L’annullabilità e l’annullamento degli atti amministrativi costituisce ancora oggi il principale strumento di effettività del diritto amministrativo a garanzia dei fondamentali valori costituzionali sul buon andamento e l’imparzialità della pubblica amministrazione. Lo scritto analizza dunque il complesso regime dell’annullabilità degli atti amministrativi, nella prospettiva del principio di legalità e della tutela giurisdizionale nei confronti della pubblica amministrazione. Si approfondisce altresì il peculiare regime dei vizi di forma e di procedimento di cui all’art. 21 octies, l. n. 241/90, considerando anche i risultati più recenti del dibattito dottrinale in materia.
1. Annullabilità e nullità nel sistema del diritto amministrativo
La l. n. 241/90, con le modifiche ed integrazioni del 2005, ha da ultimo codificato le regole sull’invalidità dell’atto amministrativo, richiamando la distinzione tra nullità ed annullabilità, nonché cristallizzando l’impostazione incentrata sui vizi di legittimità: violazione di legge, eccesso di potere ed incompetenza (artt. 21 septies e 21 octies, l. n. 241/90). L’articolazione delle due forme di invalidità sembra essere ancora nel senso di considerare l’annullabilità come ipotesi generale, essendo invece tassativi e circoscritti i casi di nullità (Cons. St., sez. V, 16.2.2011, n. 792). La nullità si collega alla violazione della fonte primaria, ed in particolare, alle disposizioni poste sul “confine esterno” dell’attribuzione di potere (art. 21 septies, l. n. 241/90), la illegittimità – d’altra parte - si ha in caso di violazione delle regole di esercizio del potere primarie e secondarie (Romano, A., «L’ordinamento giuridico» di Santi Romano, il diritto dei privati e il diritto dell’amministrazione, in Dir. amm., 2011, soprattutto 257 e 260; Police, A., Annullabilità e annullamento, in Enc. dir., Annali, I, Milano, 2007, 49).
La dottrina ha generalmente riferito al provvedimento illegittimo il regime del contratto «annullabile», sulla base dell’art. 45, t.u. sul Consiglio di Stato, n. 1054 del 1924, che prevede, in caso di accoglimento del ricorso, l’annullamento dell’atto da parte del giudice amministrativo. Il provvedimento annullabile ha perciò «validità pendente risolutivamente» ma passibile di divenire incontestabile (così Messineo, F., Annullabilità e annullamento (dir. priv.), in Enc. dir., II, Milano, 1958; Giannini, M. S., Discorso generale sulla giustizia amministrativa, in Riv. dir. proc. civ., 1963, 542). La Costituzione ha sancito il sistema della invalidità dell’atto amministrativo e della tutela generale contro gli atti della pubblica amministrazione con la garanzia della difesa piena ed effettiva delle situazioni giuridiche soggettive (art. 24 Cost.): tutela che non può essere «esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti» (art. 113 Cost., artt. 6 e 13 CEDU).
Il dettato costituzionale lascia intendere che il regime dell’invalidità del provvedimento amministrativo non possa essere considerato nella piena disponibilità del legislatore ordinario; quest’ultimo, invero, non può limitare o condizionare le possibilità di ricorso né modulare la tutela giurisdizionale riducendo i vizi di legittimità o modificando le modalità del sindacato (Romano, A., Art. 26, t.u. Cons. St, (r.d. 26 giugno 1924, n. 1054), in Romano, A.–Villata, R., a cura di, Commentario breve alle leggi sulla giustizia amministrativa, III ed., Padova, 2009, 1150 e ss.). Proprio per questo, fermi i limiti «esterni» di attribuzione del potere, che debbono essere fissati necessariamente con legge, il modo e l’intensità del sindacato di legittimità è affidato al giudice amministrativo che garantisce la tutela secondo quanto richiesto dalla Costituzione.
È questa la principale peculiarità della condizione di illegittimità dell’atto amministrativo e del relativo sindacato giurisdizionale, la cui configurazione e consistenza deriva soprattutto dall’elaborazione del giudice amministrativo: i “vizi” dell’atto sono definiti e precisati in via giurisprudenziale in vista della inderogabile finalità costituzionale di tutela. Il parametro del diritto positivo, invece, è fissato dalla legge e dalle altre fonti del diritto (artt. 24 e 113 Cost.).
2. Peculiarità del regime di annullabilità del provvedimento amministrativo
Il regime della illegittimità-annullabilità dell’atto si lega strettamente alle vicende istituzionali della pubblica amministrazione; esso, in particolare, si sviluppa in via giurisprudenziale, nella prospettiva del sindacato pieno, per il tramite dei principi dell’azione amministrativa e sulla base del diritto vigente (Romano, A., Art. 26, t.u. Cons. St, (r.d. 26 giugno 1924, n. 1054), cit., 1148).
La particolare valenza dell’annullamento giurisdizionale degli atti amministrativi si coglie dunque come principale affermazione del principio di legittimità, per come esso deriva dalla legge, dai principi istituzionali dell’azione amministrative e dalle fonti secondarie, adottate dalla pubblica amministrazione in autonomia (Romano, A., Autonomia nel diritto pubblico, in Dig. pubbl., II, Torino, 1987, 30).
Chiave di lettura che spiega i più recenti sviluppi che hanno attribuito valore ai principi di semplificazione, efficienza e buon andamento dell’azione amministrativa, incidendo, in qualche modo, sulle modalità e l’intensità del sindacato (Cavallo Perin, R., Validità del provvedimento e dell’atto amministrativo, in Dig. pubbl., XV, Torino, 2000, 612).
Va sottolineato altresì che il sistema dell’invalidità degli atti amministrativi garantisce l’effettività di tutto il diritto amministrativo, comprese le fonti normative «autonome» (statuti e regolamenti) che costituiscono parametro di legittimità dei provvedimenti. Fonti «secondarie» che regolano gli ambiti più esclusivi dell’autonomia pubblica: organizzazione, competenza, azione amministrativa e procedimento (Romano, A., Introduzione, in Diritto amministrativo, a cura di L. Mazzarolli ed altri, Bologna, 2005, 11). Nella sede giurisdizionale il sistema delle fonti amministrative − dai principi istituzionali sino all’ultimo dei regolamenti − riceve il crisma dell’effettività, nella prospettiva della legittimità dell’azione amministrativa, per la tutela giurisdizionale piena nei confronti della pubblica amministrazione.
Si comprende il particolare dinamismo del sistema della giustizia amministrativa imperniato sull’illegittimità degli atti amministrativi nonché costruito – in grossa parte – attraverso un rinvio alla pubblica amministrazione, come istituzione, per la determinazione del parametro di diritto positivo (principi, leggi, statuti e regolamentari), ed alla giurisprudenza, per quanto attiene alle forme ed alle modalità della tutela. In questa prospettiva, i vizi di legittimità, lungi dal costituire ipotesi separate o tassative, si presentano piuttosto come strumento (logico e tecnico) per l’effettività dei principi di legalità e legittimità dell’azione amministrativa.
3. L’eccesso di potere, nella prospettiva della funzione e del procedimento amministrativo
Le ipotesi di cattivo esercizio della discrezionalità sono ricondotte al vizio di eccesso di potere, costruito logicamente sul vincolo di scopo, sul carattere funzionale degli atti amministrativi, ovverosia sull’attinenza dell’azione pubblica ai suoi fini istituzionali anche al di là di specifiche indicazioni normative (Piras, A., Invalidità (dir. amm.), in Enc. dir., XXII, Milano, 1972; D’Alberti, M., Gli studi di diritto amministrativo: continuità e cesure fra primo e secondo novecento, in Riv. trim. dir. pubbl., 2001, 1295; Cioffi, A., Due problemi fondamentali della legittimità amministrativa (a proposito di Santi Romano e di M. S. Giannini), in Dir. amm., 2009, 605). Si supera in questo modo la risalente configurazione dell’eccesso di potere come vizio della causa o dei motivi dell’atto, a favore della ricostruzione, prevalente, di «vizio della funzione» (Benvenuti, F., Eccesso di potere per vizio della funzione, in Rass. dir. pubbl., 1959, I, 1).
Nello stesso senso, la migliore dottrina evidenzia come in virtù del «nesso funzionale» (rectius: funzionalità), che caratterizza la capacità giuridica della pubblica amministrazione (Romano, A., Introduzione, cit., 11), i principi sul corretto esercizio dell’azione amministrativa vengano attratti all’area della legittimità e non relegati a semplici condizioni di convenienza od opportunità.
L’ “eccesso di potere” si collega dunque allo “sviamento” della funzione dalla finalità “tipica” (detournment de pouvoir); si prenda ad esempio il trasferimento di un pubblico dipendente, asseritamente motivato con esigenze organizzative ma che nasconde finalità di carattere disciplinare. Attorno allo “sviamento” la giurisprudenza ha configurato altre figure (cd. “sintomatiche”) di eccesso di potere che integrano il non corretto esercizio della funzione, vuoi sotto il profilo dell’istruttoria difettosa, vuoi per gli aspetti connessi ai principi di imparzialità, logicità, proporzionalità e ragionevolezza. Il “sintomo” di eccesso di potere si presenta perciò quando l’operato dell’amministrazione non appare pienamente rispettoso del complessivo regime della pubblica funzione, intesa quest’ultima come attività vincolata nel fine, doverosamente rivolta al perseguimento dell’interesse pubblico.
Particolare rilievo assume, in questo contesto, il vizio della motivazione che, oltre ad integrare una violazione di legge (art. 3, l. n. 241/1990), dimostra, non di rado, una grave disfunzione procedimentale sub specie, ad esempio, di mancata considerazione di fatti o interessi rilevanti, di irragionevolezza o illogicità della scelta, ecc. Il “sintomo” di eccesso di potere – proprio per la sua particolare struttura - può essere superato con l’indicazione dei motivi che giustificano (o rendono “ragionevoli”) l’apparente anomalia. Così ad esempio, la violazione di una circolare che stabilisce l'ordine cronologico per il trattamento delle pratiche può integrare una disparità di trattamento, a meno che l’amministrazione non chiarisca i motivi di urgenza che hanno imposto l’anticipazione del procedimento. Ed ancora, una sanzione particolarmente grave potrebbe nascondere un errore di valutazione, qualora non fossero chiare le ragioni del particolare rigore punitivo (come ad esempio, la recidiva dell’autore, le particolari modalità dell’azione, i comportamenti successivi, ecc.).
Attraverso l’eccesso di potere, e per il tramite della motivazione, si apre il quadro giuridico e fattuale della vicenda amministrativa analizzata mediante la chiave logica del procedimento. Ciò significa che l’assetto determinato dal provvedimento, nella sua stabilità e “tenuta” giuridica, dipende massimamente dalla motivazione che risulta, a sua volta, legata alla completezza del procedimento, nonché, infine, alla coerenza logica tra risultanze istruttorie e scelta finale (Ledda, F., Problema amministrativo e partecipazione al procedimento, in Dir. amm., 1993, 133; Levi, F., L’attività conoscitiva della pubblica amministrazione, Torino, 1967, 12, 26 e 161).
Motivazione e procedimento costituiscono perciò prezioso strumento per la verifica della legittimità dell’atto, nella prospettiva della legalità sostanziale: il provvedimento potrà essere considerato illegittimo anche per vizi esterni alla manifestazione di volontà ma che, intervenuti nel procedimento, ne costituiscono il motivo (erroneo). Da qui la cd. “invalidità derivata” che dai vizi del procedimento si contagia al provvedimento finale.
Attorno all’eccesso di potere, e per il tramite dei principi istituzionali, sono dunque configurati vizi della funzione, ulteriori e diversi dalla puntuale violazione di legge, che consistono, soprattutto, in difetti ed insufficienze dell’istruttoria o della motivazione, come anche in ipotesi di illogicità ed incoerenza del comportamento dell’amministrazione, disparità di trattamento ecc. (Romano, A., Art. 26, t.u. Cons. St, (r.d. 26 giugno 1924, n. 1054), cit., 1133).
4. Violazione di legge ed incompetenza
L’incompetenza è il vizio dell’atto adottato da un organo diverso da quello al quale le regole generali sull’organizzazione affidano la scelta. Si tratta, anche in questo caso, di rispettare la ripartizione dei compiti fissata, in via generale (ed in anticipo) dalla legge, dai regolamenti amministrativi oppure rinviata ad atti amministrativi generali. Tale vizio può essere esemplificato in tre ipotesi: a) incompetenza per materia (ad es. l’autorizzazione edilizia adottata dal dirigente del settore del personale); b) incompetenza per territorio (atto del Prefetto di Roma avente ad oggetto il territorio di Viterbo); c) incompetenza per grado (atto adottato dal dirigente generale anziché dal capo di dipartimento).
Il rilievo della competenza emerge sotto numerosi aspetti: anzitutto in collegamento alla “separazione” tra politica ed amministrazione; altrettanto importante è, sempre sul piano della competenza, il nesso tra istruttoria e decisione di talché l’atto finale deve essere adottato da chi ha designato il responsabile del procedimento ed ha seguito l’iter istruttorio.
Tali riferimenti lasciano comprendere il rilievo dell’incompetenza come vizio gravissimo, pesante sintomo di disfunzione; sono inficiate le regole generali sull’organizzazione poste a garanzia del corretto (trasparente e logico) esercizio della funzione pubblica (Corso, G. Validità (dir. amm.), in Enc. dir., XLVI, Milano, 1993, 94). Per questo motivo, seguendo la dottrina e la giurisprudenza prevalente, bisogna escludere che tale vizio possa essere considerato «formale o procedimentale» e, dunque, sanabile ai sensi dell’art. 21 octies, l. n. 241/90.
La «violazione di legge» è l’ipotesi residuale che comprende qualsiasi contrasto dell’atto amministrativo con il diritto vigente, e salve le ipotesi di nullità. Attraverso questo vizio il giudice amministrativo rende effettivo, e più ordinato, il complesso sistema della legge e delle fonti autonome della pubblica amministrazione, soggette dapprima allo stesso sindacato di legittimità (se impugnate) e poi, successivamente, poste a parametro della legittimità dei provvedimenti amministrativi.
5. I vizi di merito
La dottrina discute sulla configurazione dei cd. vizi “di merito” in termini di validità dell’atto amministrativo; vi è chi esclude che ai vizi di merito possano legarsi fenomeni di invalidità e considera l’ipotesi dell’annullamento del tutto eccezionale, slegata dallo stato viziato dell’atto (Piras, A., Invalidità (dir. amm.), op. cit., loc. cit.); secondo un’altra opinione il provvedimento “inopportuno” deve considerarsi viziato in senso lato tanto da potere essere annullato, nelle ipotesi di competenza estesa al merito, o mediante ricorso gerarchico o in opposizione (Cannada Bartoli, E., Annullabilità e annullamento (dir. amm.), in Enc. dir., II, Milano, 1958).
Questa seconda opinione appare preferibile proprio perché le contestazioni attinenti al merito possono essere formalmente sollevate con il ricorso gerarchico (o in opposizione) oppure avanti al giudice nelle ipotesi di giurisdizione amministrativa “estesa al merito”; con la conseguenza che l’atto potrà essere annullato anche per questo genere di vizi.
Un altro profilo di complessità attiene alla coincidenza tra l’ambito oggettuale dei cd. vizi di merito e quello dell’eccesso di potere; le due ipotesi si distinguono nel senso che l’eccesso di potere si lega alla violazione di principi giuridici generali che segnano indirettamente e metodologicamente il corretto esercizio del potere, senza fornire una precisa e specifica soluzione sul piano amministrativo. I vizi di merito, invece, riguardano la “bontà intrinseca” della scelta che, benché legittima, potrebbe risultare inopportuna o contraria a regole di convenienza.
6. Vizi formali e vizi sostanziali
La novella del 2005, con l’introduzione dell’art. 21 octies nella l. n. 241/1990, ha escluso che il provvedimento possa essere annullato qualora, per il carattere vincolato, sia palese che il relativo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. La previsione ha acceso il dibattito dottrinale; secondo una prima opinione, in presenza delle condizioni stabilite, l’atto dovrebbe essere considerato legittimo nel senso che l’ordinamento avrebbe escluso conseguenze invalidanti nel caso in cui il vizio non mortifichi la ratio delle prescrizioni violate, né il relativo valore sostanziale. Ciò in base ad una valutazione di proporzionalità tra la difformità dal parametro legale e le conseguenze (lato sensu) sanzionatorie; sino ad ammettere che l’atto non debba essere annullato allorquando i vizi appaiono “irrilevanti” o “innocui” rispetto al contenuto necessario del provvedimento. Si parla di «irregolarità per ragionevolezza della non invalidità» per indicare quelle carenze formali che non impediscono all’atto di realizzare l’assetto di interessi «prefigurato» dalla legge (Morbidelli, G., Invalidità e irregolarità degli atti amministrativi, in Annuario 2002, a cura dell’Associazione italiana dei professori di diritto amministrativo, Milano, 2003, 85, 98 e ss.; Cerulli Irelli, V., Note critiche in materia di vizi formali degli atti amministrativi, in Dir. pubbl., 2004, 190; Romano Tassone, A., Contributo sul tema dell'irregolarità degli atti amministrativi, Torino, 1993; Luciani, F., Il vizio formale nella teoria dell’invalidità amministrativa, Torino, 2003, 266, 338; Manganaro, F., Principio di legalità e semplificazione dell’azione amministrativa, Napoli, Jovene, 2000, 181 e s.; in senso critico, Foà, S., Invalidità, in Diz. dir. amm. Clarich-Fonderico, Milano, 2007, 389; Trimarchi Banfi, F., Illegittimità e annullabilità del provvedimento amministrativo, in Dir. proc. amm., 2003, 414).
Tale soluzione finisce per teorizzare una riduzione dell’ambito di rilevanza dei vizi di legittimità sollevando dubbi di compatibilità con l’art. 113 della Costituzione (Renna, M., Obblighi procedimentali e responsabilità dell’amministrazione, Dir. amm., 2005, 573; Fracchia, F.-Occhiena, M., Articolo 21 octies, comma 2, in La pubblica amministrazione e la sua azione, a cura di N. Paolantonio, A. Police e A. Zito, Torino, 2006, 630 e ss.; Follieri, E., L’annullabilità dell’atto amministrativo, in Urb. app., 2005, 625 e ss.); si eccepisce, di contro, che tale soluzione sia fondata sul canone di ragionevolezza, principale criterio di armonizzazione del sistema di tutela nei confronti della pubblica amministrazione (Sala, G., Procedimento e processo nella nuova legge 241, cit., 589 e ss.).
Secondo un’altra prospettazione, in presenza delle condizioni prescritte dall'art. 21 octies, verrebbe meno l'interesse del privato all'annullamento per l’impossibilità di ottenere il riconoscimento del bene della vita; non sarebbe perciò limitato l’ambito della tutela giurisdizionale bensì escluso (a monte) il rilievo della situazione giuridico-soggettiva dell’interessato. La nuova disposizione dimostrerebbe la possibile non coincidenza tra “illegalità” ed “illegittimità” dell’atto; a sancire la prima condizione rimarrebbe il diritto al risarcimento del danno, mentre la contrarietà dell’atto alle regole formali e procedimentali non sempre comporterebbe la relativa annullabilità (Ferrara, L., La partecipazione tra ‘illegittimità’ e ‘illegalità’. Considerazioni sulla disciplina dell’annullamento non pronunciabile, in Dir. amm., 2008, 105 e ss.; Corletto, D., Vizi «formali» e poteri del giudice amministrativo, in Dir. proc. amm., 2006, 72); avremmo così una sorta di «transito» del vizio formale e procedimentale «dall’invalidità all’illiceità» (Ferrara, L., I riflessi sulla tutela giurisdizionale, cit., 604 e 606).
Una terza spiegazione collega all’art. 21 octies una «sanatoria» dell’atto amministrativo illegittimo (Romano Tassone, A., Prime osservazioni sulla legge di riforma della L. 241/90, in www.giustamm.it, 7; Schmidt-Aβmann, L’illegittimità degli atti amministrativi per vizi di forma del procedimento e la tutela del cittadino, in Dir. amm., 2011, 474; Picozza, E., La nuova legge sull’azione e sul procedimento amministrativo. Considerazioni generali. I principi di diritto comunitario e nazionale, in Cons. St., 2005, II, 1433; D’Orsogna, M., Articolo 21 octies, comma 1, in La pubblica amministrazione e la sua azione, a cura di N. Paolantonio, A. Police e A. Zito, cit., 605 e ss.; Marrama, D., Brevi riflessioni sul tema dell’irregolarità e dell’invalidità dei provvedimenti amministrativi, cit., 364; contra, Morbidelli, G., Invalidità e irregolarità, cit., 88); si distingue, in tal senso, tra la validità del provvedimento e l'illegittimità del procedimento ritenendo che la prima condizione possa «sanare» la seconda. Spetterebbe al giudice il raffronto tra il provvedimento emanato e quello che sarebbe stato adottato nel rispetto delle regole formali e procedimentali: con la conseguenza che l’annullamento si dovrebbe escludere qualora tra i due atti non vi fossero differenze sostanziali e solo in mancanza di profili di scelta insindacabili nel merito.
I richiamati orientamenti non appaiono pienamente condivisibili; invero, appare difficile ammettere che l’art. 21 octies abbia sostanzialmente abrogato le disposizioni sulla forma e sul procedimento, oppure, addirittura, determinato la “degiuridicizzazione” delle stesse regole, riducendole a norme dispositive o di moral suasion. Una disposizione di legge, a tacer d’altro, difficilmente potrebbe cancellare le regole formali e procedimentali, anche successive, di fonte primaria e secondaria nonché, addirittura, di matrice comunitaria.
Per altro verso, non convince l’opinione di chi, accedendo alla tesi della “sanatoria”, ritiene che il giudice possa valutare la corrispondenza dell’effetto, o dell’“assetto di interessi” determinato dall’atto rispetto a “quello previsto dalla legge”. Il rilievo sarebbe scontato, se si vuol dire che l’art. 21 octies si applica alle scelte vincolate (rectius: obbligatorie ex lege). Sarebbe invece altamente problematico ammettere che il giudice amministrativo possa entrare nel merito delle scelte della pubblica amministrazione, in relazione alla cura del pubblico interesse. Né si può ritenere che lo stesso provvedimento da qualificare (con riferimento alla relativa validità) possa avere effetto sanante o correttivo: saremmo di fronte ad una petizione di principio in base alla quale l’atto legittima l’atto.
In dottrina è prevalente la soluzione “processuale” della questione dei vizi di forma e di procedimento di cui all’art. 21 octies. Si ritiene infatti che pur continuando la violazione ad integrare un vizio di legittimità, la non annullabilità dell’atto sarebbe legata a valutazioni sul contenuto del provvedimento, effettuate “ex post” dal giudice che accerta che il provvedimento non poteva essere diverso; ne consegue l’insussistenza dell’interesse a coltivare un giudizio dal quale (il ricorrente) non potrebbe ricevere alcuna utilità (Cons. St., sez. VI, 17.10.2006, nn. 6192 e 6194).
Anche questa ipotesi solleva alcune perplessità; anzitutto perché, in base ai riferiti assunti, il giudizio dovrebbe concludersi con sentenza di inammissibilità del ricorso e non con il rigetto nel merito. Inoltre, com’è stato notato, il ricorso per l’annullamento è azione costitutiva la cui utilità si coglie considerando anche l’ipotesi dello ius novorum così come ulteriori e successive vicende che potrebbero riaprire la questione sul piano sostanziale a seguito della rimozione dell’atto.
La tesi processuale è stata riproposta nel senso che, in forza dell’art. 21 octies, ed in presenza delle relative condizioni, il ricorso sarebbe «oggettivamente improponibile» per quanto attiene alla domanda di annullamento (Volpe, F., La non annullabilità dei provvedimenti amministrativi legittimi, in Dir. proc. amm., 2008, 392). La sentenza di rigetto avrebbe - d’altra parte - il valore di parziale ed implicito accoglimento della domanda, con riferimento all’illegittimità dell’atto e sarebbe idonea a passare in giudicato sul punto.
Appare tuttavia difficile ricollegare all’art. 21 octies duplice contenuto come se la disposizione (e la sentenza) potesse contenere un giudizio di valore-disvalore così complesso e, per certi versi, contraddittorio. Né - allo stato - si può ammettere che alla pronuncia di illegittimità non consegua l’annullamento dell’atto da parte del giudice (Travi, A., Accoglimento dell’impugnazione di un provvedimento e “non annullamento” dell’atto illegittimo, in Urb. app., 2011, 937; Bergonzini, G., Art. 21-octies della legge n. 241 del 1990, in Dir. amm., 2007, 258; contra, Cons. St., sez. VI, 10.5.2011, n. 2755, in Foro amm. - Cons. St., 2012, 425).
Le questioni poste dall’art. 21 octies possono essere meglio comprese richiamando l’opinione dottrinale che, ormai da tempo, ha segnalato (con qualche preoccupazione) la tendenza dell’ordinamento a svalutare le regole di cui «non sia percepibile una correlazione con gli interessi del ricorrente»: giunge ad una tappa decisiva «la questione della rilevazione dei limiti oltre i quali la non funzionalità delle scelte che l’amministrazione operi (…) non si correli alla semplice inopportunità, ma le renda addirittura illegittime» (Romano, A., I caratteri originari della giurisdizione amministrativa e la loro evoluzione, in Dir. proc. amm., 1994, 692 ss.; Corso, G., Validità (dir. amm.), in Enc. dir., XLVI, Milano, 1993, 105).
L’art. 21 octies sintetizza efficacemente tale linea evolutiva con una formula che ricomprende probabilmente ipotesi diverse sul piano teorico e che non necessariamente devono (e possono) essere riunite; anzi, lo sforzo di categorizzazione è da scoraggiare soprattutto perché non coglie la peculiarità di una regola che codifica orientamenti interpretativi già in atto (Police, A., Annullabilità e annullamento, op. cit., 63). Il legislatore, in altri termini, ha inteso avallare la tendenza in questione per come emerge in giurisprudenza, sostanzialmente ammettendo la possibilità che, nel caso concreto, si determini un particolare equilibrio tra le esigenze di legalità formale e le istanze di semplificazione amministrativa (Romano Tassone, A., Osservazioni su invalidità e irregolarità degli atti amministrativi, op. cit., 103).
Tra le diverse proposte ricostruttive risulta più convincente l’ipotesi che riconduce l’art. 21 octies, co. 2, alla sanatoria dell’atto illegittimo; tale tesi andrebbe tuttavia prospettata nel senso di considerare la sanatoria stessa quando, nonostante i vizi di forma e di procedimento, non siano stati alterati i valori di un iter istruttorio funzionalmente corretto. In questo senso, la salvezza dell’atto si può collegare al rispetto dei valori sottostanti la prescrizione violata, di modo che «il provvedimento finale non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato» in quanto risulta comunque rispettato il vincolo di funzionalità, ragionevolezza, logicità, proporzionalità, adeguata istruttoria e motivazione (Tar Sardegna, sez. II, 31.3.2006, n. 476). Il fattore sanante – in altri termini – può essere rinvenuto soltanto in elementi che l'ordinamento valuta “positivamente” e non nella semplice adozione del provvedimento illegittimo, o nella produzione degli effetti, peraltro scontata (cd. risultato); in altri termini, deve verificarsi una condizione formalmente apprezzabile, idonea a ribaltare l'originario giudizio di disvalore legato alla violazione di legge. Non si tratta di considerare “irrilevante” in astratto una prescrizione di forma o di procedimento ma di prendere atto che, sulla base di una valutazione di equipollenza, e pur in presenza del vizio, non sia stata mortificata l’esigenza di funzionalità dell’azione amministrativa (Cons. St., sez. VI, 2.3.2009, n. 1180).
Seguendo questa impostazione, la “prova di resistenza” prevista dall’art. 21 octies, co. 2, viene spesso ammessa anche a fronte del potere discrezionale, qualora il giudice valuti la sussistenza di una motivazione ampia e convincente che dimostri il pieno rispetto delle condizioni giuridiche che garantiscono la funzionalità dell’azione amministrativa (Cons. St., sez. V, 23.1.2008, n. 143; Tar Campania, Napoli, sez. VII, 4.7. 2004, n. 9369). Ciò sia per la mancata comunicazione di avvio del procedimento, sia nell’ipotesi generale prevista dalla prima frase dello stesso secondo comma.
Con la precisazione che a fronte di un “vizio assoluto” ed insanabile (absoluter Verfahrensfehler) il giudice deve considerare insostituibile, e non fungibile, la condizione (formale o procedimentale) violata. Si pensi ad una gara di appalto pubblico in cui si proceda all’apertura dei plichi al di fuori di una pubblica seduta: non si può sostenere che la mancata pubblicità della seduta non abbia inciso sul contenuto del provvedimento finale, trattandosi di adempimento posto a tutela della parità di trattamento dei partecipanti alla gara e dell'interesse pubblico alla trasparenza ed all'imparzialità dell'azione amministrativa; le cui conseguenze negative sono difficilmente apprezzabili ex post, una volta rotti i sigilli e aperti i plichi (Cons. St., A.P., 28.7.2011, n. 13; Cons. St., sez. III, 4.11.2011, n. 5866; Cons. St., sez. V, 7.11.2006, n. 6529). Si tratta, evidentemente, di condizioni di forma che non ammettono equipollenti e che, in caso di violazione, non possono essere in alcun modo “sanate”.
Anche l’esperienza comunitaria va nella stessa direzione e fornisce una chiave di lettura di grande utilità. Invero, secondo il consolidato orientamento dei giudici del Lussemburgo, la violazione dei diritti di partecipazione può condurre all’annullamento dell’atto finale soltanto quando la partecipazione degli interessati avrebbe potuto condurre il procedimento ad esiti diversi (Trib. I gr., sez. V, 8.7.2004, Technische Glaswerke, T-198/01, in Foro amm. – Cons. St., 2004, 1878); più precisamente, il provvedimento non viene annullato quando sussistono sufficienti ragioni di interesse pubblico in grado di sorreggere - logicamente e ragionevolmente la scelta anche a prescindere dalle prescrizioni procedimentali violate; ciò nel senso che la mancata considerazione di alcune informazioni rilevanti non giustifica l’annullamento qualora gli stessi elementi siano ricavabili da altre risultanze di guisa che al vizio della partecipazione, ad esempio, non si ricolleghi alcun difetto delle informazioni rilevanti (Schwarze, J., Il controllo giurisdizionale sul procedimento europeo, in Il procedimento amministrativo europeo, a cura di F. Bignami e S. Cassese, Milano, 2004, 145; C. giust., 11.11.1987, C- 259/85, punti 12 e 13 e ss.; C. giust., 14.2.1990, C-301/87, punti 29-31 e C. giust., 21.3.1990, C- 142/87, punti 46-48).
7. L’annullamento dell’atto amministrativo
L’atto illegittimo – com’è noto – produce i suoi effetti sino all’eventuale annullamento; quest’ultimo si può avere sia in sede amministrativa (in autotutela o su ricorso), sia in sede giurisdizionale. L’annullamento, dunque, «si presenta, volta a volta, con i caratteri di un mezzo posto a disposizione dell’autorità per realizzare i suoi fini istituzionali o dell’amministrato contro l’amministrazione» per i propri interessi; in ogni caso, presuppone – oltre l’illegittimità dell’atto – la sussistenza di un interesse (pubblico o privato) specifico (Santi Romano, Annullamento (Teoria dell’) nel diritto amministrativo, in Scritti minori,. II, Milano, 1990, 393; Corso, G. Validità (dir. amm.), cit., 94 e ss.; Tar Campania, Napoli, III, 29.8.2011, n. 4246; Benvenuti, F., Autotutela (Dir. amm.), in Enc. dir., vol. IV, Milano, 1959, 538).
Le implicazioni legate a questo rilievo sono molto importanti; dal carattere discrezionale dell’annullamento in autotutela deriva infatti il presupposto della sussistenza di un interesse pubblico specifico, diverso ed ulteriore rispetto alla generica esigenza di legalità (Santi Romano, Annullamento, op. cit., 393); l’interesse all’annullamento, inoltre, deve essere contemperato con gli altri interessi (pubblici e privati) parimenti coinvolti, compresa, anzitutto, la posizione dei terzi che, in buona fede, hanno fatto affidamento sulla stabilità degli effetti dell’atto. L’autotutela, inoltre, - anche se non sottoposta a precisa scadenza - deve svolgersi entro termini ragionevoli proprio nel rispetto dell'affidamento ingenerato, per la certezza del diritto e la stabilità dei rapporti giuridici (Tar Puglia, Lecce, III, 19 maggio 2011, n. 869; in dottrina sul punto, Merusi, F., Buona fede e affidamento nel diritto pubblico dagli anni “trenta” all’ “alternanza”, Milano, 2001).
Sulla base di questa evoluzione, il legislatore del 2005 ha codificato l’annullamento in autotutela, confermando il relativo carattere discrezionale in relazione al dovere di contemperare le ragioni di pubblico interesse con gli interessi dei destinatari e dei controinteressati. La relativa competenza – si afferma – deve essere esercitata entro «un termine ragionevole» dall’organo che ha emanato l’atto o da altro organo previsto dalla legge (art. 21 nonies, l. n. 241/90).
In modo parzialmente diverso si atteggia la prerogativa di autotutela in caso di violazione del diritto comunitario: lo Stato nazionale è tenuto a porre in essere tutte le azioni possibili per rimuovere l’atto viziato tenendo anche conto dell’interesse della Comunità all’effettività del proprio ordinamento; così, ad esempio, il legittimo affidamento, pur essendo pienamente riconosciuto, non può essere invocato in caso di aiuto di Stato elargito in violazione del diritto comunitario (C. giust., Grande sez., 18.7.2007, C-119/05, Lucchini Siderurgica; C. giust., sez. III, 23.2. 2006, C-346/03, Atzeni, Scalas, Lilliu).
L’annullamento in sede di controllo ha invece carattere vincolato: l’organo di controllo annulla doverosamente il provvedimento illegittimo senza margini di valutazione discrezionale.
Diversa è l’ipotesi dell’annullamento degli atti interinali destinati ad essere sostituiti; si pensi all’aggiudicazione provvisoria o ai provvedimenti amministrativi cautelari; in questo caso, invero, l’adozione dell’atto definitivo (o finale), anche se determina l’annullamento (o l’assorbimento) del precedente (e provvisorio), non richiede la sussistenza di un interesse pubblico specifico, né alcuna particolare motivazione (Tar Lazio, Roma, sez. I, 2.3.2011, n. 1930; Tar Sardegna, Cagliari, sez. I, 11.11. 2010, n. 2582).
L’annullamento - in autotutela o giurisdizionale - determina la cessazione retroattiva degli effetti: si ritorna, almeno formalmente, alla situazione precedente, con il conseguente obbligo per l’amministrazione di adeguare la situazione di fatto. Al riguardo, come precisato in dottrina, sono comunque salvi gli effetti indiretti dell’atto annullato, di talché venendo meno quest’ultimo essi rimangono in piedi (Santi Romano, Annullamento, op. cit., 394).
Da ultimo va segnalato il recente (e non consolidato) orientamento giurisprudenziale che – facendo leva sul primo comma dell’art. 34 del c.p.a. – attribuisce al giudice il potere di adottare una sentenza che, senza annullare il provvedimento illegittimo, determini un effetto esclusivamente conformativo del successivo esercizio della funzione pubblica; ciò – si afferma – quando l’annullamento del provvedimento impugnato sarebbe soluzione «incongrua e manifestamente ingiusta ovvero in contrasto col principio di effettività della tutela giurisdizionale» (Cons. St., 10.5.2011, n. 2755, in Foro amm. - Cons. St., 2012, 425, con nota di Feliziani; critica l’orientamento, Travi, A., Accoglimento dell'impugnazione di un provvedimento e «non annullamento» dell'atto illegittimo, cit., 937, e Villata, R., Ancora “spigolature” sul nuovo processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 2011, 1513).
Sono state altresì chiarite le conseguenze dell’annullamento sugli atti amministrativi successivi e conseguenti; secondo la regola generale, tali atti non sarebbero automaticamente travolti dall’annullamento dell’atto principale, pur essendo essi stessi illegittimi ed annullabili (cd. «efficacia invalidante»). Qualora tuttavia tra due atti sussista una relazione di stretta presupposizione, l’annullamento dell’atto presupposto potrebbe intendersi riferito anche al secondo (cd. «efficacia caducante»). La distinzione tra le due ipotesi – com’è stato notato – va risolta caso per caso, sul piano interpretativo (Santi Romano, Annullamento, op. cit., 395 e s.; Cons. St., sez. V, 11.3.2005, n. 1023).
Nella direzione opposta all’annullamento volge invece la convalida del provvedimento; in questo caso, la pubblica amministrazione corregge un proprio atto emendandolo dai relativi vizi. La novella del 2005 – sulla base di consolidati orientamenti giurisprudenziali - ha riconosciuto questa facoltà alla pubblica amministrazione in via generale, compresa la possibilità di convalida in corso di giudizio (Cons. St., sez. IV, 14.10.2011, n. 5538).
La questione è complessa; invero, se la convalida produce gli effetti ex tunc, bisogna escludere questa possibilità rispetto ad atti discrezionali, ed in relazione a vizi differenti da quelli formali. Qualora infatti la scelta discrezionale fosse viziata sul piano sostanziale, ed in relazione ai principi sul corretto esercizio della funzione, si potrebbe soltanto “rinnovare” l’atto mediante un nuovo provvedimento o una nuova ponderazione compartiva. Ciò a maggior ragione deve ritenersi in caso di impugnativa giurisdizionale dell’atto, nel senso che non si può ammettere l’integrazione o la sostituzione retroattiva della scelta discrezionale viziata semplicemente perché la “convalida” richiederebbe il rinnovo o l’integrazione dell’istruttoria o della motivazione (Tar Veneto, Venezia, sez. I, 28.4.2008, n. 1118; Tar Toscana, Firenze, sez. I, 20.3.2008, n. 411; Tar Friuli Venezia Giulia, Trieste, sez. I, 30.8.2006, n. 585; Corso, G., Manuale di diritto amministrativo, Torino, 2010, 296; Cerulli Irelli, V., Lineamenti di diritto amministrativo, Torino, 2011).
Non è perciò condivisibile l’orientamento giurisprudenziale prevalente che – sulla base all’art. 21 nonies, l. 7.8.1990, n. 241 – ammette la sanabilità dei vizi sostanziali sottolineando che in base alla nuova disposizione non sussistono limitazioni esplicite in questo senso (Tar Lazio, Latina, sez. I, 25.5.2011, n. 424).
8. Gli effetti dell’annullamento giurisdizionale
Particolarmente controverso e problematico è il tema delle conseguenze dell’annullamento giurisdizionale sulla successiva azione amministrativa. Vi è che la rimozione dell’atto talvolta non determina il vantaggio sostanziale ricercato dal ricorrente, né elide il potere della pubblica amministrazione di provvedere sulla questione in modo non del tutto soddisfacente.
Le opinioni dottrinali non sono concordi sul punto; vi è chi ritiene che il giudicato (di annullamento) copra “il dedotto ed il deducibile” di talché la sentenza possa condizionare pienamente il successivo “rapporto amministrativo”. Soluzione che, secondo altri, non è attuabile a prescindere dall’ambito dell’accertamento giudiziale e, dunque, con riferimento agli elementi rimasti del tutto estranei alla verifica giudiziale.
La dottrina ha individuato, con sempre maggiore precisione, i contenuti del giudicato idonei a determinare vincoli e doveri nella successiva azione amministrativa, senza tuttavia giungere ad ammettere la piena definizione (rectius: conformazione) del rapporto sostanziale attraverso la sentenza di annullamento (Nigro, M., Giustizia amministrativa, Bologna, 1983, 395; Sassani, B., Dal controllo del potere all’attuazione del rapporto, Milano, 1989, 117 ss. e 129 ss.; Police, A., Annullabilità e annullamento, cit., 71 e s., ed ivi per gli ampi richiami dottrinali). Si tratta, per l’appunto, di conciliare la titolarità amministrativa del potere (che non viene meno del tutto) e l’effettività della tutela, sub specie di garanzia dei diritti dei cittadini nei confronti della pubblica amministrazione.
Convince la soluzione prevalente sul piano giurisprudenziale, con riferimento agli atti contrari al giudicato: l’amministrazione è obbligata alla piena e soddisfacente esecuzione del giudicato compreso il dovere di conformarsi alle indicazioni con le quali il giudice, in collegamento all’illegittimità accertata, stabilisce quale debba essere il corretto esercizio del potere (Cons. St., sez. VI, 22.9.2008, n. 4563); con la conseguente nullità (tamquam non esset) degli atti contrastanti o elusivi del giudicato. La violazione del decisum giurisdizionale integra perciò un vero e proprio inadempimento con conseguente carenza di potere della pubblica amministrazione e nullità degli atti in contrasto o elusivi del giudicato.
Fonti normative
Si rinvia ai richiami contenuti nel testo.
Bibliografia essenziale
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