ANNIBALE ('Αννίβας, Annĭbal, Hannĭbal "grazia di Ba'al")
Nome di alcuni personaggi cartaginesi.
1. Generale cartaginese, distruttore delle città di Selinunte e d'Imera in Sicilia. Apparteneva alla casa di Magone ed era nipote dell'Amilcare caduto sotto Imera nel 480 a. C. Suo padre, Giscone, era morto in esilio a Selinunte. Verso l'ultimo decennio del sec. V le sorti della sua casa si erano risollevate, e nel 410 a. C., A. rivestiva a Cartagine la carica di sufete (o re, come dicevano i Greci). In quell'anno vennero a Cartagine ambasciatori di Segesta, ad invocare aiuto contro i Selinuntini, da cui la città era minacciata. Cartagine aveva allora più forti ragioni ad intervenire in Sicilia che non ne avesse avute settant'anni innanzi, quando Terillo venne a chiedere aiuto contro Terone, poiché Segesta aveva per i dominî cartaginesi sulla costa occidentale dell'isola un'importanza ben diversa di quella che aveva Imera. E il momento era singolarmente propizio, poiché Siracusa era spossata dello sforzo durato contro l'esercito ateniese, e la sua flotta si trovava lontana a continuare la lotta sulle coste dell'Asia Minore. La domanda dei Segestani fu perciò accolta e il comando dell'impresa affidato ad A. Questi si mostrò abile diplomatico prima ancora che strenuo generale. Egli dissimulò i preparativi bellicosi per mezzo di trattative intese a far credere ai Siracusani che Cartagine, pur sostenendo le ragioni di Segesta, mirasse ad una soluzione pacifica del conflitto. Intanto forniva a questa città alcune migliaia di soldati, in guisa da metterla in condizione di tener fronte al nemico. In effetto, in uno scontro, i Selinuntini furono battuti, e nell'esasperazione della sconfitta presero anche un atteggiamento ostile a Cartagine. La guerra da parte di quest'ultima non era perciò ingiustificata. Nella primavera del 409 un esercito cartaginese, comandato da A. e formato, al solito, di milizie mercenarie raccolte da ogni parte, sbarcò presso il Lilibeo, prese Mazara ed assediò Selinunte. Le operazioni di assalto furono condotte con grande vigore. A. promise ai suoi soldati di abbandonar loro tutto il bottino della città. I Selinuntini chiesero aiuto a Siracusa, poi ad Agrigento e a Gela: nell'attesa si difendevano disperatamente. Ma prima che i soccorsi giungessero, i Cartaginesi eran padroni della città. Circa sedicimila furono i Selinuntini caduti: cinquemila furono fatti prigionieri, e duemilaseicento soltanto poterono scampare alla volta di Agrigento. A costoro fu concesso di tornare in patria, a patto però di pagar tributo ai Cartaginesi. Le mura della città furono demolite.
Selinunte era stata assediata e presa in pochi giorni. A. si rivolse rapidamente verso Imera, per risolvere, e in maniera definitiva, il problema ch'era costato la vita a suo nonno Amilcare. In che modo fosse giustificata l'aggressione contro questa citta che stava fuori dell'ambito delle controversie per cui sorse la guerra, noi non sappiamo, ma della maniera in cui i Cartaginesi procedevano in simili contingenze, abbiamo un saggio in ciò che riguarda l'assedio di Agrigento. I soccorsi siracusani, che non erano giunti in tempo a Selinunte, poterono però prevenire A. e rinforzare la guarnigione di Imera (v. diocle). Sennonché anche l'esercito di A. era stato a sua volta rinforzato da molta gente, attirata da ogni parte dalle evidenti speranze di un ricco bottino. Imera fu dunque assediata e resistette anch'essa energicamente.
Ma le speranze di riuscire a liberarsi dovevano esser poche: le navi siracusane, apparse sulla rada, non portavano soccorsi. Fu deciso di abbandonare la città: una parte dei cittadini si ritirò con l'esercito siracusano, un'altra salì sulle navi per esser trasportata sulla costa, verso Messana. I rimanenti attendevano il ritorno delle navi per mettersi in salvo. Ma non ne ebbero il tempo. I Cartaginesi assalirono la città: tremila cittadini adulti furono fatti sgozzare da A. sul luogo stesso dove Amilcare era caduto: fanciulli e bambini furono trasportati in Africa, e la città fu distrutta.
Cartagine si era così liberata delle due città che formavano i posti avanzati della grecità nell'occidente dell'isola. Ma intanto il partito imperialista cartaginese maturava il disegno della conquista di tutta la Sicilia. Fu preparata una nuova spedizione, e nel 406 un esercito cartaginese, ancora più forte del precedente, moveva alla volta di Agrigento. Il comandante era sempre A.: salvo che questi, a cagione dell'età, aveva chiesto di essere accompagnato dal cugino Imilcone (v.) figlio di Annone. Bisogna supporre che la spedizione fosse rivolta contro Siracusa. A. chiese ad Agrigento di allearsi con lui, o impegnarsi a restare neutrale. Agrigento ricusò, e i Cartaginesi l'assediarono. Ma nel campo cartaginese si diffuse una delle solite epidemie, di cui si vide l'origine negli scavi che gli assedianti avevano fatto in una necropoli vicino alla parte delle mura, dalla quale avevano iniziato l'assalto. A. ne fu colto, e perì, lasciando solo al comando Imilcone.
Fonte principale è Diodoro, XIII, il cui racconto è desunto da Timeo.
Bibl.: A. Holm, Gesch. Siziliens, II, Lipsia 1874, pp. 79-82 segg., (trad. it.) II, Torino 1901, pp. 188-194 segg.; E. Freeman, hist. of Sic., III, Oxford 1892, p. 446 segg.; O. Meltzer, Geschichte d. Karth., I, Berlino 1879, p. 255 segg.; Denschau, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., VII, col. 2018 segg. (ove è anche accennata la controversia relativa alla cronologia).
2. - Capitano cartaginese, figlio di Giscone, la cui attività si esplicò nel primo quadriennio della prima guerra punica. Egli si trovava colla squadra nelle isole Lipari, quando i Mamertini furono disfatti presso il fiume Longano, secondo alcuni storici nel 269-8 a. C., secondo altri nel 265, secondo altri infine, più verosimilmente, nel 264. Egli riordinò i resti dell'esercito di Annone, e li introdusse nella rocca di Messina, chiamativi dagli stessi Mamertini proprio nel momento in cui essi stavano per arrendersi a Ierone. Avendo il capitano punico fatto sgombrare la rocca di Messina, Annibale si trovò alla difesa di Agrigento (261 a. C.), dove fu assediato dai Romani, e, mentre l'altro capitano Annone che era venuto a soccorrerlo era disfatto al monte Toro, egli riuscì a rompere le linee romane e portarsi a Eraclea.
Ebbe in premio il comando della flotta, e la concentrò a Panormo, da cui si mise a devastare le coste d'Italia. Riunì poi alla sua flotta le navi con le quali Boode, senatore cartaginese, aveva sconfitto e fatto prigioniero il console Gneo Cornelio Scipione, e, sentendo che veniva una flotta romana, e avanzandosi per esplorare, per poco non ebbe a subire una sconfitta completa, che riuscì a localizzare, e poté effettuare la ritirata (alcuni critici sospettano che questo racconto non sia che una versione attenuata della sconfitta di Milazzo). Ad ogni modo il disastro lo colse quando presso Milazzo affrontò il console Duilio (260), che adoperò per primo i "corvi", al quale sistema A. non era preparato. Egli, in seguito alla sconfitta, fu deposto, ma non punito, anzi l'anno seguente fu mandato in Sardegna, dove in seguito a un grave insuccesso navale fu crocifisso dai suoi stessi soldati.
Fonti: Polibio, I, 18-24; Diodoro, XIII, 7-9; Zonara, VIII, 10; Orosio, IV, 7.
Bibl.: Meltzer, Geschichte der Karthager, Berlino 1879-1913, II, p. 270 segg.; G. De Sanctis, Storia dei Romani, III, i, Torino 1913, p. 116, passim; J. Beloch, Griech. Geschichte, 2ª ed., IV, i, Berlino 1925, p. 645.