CERVI, Annunzio
Nacque a Sassari, il 6 agosto 1892, in una famiglia della agiata borghesia locale, da Antonio e Costanza Cabras. Compiuti gli studi classici e quelli universitari presso la facoltà di lettere di Napoli, si segnalò tra gli ingegni più vivaci e le voci poetiche più autonome del gruppo dei cosiddetti "avanguardisti" napoletani, che facevano capo alla rivista La Diana. All'aura peculiare di questo periodico, che conobbe un momento di particolare fortuna quando per un po' funse da ideale collegamento di molti giovani intellettuali al fronte, è legata prevalentemente la memoria del Cervi. Da parte del suo più fedele studioso nonché amico e compagno di avventure letterarie, Lionello Fiumi, si è anzi cercato più volte di riproporre all'attenzione la poesia del C. come compartecipe, se non precorritrice, del radicale rinnovamento ungarettiano, proprio in grazia soprattutto dei molti punti di contatto determinati dalla scelta della stessa tematica bellica e dalla comune esperienza nell'ambito della Diana.
È un fatto però che il C. appaia come incapsulato nel circuito tra crepuscolarismo e futurismo, allo stesso modo in cui più in genere la cultura della rivista napoletana sembra fortemente condizionata da una problematica prima generazionale e contingente che autenticamente novecentesca. Ciò anche se alla rivista collaborarono, tra gli altri, Borgese, Buzzi, Croce, Di Giacomo, Folgore, Govoni, Jahier, Lipparini, Onofri, Papini, Soffici, Ungaretti e Vigolo, facendone effettivamente il punto di incontro delle migliori energie della nuova letteratura. La breve parabola del C., che fece a tempo a collaborare anche al Don Marzio, alla Rassegna critica e alla Velalatina, non permette comunque di valutare in questi termini la portata della sua esperienza letteraria, oltretutto ancora lontana da una definizione professionale per la concomitanza di interessi di studioso, se è vero che egli ebbe a dichiarare di ritenersi "un filologo di letteratura latina medioevale", come riferisce Lionello Fiumi nella presentazione alle Poesie scelte (1914-1917) del C., pubblicate a Milano nel 1968 (p. 18).
Dal ridotto corpus della sua opera, al di là delle più evidenti analogie, sicuramente con Ungaretti ma anche con Palazzeschi, si ricava l'immagine di una ricerca già chiaramente orientata nel senso del nuovo, anche se non proprio riconducibile a una univoca linea di sviluppo. Che operino però spesso congiuntamente suggestioni crepuscolari e più schematiche indicazioni futuriste, non significa che non siano apprezzabili esiti di tutto rilievo e che non si evidenzi una cifra stilistica personale. Tanto più che l'esasperazione di situazioni e stilemi crepuscolari e la moderazione degli eccessi futuristi non si risolvono senz'altro nel recupero di un sublime di schietta marca dannunziana, al quale il C. è inclinato e che molti della sua generazione finiranno inconsapevolmente per ripetere; ma danno luogo a un impasto persino inquietante, come se alludessero a una improbabile, e comunque incompiuta, ricerca di dissonanze. È il caso, per esempio, dell'estensione metodica di diminutivi e vezzeggiativi di ascendenza crepuscolare a tutto il discorso. In questo modo essi vengono sottratti alla espressività corrispondente e sembrano interpretabili come i sintomi di una generale affezione del linguaggio. Sul versante futurista, l'abbandono delle forme metriche tradizionali, l'abolizione della punteggiatura e l'introduzione di segni aritmetici non valgono la più incisiva ricerca analogica e la conquista di una rarefazione lirica solo marginalmente ricalcata sul D'Annunzio alcionio, in direzione semmai ungarettiana, come è stato suggerito: "Così / come questo tramonto / una bracciata di rosso vivo / gheroni di sontuosità / / tra poco / un orgasmo d'oro / Le prime stelle" ("Io", da Cadenze d'un monello sardo, Napoli 1918). Pur giudicato in principio "rivedibile" alla visita medica, il C. ottenne successivamente di partire volontario per il fronte. Il giovane sottotenente dei bombardieri (ai quali aveva chiesto di essere destinato dopo l'iniziale arruolamento negli artiglieri) riportò due ferite (al petto e a un piede) e fu decorato con due medaglie d'argento e una di bronzo. "La Parca volle essere sinistramente giocosa e bizzarra con questo poeta giocoso e bizzarro" (C. Pellizzi, Le lettere italiane del nostro secolo, Milano 1929, p. 338): egli cadde infatti tra gli ultimi a Col dell'Orso (Monte Grappa), il 25 ott. 1918, pochi giorni prima della cessazione delle ostilità.
Si ricordano ancora: Il toro di Falaride, Napoli 1914; Restiamo bombardieri del re, Treviso 1917; Liturgie dell'anima (a cura e con bibliografia di E. Pappacena), Lanciano 1922.
Bibl.: C. Padovani, Antol. degli scrittori morti in guerra, Firenze 1929, sub voce; L. Fiumi, A. C. il poeta morto sul Grappa (1892-1918), Fiume 1938, con lettere inedite; Id., Parnaso amico, Genova 1942, pp. 233-254, 596 s.; G. Ravegnani, Uomini visti, I, Milano 1955, pp. 39-43, 62.