Annibale
A. (247?-183 a.C.), generale cartaginese, figlio di Amilcare Barca (ricordato da M. in Arte della guerra IV 61, a proposito di un episodio della guerra tra Iberi e Cartaginesi, e nella III delle Sentenze diverse, a proposito di una vincente manovra militare), alla morte del padre prese il comando delle truppe di stanza in Spagna. La presa di Sagunto (alleata di Roma) nel 219, provocando la reazione dei Romani (secondo le intenzioni di A., come scrive M. in Discorsi II ix 9, sulla scorta di Livio XXI v 3), dette inizio alla seconda guerra punica. Nel 218 A., dopo aver valicato le Alpi, riportò la vittoria prima sul Ticino, quindi sul Trebbia e l’anno seguente sul Trasimeno (le battaglie del Ticino e del Trasimeno sono ricordate in Discorsi I xxiii 12). Dopo una sospensione degli scontri in campo aperto, provocata dalla tattica adottata dal nuovo dittatore romano Fabio Massimo il Temporeggiatore, la guerra riprese nel 216 per iniziativa dei Romani, che attaccarono A. presso Canne, andando però incontro a una grave sconfitta. In seguito, le sorti del conflitto volsero gradualmente a favore dei Romani che, recuperati i territori persi in Spagna e vinto e ucciso nel 207 sul Metauro (nelle Marche) Asdrubale, fratello di A. (la battaglia è ricordata da M. in Discorsi II x 23 e III xvii 3-7), portarono la guerra in Africa, e sotto il comando di Scipione sconfissero definitivamente l’esercito nemico a Zama, presso Cartagine, nel 202 (lo scontro segnò la fine della seconda guerra punica). A., dopo aver incitato senza successo Antioco III di Siria a muovere guerra ai Romani, si rifugiò presso Prusia, re di Bitinia, dove preferì darsi la morte con il veleno anziché cadere prigioniero dei nemici che ne avevano chiesto l’estradizione.
Negli scritti di M., A. è modello di virtù militare, esempio di generale valoroso e audace. Per la rappresentazione del personaggio M. si fonda prevalentemente sui libri della terza decade liviana. Particolare suggestione dovette esercitare su di lui il celebre ritratto presente in Livio XXI iv, che, dopo l’enumerazione delle doti straordinarie del generale (energia, vigore, resistenza, audacia ma anche prudenza nei pericoli, capacità di conquistare il favore dei soldati), si chiude enfaticamente con l’elenco dei suoi ingentia vitia (inhumana crudelitas, perfidia plus quam Punica, infedeltà ed empietà). Nella rielaborazione machiavelliana, i vizi sottolineati dallo storico latino, inconciliabili con i valori dell’etica romana, diventano invece parte integrante della virtù di A., presentato come personaggio integralmente positivo, degno di imitazione. Altra fonte da cui M. ricava soprattutto notizie relative alle tattiche e alle strategie adottate dal Cartaginese sono i primi tre libri degli Strategemata di Frontino.
Nei Discorsi, spicca il passo (II xviii 5-6) in cui il generale cartaginese è definito «uomo eccellentissimo»: eppure M. ne critica la preferenza accordata alla cavalleria, citando da Livio (XXII xlix 3) una battuta pronunciata durante la battaglia di Canne e interpretata nel senso di una svalutazione della fanteria. Peraltro, anche in un altro luogo (II xii 5 e 24-25), M. non si lascia convincere dall’«autorità d’Annibale», dichiarando infondato e del resto interessato il consiglio da lui dato a Antioco III di assaltare i Romani nelle loro terre, nella persuasione che essi potessero essere combattuti con maggiori risultati proprio in Italia. Invece in Discorsi II xxvii 19-21, la decisione del «tanto virtuoso» A. di cercare un accordo con Scipione (dell’incontro tra i due generali, prima della battaglia di Zama, narrano sia Livio XXX xxx-xxxi sia Polibio, Storie XV 6-8) per evitare lo scontro, nonostante le gloriose vittorie riportate nei sedici anni trascorsi in Italia, è prospettata come esempio di grande esperienza e saggezza. In Discorsi III x 32-36, sempre a proposito della battaglia di Zama, A., «maestro di guerra», è citato come esempio di capitano che, nella impossibilità di evitare la battaglia campale, non si tira indietro, ma tenta il tutto per tutto, cercando di vincere o, almeno, di perdere gloriosamente.
Poco prima, A. è citato insieme a Fabio Massimo: M. precisa che i due generali, più che «fuggire la giornata» volevano l’uno, il romano, farla «a suo vantaggio», l’altro, il cartaginese, non farla alle condizioni del nemico (Discorsi III x 19-20). La coppia A.-Fabio Massimo era già presente nel capitolo precedente, a esemplificare la teoria del «riscontro»: ma la prospettiva del discorso si concentrava più sul generale romano, esempio di natura «rispettiva» che per un certo periodo si «riscontrò bene con i tempi», quando era sicuramente più vantaggioso adottare una tattica temporeggiatrice, evitando il conflitto in campo aperto con l’audace e impetuoso A., «giovane e con una fortuna fresca» (Discorsi III ix 5-7).
Al binomio A.-Scipione è dedicato l’intero cap. xxi del III libro dei Discorsi. L’accostamento in funzione contrastiva di A. a Scipione (questo esempio di umanità, quello di crudeltà) figurava in termini analoghi già nei Ghiribizzi al Soderino. Nei Discorsi, tuttavia, il binomio A.-Scipione è funzionale non tanto all’esposizione della teoria del «riscontro» quanto a indicare nella ‘straordinaria virtù’ il correttivo all’unilateralità e rigidità del comportamento umano. A. è qui esempio di crudeltà, tuttavia congiunta a una virtù tale da compensare il pericolo insito nel farsi troppo temere, cioè l’essere odiato. M. osserva come ad A. la natura crudele non provocasse troppi «inconvenienti», fatta eccezione per la scelta di alcune città italiane di non seguirlo e di restare fedeli a Roma e fatta eccezione, soprattutto, per l’odio implacabile che suscitò nel popolo romano. Livio, oltre che per il ritratto di A., pronto a ricorrere alla «crudeltà, violenza e rapina e ogni ragione d’infideltà» (III xxi 4), è la fonte (XXVIII xii 2-5) per l’entusiastico elogio del Cartaginese che si legge nella parte finale del capitolo: A. è lodato, secondo un’immagine presente anche in altri testi (tra cui Polibio, Storie XI 19 – uno dei frammenti degli Excerpta antiqua –, ma anche la petrarchesca Collatio inter Scipionem, Alexandrum, Hannibalem et Pyrrum, la Vita di A. di Donato Acciaiuoli, il Commento al ‘Trionfo della fama’ di Iacopo Bracciolini), per la sua capacità di tenere unito e ubbidiente un esercito fortemente eterogeneo, composto da soldati di provenienza geografica diversa. Testo parallelo sono i §§ 16-17 del cap. xvii del Principe (ma si veda anche la lettera a Vettori del 26 agosto 1513), dove l’eccezionalità della virtù di A. è esaltata per lo stesso motivo: la crudeltà formidabile del valorosissimo generale cartaginese fece sì che mai nel suo esercito, pur composto di soldati di varia nazionalità, nascessero sedizioni o disordini.
A. è presentato con favore anche nell’Arte della guerra dove il suo esercito viene innalzato a paradigma al pari delle milizie romane (I 168). In Arte della guerra IV 23, sulla scorta di Livio (XXII xliii 10-11) e Frontino (II ii 7), A. è ricordato, in riferimento alla battaglia di Canne, come esempio di capitano attento a ordinare l’esercito anche tenendo conto degli eventuali disagi provocati dalla posizione del Sole e dalla direzione e intensità dei venti. In coppia con Scipione, A. è menzionato come esempio di abilità nell’ordinare l’esercito «alla giornata», nonostante lo scontro si fosse concluso, a Zama, con la sconfitta (IV 38-39, che segue Livio XXX xxxiii 4-7 e Frontino II iii 16). In VI 186 è raccontato uno stratagemma adottato per rompere l’accerchiamento dell’esercito romano, stanziatosi a Casilino in Campania al comando di Fabio Massimo (narrato anche in Discorsi III xl 6, è attinto da Livio XXII xvi 5-xvii e da Frontino I v 28, ma presente anche in Polibio, Storie III 93-94 e in Plutarco, Fabio Massimo VI).
In VII 112 si accenna brevemente, sulla scorta di Frontino, III iii 6, anche a un altro episodio (più distesamente raccontato in Livio XXV viii-ix) in cui emerge l’astuzia di A. che riuscì, corrompendo un soldato nemico, a conquistare la rocca di Taranto nel 212, mentre in un passo di poco precedente (VII 103-104) A. è ricordato come vittima di uno stratagemma di Scipione (sempre annoverato da Frontino III vi 1), che nel 202 riuscì con l’inganno a espugnare alcune fortezze occupate dai Cartaginesi.
Oltre ad A., «il gran barbaro» (cfr. il capitolo “Dell’Ingratitudine”, v. 91), al padre Amilcare (290-228 a.C.) e al fratello Asdrubale (245 circa-207 a.C., ricordato peraltro, oltre che per la battaglia del Metauro, anche per i suoi scontri con i Romani in territorio iberico sia in Discorsi III xvii 3-4 sia in Arte della guerra IV 28-29 e VI 184), M. cita altri Cartaginesi.
Asdrubale, figlio di Gescone, oltre a essere ricordato in Discorsi II xxvii 19, per una sconfitta subita dai Romani ai Campi Magni nel 203, è citato erroneamente al posto di Gescone in Discorsi III xxxii 6-8, come vittima della violenza dei soldati mercenari libici e numidi ribellatisi a Cartagine nel 241.
Un generale Amilcare è menzionato nel Principe viii 6 (che sintetizza l’estesa narrazione di Giustino, Epitome XXII i-ii) per avere favorito l’ascesa al potere di Agatocle siracusano.
Un generale Annone è nominato per il tentativo fallito di congiura (340 circa) in Discorsi III vi 168 e 178; mentre Annone il Grande (il capo della fazione che si oppose ai Barca durante la seconda guerra punica) è citato in Discorsi II xxvii 7, xxx 29 e III xxxi 10, a proposito del discorso (riportato in Livio XXIII xii 8-xiii 5) da lui tenuto in senato dopo la battaglia di Canne per convincere i Cartaginesi a stipulare la pace; e ancora in Arte della guerra V 130-132 è ricordato per uno stratagemma (cfr. Frontino I v 27).