Abstract
La voce esamina questa figura nell’ambito della invalidità del contratto. Evidenzia i caratteri propri dell’azione di annullamento in rapporto con gli altri rimedi contro i vizi del contratto. Particolare attenzione è dedicata agli effetti rispetto ai terzi della pronuncia di annullamento, così come della prescrizione dell’azione.
La partizione della invalidità in nullità e annullabilità è stata introdotta dal codice vigente: il precedente del 1865 rimaneva fermo alla previsione generale della nullità, secondo la migliore tradizione francese. L’annullabilità del contratto o dell’atto unilaterale dipende dall’art. 1418, co. 1, c.c., secondo il quale «il contratto è nullo quando è contrario a norme imperative, salvo che la legge disponga diversamente». La fonte dell’annullabilità, quindi, è quella norma imperativa, che, disponendo diversamente, tassativamente prevede questo rimedio; proprio per questa ragione non si può porre il tema delle annullabilità virtuali, mentre e attuale quello delle nullità virtuali.
Dall’interpretazione della medesima norma discende che la nullità è il vizio genetico di portata generale, mentre l’annullabilità è speciale. Tradizionalmente gli interpreti fanno seguire altresì che le violazioni per le quali è data la nullità sono poste a tutela di interessi generali, mentre quelle per le quali è prevista l’annullabilità sono poste a tutela degli interessi di una delle parti. Proprio per questo l’azione di nullità è imprescrittibile (art. 1422 c.c.); chiunque vi abbia interesse può farla valere, anche il giudice d’ufficio (art. 1421 c.c.); il contratto nullo non può essere convalidato, per norma generale (art. 1423 c.c.). Questa classificazione va conservata, sebbene la recente legislazione abbia introdotto cd. nullità di protezione degli interessi del consumatore o del risparmiatore, che, secondo l’impianto sistematico del codice civile, verosimilmente dovrebbero essere collocate fra le cause di annullamento dell’atto. La riserva di legge contenuta negli artt. 1421 e 1423 c.c. conferma l’esistenza di un sistema che contempla eccezioni alla regola.
Sul piano terminologico, l’annullabilità indica la condizione di un atto affetto da un vizio che, con una particolare procedura di annullamento, appunto, procede verso la sua caducazione. Così come la nullità, seppure con diversa portata e funzione, anche l’annullabilità determina l’invalidazione del contratto o dell’atto unilaterale, dunque la sua inefficacia.
Le figure di annullabilità del contratto in generale derivano da incapacità legale o naturale di una parte e dall’aver concluso contratti per effetto di vizi del consenso; le ipotesi speciali sono quelle espressamente previste dalla legge: ad esempio quella del rappresentante che concluda un contratto in conflitto di interessi (art. 1394 c.c.). L’annullamento per interdizione legale derivante dalla condanna all’ergastolo, o ad una pena superiore a cinque anni per un delitto non colposo (artt. 32 e 33 c.p.), ha carattere sanzionatorio, mentre tutte le altre mirano a proteggere la sfera giuridica del disponente, lesa dall’atto di autonomia imperfetto, in coerenza con l’architettura dell’art. 1441 c.c.
Il sistema delle invalidità collegate al contratto di società per azioni segue regole diverse da quelle del contratto nel Libro IV del codice civile. Si suole comunemente affermare che, nel Libro V, le cause di nullità si convertono in cause di annullamento per effetto dell’art. 2377 c.c., fatte salve le ipotesi di «mancata convocazione dell’assemblea, di mancanza del verbale e di impossibilità o illiceità dell’oggetto la deliberazione», come dispone l’art. 2379 c.c. Diversa regola seguono anche le delibere della comunione (art. 1109 c.c.) e le delibere del condominio (art. 1137 c.c.).
L’art. 1446 detta una disciplina corrispondente a quella dell’art. 1420 c.c.: nei contratti plurilaterali, con comunione di scopo, «l’annullabilità che riguarda il vincolo di una sola delle parti non importa annullamento del contratto, salvo che la partecipazione di questa debba, secondo le circostanze, considerarsi essenziale». Il caso tipico di applicazione dell’art. 1446 c.c. è quello del contratto di associazione nel quale la partecipazione di una parte è invalida, ad esempio per incapacità dell’associato.
La ratio dell’art. 1446 c.c. è quella di conservare il contratto, salvo che la partecipazione invalida di una parte sia stata a tal punto determinante il consenso delle altre da renderne inutile la conservazione. La valutazione sulla essenzialità della partecipazione va espressa in termini oggettivi, avuto riguardo allo «scopo perseguito dalle parti» nella conclusione del contratto.
La parte è complessa se più soggetti costituiscono il medesimo centro di imputazione di diritti e di doveri, sicché la partecipazione di tutti gli interessati nel giudizio è necessaria. Ciò accade quando: a) il contratto è stato concluso dal de cuius, quando l’impugnazione è proposta da un solo erede; b) il contratto è stato concluso dall’inabilitato con il consenso del curatore, se questo sia viziato; c) il contratto vede più comproprietari o più acquirenti; d) il contratto concluso in seguito ad un bando di concorso privato, se l’impugnazione è proposta da singoli concorrenti soltanto. La particolarità di queste vicende è che non si può escludere in capo ad alcuno di questi soggetti il potere di impugnazione, né si potrebbe sostenere che ciascuno di questi impugna per la propria quota o per la propria posizione singola.
La giurisprudenza ammettere la legittimità dell’iniziativa dei singoli soggetti, ma decide che la vicenda debba essere risolta nel contraddittorio di tutti, sicché queste cause danno luogo ad un litisconsorzio necessario (art. 102 c.p.c.).
La regola dell’annullabilità è applicabile anche agli atti unilaterali tra vivi, aventi contenuto patrimoniale, come dispone l’art. 1324 c.c. Così, ad esempio, il requisito della riconoscibilità dell’errore è stato esteso anche agli atti unilaterali recettizi (Cass., 9.9.1978, n. 4090, in Mass. Foro it., 1979), oltre che ai «contratti unilaterali, come la fideiussione gratuitamente prestata, nei quali vi sia un controinteressato alla dichiarazione» (Cass., 1.10.1993, n. 9777, in Foro it., 1994, I, 429; e in Giur. it., 1994, I, 1, 1536, con nota di Chinè, G.); che anche l’art. 1430 c.c. è applicabile agli atti unilaterali (Trib. Milano, 23.4.1981, in Banca borsa, 1982, II, 293).
Talvolta è il legislatore che ha diversamente regolato l’atto e il contratto, così l’art. 428 c.c. distingue nella disciplina l’annullamento per incapacità naturale del contratto rispetto all’atto unilaterale; l’art. 1414, co. 3, c.c., invece, equipara al contratto la simulazione dell’atto unilaterale recettizio. Altre volte è l’interprete che deve impiegare la corretta disciplina previa valutazione sulla compatibilità, come è previsto dall’art. 1324 c.c. In concreto, sono direttamente compatibili all’atto unilaterale le norme sul contratto che non presuppongono la bilateralità o la plurilateralità del rapporto; mentre non lo sono quelle che lo presuppongono. Ancora: si dovrà distinguere a seconda che l’atto unilaterale sia o non sia recettizio. Così, ad esempio, l’errore nell’atto unilaterale recettizio di recesso comporta la valutazione sulla sua riconoscibilità da parte del destinatario; mentre questa deve essere esclusa nella promessa al pubblico. L’atto unilaterale recettizio resta tale, tuttavia non è indifferente la posizione del destinatario certo, pertanto si può condividere la tesi che richiede la consapevolezza del raggiro da parte di colui che ne ha tratto vantaggio, per l’ipotesi del dolo del terzo dell’art. 1439, co. 2, c.c. (Galgano. F., Introduzione, in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1998, sub art. 1425-1446, 78). È questa un modo per applicare il criterio di compatibilità stabilito dall’art. 1324 c.c.
La legittimazione ad agire per l’annullamento dell’atto è prevista in generale dall’art. 1441 c.c. ed ora anche dall’art. 412 c.c., per l’amministrazione di sostegno; queste norme, lette coordinatamente con l’art. 1421 c.c., consentono di differenziare l’annullamento dalla nullità. La regola è che l’annullamento è dato soltanto nei confronti di coloro il cui interesse è stabilito dalla legge, fermo restando che l’interesse qui in questione deve trovare adeguato fondamento pure nell’art. 100 c.p.c. La natura sanzionatoria dell’interdizione legale giustifica l’art. 1441, co. 2, c.c., per il quale questo vizio può essere dedotto da chiunque vi ha interesse.
L’interessato al quale fa menzione l’art. 1441, co. 1, c.c. è la parte che subisce lesione dalla conclusione del contratto, non invece l’altro contraente: l’incapace, chi cade in errore, chi subisce una violenza o colui il cui consenso è stato carpito con dolo. Se il contratto è stato concluso da un rappresentante, sarà il rappresentato a poter impugnare il contratto viziato, ed ai sensi dell’art. 428 c.c. il grave pregiudizio è quello subito dal rappresentato. Interessato è pure il destinatario di un atto unilaterale dal quale possa derivare pregiudizio: così è per il destinatario di una procura viziata o per il destinatario di una promessa o di un’offerta al pubblico. Per questa ragione il vizio della procura alle liti, rilasciata dalla persona in stato di incapacità naturale, non può essere fatto valere dalla controparte nel processo (Cass., sez. lav., 28.10.2003, n. 16223, in Mass. Foro it., 2003).
Alla figura dell’interessato talvolta si affianca quella dell’erede, dell’avente causa alla quale va ricondotta quella del legatario e del cessionario del contratto.
Legittimato passivo dell’azione di annullamento è l’altra parte contrattuale o colui che sia succeduto in tale posizione. Così legittimato passivo potrà essere l’erede della parte che abbia tratto vantaggio dal contratto concluso invalidamente, così come, ad esempio, l’ente che sia subentrato in tutti i rapporti del dante causa per effetto di fusione.
Se si tratta di un atto giuridico, legittimato passivo è colui che subisce gli effetti sfavorevoli: il promissario, per la promessa di pagamento, la ricognizione di debito o la promessa al pubblico; il rappresentante; il remissario e così via.
Una speciale legittimazione è attribuita al pubblico ministero dall’art. 2098 c.c., a proposito dell’impugnativa del contratto di lavoro concluso in violazione delle norme sul collocamento (Trib. Milano, 24.5.2002, in Riv. crit. dir. lav., 2002, 742). Ancora al pubblico ministero è attribuita la competenza ad impugnare in base all’art. 848 c.c. il contratto di trasferimento dei terreni o dei diritti sui terreni, annullabile se sono frazionate le minime unità culturali indicate nell’art. 846 c.c. Qui il termine di prescrizione è triennale.
L’art. 412, co. 1, c.c. ha attribuito al pubblico ministero una nuova legittimazione: «gli atti compiuti dall’amministratore di sostegno in violazione di disposizioni di legge, od in eccesso rispetto all’oggetto dell’incarico o ai poteri conferitigli dal giudice, possono essere annullati su istanza dell’amministratore di sostegno, del pubblico ministero, del beneficiario o dei suoi eredi ed aventi causa»; beninteso la “e” ha qui funzione disgiuntiva. Con questa disposizione il legislatore ha voluto garantire effettività all’interesse pubblico perseguito con la nomina dell’amministratore di sostegno (Bonilini, G.-Chizzini, A., a cura di, L’amministrazione di sostegno, Padova, 2004, 222 s.).
L’art. 427, co. 2, c.c. indica anche i legittimati attivi ad instare per annullamento degli atti dell’interdetto. Una volta cessata l’interdizione, l’ex l’interdetto può impugnare i contratti conclusi (Cass., 22.12.1995, n. 13068, in Mass. Foro it., 1995), fino a quel momento competente è il tutore o gli eredi e aventi causa dell’interdetto (Forchielli, P., Dell’infermità di mente, dell’interdizione e dell’inabilitazione, in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1988, sub art. 427, 47). Questa lettura è coerente con la previsione degli artt. 429 e 431 c.c., in tema di revoca dello stato di interdizione.
Legittimati ad impugnare gli atti compiuti in violazione dell’art. 378 c.c. sono il minore, i suoi eredi o gli aventi causa, non invece il tutore o il protutore che abbiano personalmente compiuto l’atto. La ragione dell’esclusione del tutore e del protutore è che, avendo costoro negoziato in proprio, ragionevolmente eserciterebbero il potere di impugnativa nel proprio interesse e non invece in quello del minore (Dell’Oro, A., Della tutela dei minori, in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1979, 243). Analoga regola è dettata dall’art. 323 c.c., che pone il divieto per i genitori di rendersi acquirenti di alcun diritto verso i figli soggetti alla loro potestà. La ratio di queste disposizioni è di evitare un evidente conflitto di interessi che si verificherebbe compiendo l’atto.
Per la legittimazione ad impugnare gli atti compiuti dai genitori o dal tutore in conflitto di interessi o in mancanza delle autorizzazioni richieste dalla legge, o dall’amministratore di sostegno, è sufficiente richiamare gli artt. 322 e 377 c.c.
L’art. 427, co. 3, c.c. dispone che l’annullamento degli atti dell’inabilitato può essere richiesta dallo stesso inabilitato, dai propri eredi o dagli aventi causa; analoga situazione riguarda l’emancipato.
Per l’amministrazione di sostegno la norma di riferimento è l’art. 412 c.c. La regola è che «gli atti compiuti personalmente dal beneficiario in violazione delle disposizioni di legge o di quelle contenute nel decreto che istituisce l’amministrazione di sostegno» possono essere annullati «su istanza dell’amministratore di sostegno, del beneficiario, o dei suoi eredi ed aventi causa» (art. 412, co. 2, c.c.). La disciplina dell’attività non autorizzata è regolata dall’art. 322 c.c., per i genitori; e dall’art. 377 c.c., per il tutore, la stessa norma è estesa all’amministratore di sostegno dall’art. 411, co. 1, c.c. Per quest’ultima, il successivo art. 412, co. 1, c.c. equipara alla mancanza di autorizzazione dell’amministratore di sostegno anche quella svolta «in eccesso rispetto all’oggetto dell’incarico o ai poteri conferitigli dal giudice.
Legittimati a far valere l’incapacità naturale sono lo stesso incapace, i suoi eredi o gli aventi causa, come dispone l’art. 428, co. 1, c.c. È altresì legittimato il tutore dopo la nomina per gli atti compiuti anteriormente dall’incapace, se vi sono tutti i presupposti per l’applicazione dell’art. 428 c.c. Sempre che ricorra il requisito del grave pregiudizio, dallo stesso inabilitato sono altresì impugnabili gli atti di ordinaria amministrazione (Napoli, V.E., L’infermità di mente, l’interdizione, l’inabilitazione, in Comm. Schlesinger, cit., sub art. 428, 293).
Legittimati ad agire sono ancora gli eredi o gli aventi causa dall’incapace. In sostanza possono proporre istanza i successori inter vivos o mortis causa che subentrano nella stessa posizione dell’incapace. Si faccia l’ipotesi che l’interdetto abbia acquistato un immobile e che il tutore successivamente lo abbia ceduto: qui l’acquirente potrà chiedere l’annullamento del contratto concluso dall’interdetto, ai sensi dell’art. 427, co. 2, c.c., poiché si troverà nella condizione di avente causa tutelato dalla norma. Tra gli aventi causa sono dunque da annoverare solo coloro che, con successivo contratto, hanno acquistato dall’incapace lo stesso diritto il cui precedente titolo di acquisto era impugnabile (Dell’Oro, A., Della tutela dei minori, in Comm. Scialoja-Branca, cit., 233).
Nella stessa condizione giuridica dell’acquirente dall’incapace si trova anche il legatario, anch’egli avente causa, ma non il creditore del minore, dell’interdetto, del beneficiario dell’amministrazione di sostegno, dell’incapace naturale, il quale potrà agire soltanto con l’azione surrogatoria.
Quanto alla legittimazione degli eredi, di deve aderire all’opinione che attribuisce a ciascuno il potere di iniziare il giudizio, fermo restando il litisconsorzio necessario fra tutti (Sacco, R.-De Nova, G., Il contratto, II, Torino, 1993, 538 ss.).
Tra le parti, la sentenza di annullamento fa cadere gli effetti del contratto fin dall’origine, analogamente a quanto accade con la sentenza di nullità e con quella di risoluzione del contratto, nei limiti dell’art. 1458, co. 1, c.c. La sentenza è costitutiva, poiché essa stessa dà titolo ad agire per le ripetizioni di quanto è stato dato o prestato in esecuzione di un contratto che non esiste più. L’osservanza delle regole sull’indebito comporta la rilevanza della buona o della mala fede dell’accipiens, ai sensi dell’art. 2033, co. 1, c.c. (Cass., sez. lav., 18.9.1995, n. 9865, in Mass. Foro it., 1995). A questa regola fa eccezione soltanto l’art. 2126, co. 1, c.c., per il quale «la nullità o l’annullamento del contratto di lavoro non produce effetto per il periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione, salvo che la nullità derivi dall’illiceità dell’oggetto o della causa».
La regola stabilita nell’art. 1443 c.c. pone una limitazione alla ripetibilità delle prestazioni eseguite alla parte incapace legale o naturale: il contraente incapace è tenuto a restituire la prestazione o la cosa ricevute nei limiti in cui queste sono state rivolte a suo vantaggio. Questa norma costituisce una diretta applicazione di altre: il principio generale è fissato dall’art. 2039 c.c. (Messineo, F., Annullabilità e annullamento, in Enc. dir., II, Milano, 1958, 480), il quale vede a sua volta nell’art. 1190 c.c. un’ulteriore applicazione nel diverso ambito dell’adempimento. Si ritiene che la norma riguardi tanto l’incapace legale, quanto l’incapace naturale (Rescigno, P., Incapacità naturale e adempimento, Napoli, 1950, 129 ss.).
Gli effetti rispetto ai terzi sono diversi per la nullità, per l’annullamento (art. 1445 c.c.), per la rescissione (art. 1452, co. 2, c.c.), per la risoluzione (art. 1458, co. 2, c.c.). Fatti salvi gli effetti della trascrizione della domanda, l’annullamento del contratto non pregiudica i diritti acquistati a titolo oneroso dai terzi di buona fede, salvo che l’annullamento sia dipeso da incapacità legale, nel qual caso c’è un’equiparazione negli effetti con la pronuncia di nullità. Disposizioni specifiche sono dettate per l’annullamento della deliberazione di un’associazione che ha avuto esecuzione, secondo l’art. 23 c.c., e della delibera di una società, secondo l’art. 2377, co. 7, c.c. In entrambe le ipotesi l’esecuzione della delibera accompagnata dalla buona fede del terzo comportano la inopponibilità della pronuncia di annullamento.
Con l’art. 1445 c.c. il legislatore non ha voluto equiparare negli effetti verso i terzi la incapacità legale alla incapacità naturale; allo stesso modo si vedrà per il decorso della prescrizione nell’art. 1442 c.c. Il contratto perde efficacia rispetto alle parti fin dall’origine, ma per certi terzi, secondo il tipo di annullabilità, il contratto successivamente concluso resta fermo: è opponibile. Così chi acquista un bene in forza di un contratto annullabile, subirà gli effetti della sentenza di annullamento. Ma se lo stesso bene è stato successivamente alienato ad un nuovo acquirente che ignorava la causa di annullamento, questi potrà opporre il proprio acquisto, nonostante l’annullamento del precedente contratto; non potrà farlo invece se il titolo del suo acquisto è una donazione; e neppure se il dante causa del suo venditore era incapace legale o se il suo rappresentante legale non aveva osservato le formalità richieste per legge.
La buona fede del terzo va intesa in senso soggettivo, dunque come ignoranza di ledere un altrui diritto (art. 1147 c.c.).
La regola posta nell’art. 1445 c.c. opera per regolare il conflitto dei diritti, dunque si pone sul piano della opponibilità del contratto e non su quello delle vicende soggettive, come ad esempio l’art. 1153 c.c. o gli altri acquisti della proprietà a titolo originario. Tuttavia occorre tener conto delle une come delle altre. Così, ad esempio, i terzi, ancorché di buona fede, non potranno opporre il loro contratto, una volta che la domanda di annullamento sia stata trascritta, ai sensi dell’art. 2652, co. 1, n. 6, c.c. per i beni immobili, o dell’art. 2690, co. 1, n. 3, c.c., per i beni mobili registrati: la sentenza di annullamento farà stato anche nei loro confronti, poiché il loro acquisto è stato trascritto successivamente. Invece i terzi di buona fede potranno opporre la trascrizione sanante dell’art. 2652, co. 2, n. 6, primo inciso, c.c., qualora: a) la trascrizione della domanda di annullamento sia effettuata dopo cinque anni dalla trascrizione del contratto impugnato; b) il contratto da opporre, ancorché a titolo gratuito, sia stato trascritto prima della domanda di annullamento.
Per di più, i terzi di buona fede, che abbiano acquistato a titolo oneroso, potranno opporre la trascrizione sanante dell’art. 2652, co. 2, n. 6, secondo inciso, c.c. qualora: a) la causa dell’annullamento sia diversa dall’incapacità legale: incapacità naturale, un vizio del consenso o in tutti gli altri casi; b) il contratto da opporre sia stato trascritto anteriormente alla domanda di annullamento, sebbene la trascrizione dell’impugnazione sia stata effettuata prima di cinque anni da quella dell’atto impugnato.
Nell’art. 1442 c.c. è disciplinata la prescrizione per l’azione di annullamento ed è fissato il termine in cinque anni. In applicazione dell’art. 1323 c.c., si ritiene che questo termine valga anche per i contratti nei quali l’esercizio dei diritti sia subordinato ad un termine inferiore, salvo che non sia disposto diversamente (Cass., 4.4.1990, n. 2798, in Giur. it., 1991, I, 1, 456).
All’art. 1442 c.c. si sottraggono le impugnazioni alle delibere della comunione (art. 1109 c.c.), alle delibere di condominio (art. 1137 c.c.), alle delibere delle società di capitali (art. 2377 c.c.) e le impugnazioni fondate sull’art. 184 c.c. (Cass., 19.2.1996, n. 1279, in Vita not., 1996, 872). Per questi casi la legge si avvale anziché della prescrizione quinquennale di un più breve termine di trenta giorni, nei primi due casi, di novanta giorni nel terzo e di un anno nell’ultimo. Altra eccezione è prevista nell’art. 2098 c.c., a proposito della domanda di annullamento del contratto di lavoro concluso in violazione delle norme sul collocamento, proposta dal pubblico ministero. Su denuncia dell’ufficio di collocamento, la domanda è proponibile soltanto entro un anno dall’assunzione del prestatore di lavoro, fatte salve le sanzioni di carattere penale. Per l’impugnazione delle delibere delle associazioni, invece, nulla è previsto, sicché vale il termine quinquennale dell’art. 1442 c.c.
Il termine per proporre l’annullamento si interrompe soltanto con l’esercizio dell’azione giudiziale. L’impugnazione del contratto, infatti, non è assimilabile all’esercizio di un diritto di credito, di conseguenza l’altra parte non può essere messa in mora (art. 2943, u.co., c.c.). Resta inteso che la prescrizione risulta ugualmente interrotta, seppure la causa sia stata irregolarmente radicata, come si verifica in seguito ad un errore sulla competenza del giudice adito o ad un difetto dell’attore in causa per mancanza di una autorizzazione.
La disciplina della sospensione della prescrizione è quella tipica degli artt. 2941 e 2942 c.c.
La differenza tra la incapacità legale e la incapacità naturale trova corrispondenza anche nella disciplina della prescrizione dell’azione di annullamento. Invero dal tenore della norma si desume che la decorrenza del termine per l’annullamento per incapacità legale decorre dal momento in cui «è cessato lo stato d’interdizione o d’inabilitazione, ovvero il minore ha raggiunto la maggiore età». Nulla è detto invece per la incapacità naturale, pertanto si deve ritenere che questo termine decorra dalla conclusione del contratto, ai sensi dell’art. 1442, co. 3, c.c. (Cass., 22.8.1990, n. 8557, in Mass. Foro it., 1990).
La regola posta dall’art. 1442, co. 2, c.c. vale soltanto per l’incapacità legale. Pertanto l’atto compiuto dall’incapace prima della sentenza dell’art. 421 c.c., impugnabile ex art. 428 c.c., consente il decorso della prescrizione dopo quella sentenza (Cass., 25.3.1993, n. 3589, in Foro it., 1994, I, c. 3203). Eventualmente può invocarsi la causa di sospensione prevista dall’art. 2942, n. 1, c.c. (Cass., 2.6.1993, n. 6169, in Vita not., 1994, 240).
Qualora il contratto sia concluso per effetto di un vizio del consenso, dispone l’art. 1442, co. 2, c.c., il termine decorre dal momento della scoperta di quel vizio o dalla cessazione della violenza, regole queste applicabili anche al testamento (art. 624, co. 3, c.c.). La scoperta dell’errore, motivo o ostativo, coincide con il momento in cui cessa la falsa rappresentazione della realtà o si scoprono circostanze in precedenza ignorate, senza che sia ulteriormente necessaria la consapevolezza di poter far valere in concreto un diritto. Considerazioni analoghe valgono per il dolo.
La prova della data della scoperta del vizio incombe all’attore, una volta che il convenuto abbia eccepito la prescrizione, ancorché genericamente. Ciò accade quando la scoperta del vizio avvenga cinque anni dopo la data della conclusione del contratto.
L’art. 1442, u. co., c.c. prevede che l’annullabilità possa essere opposta dalla parte convenuta per l’esecuzione del contratto, anche se è prescritta l’azione per farla valere. Tale regola è riproposta negli artt. 1495, co. 2; 1667, com. 3, c.c., mentre l’art. 1449 c.c. dispone la prescrizione anche dell’eccezione (Azzariti, G.-Scarpello, G., Della prescrizione e della decadenza, in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1972, 216). In concreto, la parte convenuta per l’adempimento può eccepire l’annullamento del contratto e così paralizzare la domanda dell’attore.
Non occorre seguire formule o speciali modalità per eccepire l’annullamento; tecnicamente deve qualificarsi come eccezione riconvenzionale, non già come domanda riconvenzionale. Sicché nel giudizio non si formerà il giudicato sull’annullamento del contratto, semplicemente verrà rigettata la domanda attorea, poiché l’eccezione è capace di paralizzarne gli effetti. Sulla base della mera eccezione di annullamento, quindi, non potrà seguire la condanna alle ripetizioni, posto che questa presuppone una pronuncia costitutiva sul punto dell’annullamento.
Alla domanda di annullamento, così come a quella di nullità, l’attore può accompagnare quella di risarcimento del danno per la lesione dell’interesse contrattuale negativo (art. 1338 c.c.) e a certe condizioni anche dell’interesse contrattuale positivo. Tra le due azioni non sussiste un rapporto di pregiudizialità o di complementarità necessaria; sicché la domanda di risarcimento del danno non richiede pregiudizialmente l’esperimento della domanda di annullamento ed il primo rimedio può essere concesso, sebbene il contratto resti valido. Proprio in quest’ultimo caso si pone la questione della risarcibilità anche dell’interesse contrattuale positivo, anche se non ricorre tecnicamente la figura del dolo incidente (art. 1440 c.c.) (Cass., S.U., 19.12.2007, n. 26725 e n. 26724, in Giust. civ., 2008, I, 2785).
Nello studio dell’annullamento, il tema del risarcimento del danno è ricorrente. Così, ad esempio: a) se il minore che con raggiri abbia occultato la sua età, si espone al rischio di dover risarcire il danno, qualora il contratto venga annullato (art. 1426 c.c.); b) se il destinatario dell’atto unilaterale è in mala fede, può essere tenuto al risarcimento, nonostante l’atto compiuto dal dichiarante resti valido; c) se il destinatario della dichiarazione sia caduto in errore, può agire per il risarcimento nei confronti del dichiarante che con colpa sia caduto in errore, ai sensi dell’art. 1338 c.c.; d) il destinatario della minaccia può agire nei confronti del minacciante per ottenere il risarcimento; e) la parte il cui consenso sia stato carpito con dolo, può agire per il risarcimento.
Il risarcimento derivante da un contratto astrattamente annullabile è un rimedio che si contrappone a quello della rettifica dell’art. 1432 c.c. L’offerta in rettifica presuppone che il danno non si sia ancora verificato in capo all’altra parte; l’operatività della rettifica, dunque, impedisce il verificarsi di un danno e, pertanto, preclude la domanda di risarcimento.
Artt. 412; 427-428; 1109, 1137; 1324; 1394; 1418-1446; 1449, 1458; 2377-2379; 2652 c.c.
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