anomia
Termine usato talvolta per indicare la deficienza della legge, la carenza dei poteri dello Stato, l’anarchia (dal gr. ἀνομία, comp. di ἀ- priv. e νόμος «legge»). È stato introdotto nel linguaggio sociologico da Durkheim, il quale, nell’opera La division du travail social (1893; trad. it. La divisione del lavoro sociale), definì anomiche quelle società fondate sulla divisione del lavoro in cui non si dia solidarietà sociale. Per Durkheim una situazione di a. è del tutto abnorme, potendosi produrre soltanto in periodi di grave crisi, ovvero di boom economico («crises hereuses»), durante i quali la rapidità del mutamento sociale non consente alle norme societarie di tenere il passo con le molteplici sollecitazioni e istanze emergenti nel sistema sociale, che lascia così senza direzione normativa i propri componenti, o buona parte di essi. Lungo questa linea, la teoria dell’a. è stata sviluppata dai massimi teorici sociali contemporanei di orientamento funzionalista (T. Parsons, R. Merton). In particolare, Parsons considera l’a. come «l’antitesi della piena istituzionalizzazione», definendo il concetto nei termini di una «completa rottura dell’ordine normativo». Egli sottolinea, tuttavia, che si tratta di un concetto limite (The social system, 1951; trad. it. Il sistema sociale). Merton usa il termine a. per indicare situazioni in cui le mete individuali socialmente prescritte e le norme istituzionalmente regolanti il conseguimento di esse risultano incongruenti, ovvero incompatibili di fatto. R.M. MacIver, da parte sua, tende a usare il termine a. in rapporto a individui (anomici), che sono vittime dell’alienazione sociale. Di recente sono stati compiuti numerosi tentativi per misurare il grado di a., fra i quali vanno ricordati quelli di L. Srole.