d'evitare incarichi pubblici, fatto cameriere segreto da Ferdinando, divenne poi, durante la reggenza di Maria, ministro. Quanto al patrimonio, estintisi i Chieppio nel 1740, passò ai conti d'Arco; la figlia dell'ultimo Chieppio aveva, infatti, sposato Francesco Alberto d'Arco.
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