GAMBARA, Annibale
, Annibale. - Nacque a Brescia o nel Bresciano nel 1571 dal patrizio bresciano Lucrezio, figlio di Lucrezio, e da Giulia Maggia.
Apparteneva al ramo della potente famiglia Gambara titolare dei feudi di Verola Alghise (oggi Verolanuova), Pralboino e Milzano. Il G. aveva cinque fratelli: Lucrezio, Francesco, Uberto, Scipione e Ippolito, che entrò nell’Ordine dei domenicani e divenne priore di S. Clemente a Brescia. Delle sorelle, Onavia mori in giovane età, Isabella sposò Camillo Martinengo, mentre Felice si monacò nel convento di S. Giulia di Brescia. Nel rispetto della tradizione del matrimonio incrociato il G. sposò una sorella di Camillo Martinengo, Dornicilla, che gli portò in dote, tra l’altro, i beni di Sanguineto, Urag. e Oglio con relative esenzioni e giurisdizioni, e in particolare il palazzo di città nella contrada di S. Caterina. Sembra, comunque, che in questo palazzo il G. abbia passato ben poco tempo, risiedendo per gran parte dell’anno a Verola Alghise.
Da Domicilla il G. ebbe sei figli, due femmine, Deidamira e Domitilla e quattro maschi, Venceslao, Niccolò, Ranuccio e Lucrezio. Nessuno dei figli, comunque, gli sopravvIsse.
Pur conducendo una vita caratterizzata dalla violenza, il G. non raggiunse i vertici di nefandezza del fratello Scipione, che con una banda di avventurieri compì vari delitti, giungendo tra il 1587 e il 1588 a uccidere Brunoro di Ranuccio Gambara e Gian Galeazzo Gambara; per questi delitti fu condannato dalla Serenissima al bando e alla confisca dei beni e, nel 1590 a Milano, all’impiccagione (le circostanze della sua morte, tra il 1590 e il 1592 sono ignote). Non vi è dubbio, comunque, che il G. si pose ben presto sulle orme del fratello Scipione, distinguendosi anch’ egli per una serie di crimini e violenze. Non mancò tuttavia di coltivare un certo interesse per le lettere e la vita politica. Il 6 apro 1595 fu iscritto all’Accademia di belle lettere fondata a Milano dal marchese di Caravaggio; fu poi promotore dell’Accademia dei Rapiti di Brescia. Tentò anche di acquisire meriti agli occhi della Serenissima: il 29 marzo 1601, durante la guerra contro gli Uscocchi, offrì alla Repubblica veneta cento corazze a cavallo e sé medesimo. Tuttavia i suoi rapporti con la Repubblica furono sempre tormentati. Nel 1603 una lettera inviata dalla Comunità di Verola Alghise ai rettori di Brescia lo accusava di crimini scellerati compiuti alla testa di un gruppuscolo di bravi e forse anche con la complicità del fratello Francesco. Il G. si dichiarò innocente, protestando ripetutamente con i rettori, ma l’esame delle accuse e le informazioni assunte dal Consiglio dei dieci inchiodarono il G. alle sue responsabilità. Il 26 maggio 1603 il Consiglio lo condannò in contumacia al bando dallo Stato veneto per dieci anni e con una taglia di 1000 ducati, alla privazione di tutte le sue prerogative e alla confisca dei beni. La potente famiglia Gambara si mosse subito per ottenere la revoca, ma la Repubblica si mostrò per anni intransigente. Il tentativo di fargli ottenere un salvacondotto per due anni, messo in atto nell’autunno del 1603 dal fratello Francesco, referendario presso la Curia romana, non sorti alcun effetto: nonostante l’intervento di papa Paolo V, che si avvalse dell’ambasciatore veneziano Agostino Nani, il Consiglio dei dieci non diede il suo assenso nemmeno alla richiesta più limitata di un salvacondotto per dieci mesi, e nonostante la morte del fratello Lucrezio, che fece del G .l’unico responsabile del governo dei feudi. Solo nel 1608 il G. fu liberato dal bando e reintegrato nelle sue proprietà e nei suoi diritti.
La rigida posizione dei Dieci può forse spiegarsi con il fatto che durante l’esilio, che coincise con gli anni dell’interdetto di Paolo V contro Venezia, il G. era sospettato di essere al servizio degli Spagnoli, ovvero del governatore di Milano P. Enriquez de Acevedo, conte di Fuentes, al quale avrebbe offerto non solo di armare trecento corazze a cavallo, ma la sua disponibilità a combattere per conquistare la fortezza veneziana di Orzinuovi. Il G. risultò poi estraneo a tale macchinazione, anzi nell’ottobre dello stesso anno il conte di Fuentes informò personalmente Marco Bragadin di un possibile tradimento ai danni della Repubblica da parte del milanese Giovanni Angelo Borgino. Forse proprio questo atto dovette convincere i Dieci a rivedere la condanna.
L’atteggiamento del G. era comunque orientato al sostegno della politica spagnola e in tal senso si possono anche considerare i suoi stretti rapporti con la corte farnesiana negli anni dell’esilio. In quel periodo il G. divenne intimo del duca di Parma Ranuccio I, anch’egli filospagnolo, che gli fece avere la cittadinanza di Parma, con licenza di anni e con dieci uomini di scorta. In una delle lettere dell’interessante carteggio con il Farnese - inviata dal G. al duca e datata 21 sett. 1618 - si parla di un piano ordito in quei mesi dagli Spagnoli contro Venezia, ma il riferimento è alla congiura del legato spagnolo Alonso Bedmar e il G. non manca di dire al Farnese che il piano poté essere sventato solo grazie all’azione rapida ed energica della Repubblica, la quale lo prevenne e lo soffocò sin dall’inizio.
Negli stessi anni il G. fu costantemente presente a Brescia e a Verola Alghise, dove curava il patrimonio familiare, partecipando attivamente ai Consigli della piccola Comunità soprattutto nei momenti del rinnovo dei campioni d’estimo. Nel 1617 tra l’altro fu eletto membro del Consiglio cittadino bresciano, ma poco dopo ne venne escluso per non avere accettato l’incarico di recarsi come podestà a Orzinuovi. Si compose infine - anche grazie all’intervento del parroco di Verola Alghise - la lite tra il ramo del G. e quello discendente da Brunoro.
Tuttavia nella sua terra il G. doveva avere ripreso a tiranneggiare. In particolare, per motivi probabilmente economici, la sua ferocia e il suo odio si scatenarono contro Polidoro Bornati e la sua famiglia, cui membri erano personaggi in vista di Verola e di Brescia. Tra il 1619 e il 1620 il G. si macchiò di una serie di infamie nei loro confronti e infine assoldò un gruppo di sicari capeggiati da certo Andrea Sabac e da Brunoro Vitapatisci cui diede l’ordine di trucidare, a Verola e a Brescia, durante una sua artificiosa presenza alla corte parmense, vari membri della famiglia Bornati, tra i quali la stessa figlia di Polidoro. I bravi assoldati dal G. uccisero Giovan Pietro Bornati e tre suoi parenti, costringendo gli altri membri della famiglia a fuggire da Verola per avere salva la vita, e giunsero a infierire contro il cadavere di Polidoro. La condanna dei Dieci fu questa volta più dura: nel processo del 1624, il G. fu condannato alla prigione nella fortezza di Palmanova per dieci anni.
Non è noto se fu in seguito perdonato dalla Serenissima o se dovette scontare tutta la pena. Dei suoi ultimi anni rimane il testamento del 5 giugno 1632, con cui nominò erede universale il nipote Carlo Antonio, il quale insieme con i fratelli erediterà tutti i beni e i diritti feudali di questo ramo dei Gambara, estintosi proprio con il G., che dovette morire di lì a poco e fu sepolto nel convento dei cappuccini di Verola Alghise, oggi distrutto; egli stesso, unitamente al fratello Francesco, lo aveva fatto erigere su un fondo appositamente acquistato nel 1612.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Consiglio dei dieci, Deliberazioni criminali, filze anni 1603-04: 20 marzo, 5 maggio, 26 maggio 1603; filze anni 1622/23: 28 giugno 1622; regg. 21, cc. 8v-9r; 39, cc. 20v22v; 40, cc. 114v-115v; Ibid., Capi del Consiglio dei dieci, b. 21, lettera n. 123; Ibid., Avogaria di Comun, Deliberazioni del Maggior Consiglio, bb. 307/10; 3641 16; 151/13; 191/9; 177/12; 2729/3; Ibid., Inquisitori di Stato, b. 61, 16 ott. 1620; Arch. civico storico di Brescia, regg. 1320, cc. 26, 30 s., 54 s.; 1536, cc. 176r, 178v; Arch. di Stato di Brescia, Archivio Gambara, Privilegi Gambara, t. I, cc. 117-124, 125-136; E. Cornet, Paolo Vela Repubblica venera. Giornale dal 22 ottobre 1605 al 9 giugno 1607, Vienna 1859, p. 3; Id., Paolo Vela Repubblica venera. Documenti, in Archivio veneto, V (1873), pp. 31-38; VI (1873), pp. 242 s., 247-251; V. Bonari, I conventi ed i cappuccini bresciani, Milano 1891, pp. 58 s.; P. Negri, La politica venera contro gli Uscocchi, in Nuovo Archivio veneto, n.s., XVII (1909), pp. 367 s.; P. Guerrini, Pagine sparse, IX, Brescia 1986, pp. 993-995.