Anomia
Negli anni sessanta l'anomia acquisisce lo status di concetto sociologico per eccellenza, divenendo il segno dell'autonomia e della specificità della disciplina sociologica. Ciò si verificava in tutti i paesi in cui esisteva la sociologia, ma negli Stati Uniti in maniera particolare. Talcott Parsons (v., 1968, p. 316) vedeva nell'anomia "uno dei pochi concetti fondamentali della scienza sociale contemporanea", ma si potrebbero citare innumerevoli altri giudizi di questo genere. Utilizzare il termine anomia significava appartenere alla disciplina sociologica, ed esso ha conservato a lungo una parte di questo potere di identificazione.Eppure il termine ricopriva nozioni diverse, contraddittorie, spesso anche inconsistenti, e la sua funzione era più di tipo estetico che cognitivo. All'origine di tale polisemia vi era la storia molto singolare del termine e del concetto di anomia. Fin da quando Émile Durkheim ha introdotto il termine nel lessico sociologico, l'anomia ha avuto uno strano destino: la parola ha avuto una carriera molto travagliata e anche il concetto ha subito una completa rivoluzione semantica. Lungi dall'esserne coscienti, la grande maggioranza di coloro che hanno utilizzato il termine hanno ritenuto acquisita l'unità del concetto.Ricorderemo le principali fasi della storia del termine e del concetto di anomia, rinviando, per ulteriori informazioni e dimostrazioni particolareggiate, al nostro libro sull'argomento (v. Besnard, 1987).
Il termine anomia, nel suo uso moderno, nasce dalla penna di Jean-Marie Guyau, filosofo che nell'opera Esquisse d'une morale sans obligation ni sanction (1885) vuole essere sociologo. L'anomia, per contrasto con l'autonomia kantiana, indica l'individualizzazione delle regole morali e delle credenze, processo inevitabile e al tempo stesso auspicabile. Nella sua tesi di dottorato La divisione del lavoro sociale (1893) Durkheim sostiene il contrario di quanto dice quest'individualismo anarchizzante poiché, ai suoi occhi, ogni fatto morale consiste in una regola di condotta sancita; non potrebbe, perciò, esserci morale senza obbligo né sanzione. Mutuando da Guyau il termine anomia, Durkheim gli attribuisce tutt'altro significato e se ne serve per designare una delle patologie risultanti dalla divisione del lavoro. Egli concepisce la divisione anomica del lavoro come la carenza temporanea di una regolamentazione sociale in grado di assicurare la cooperazione fra funzioni specializzate.
Questa anomia, di cui Durkheim vede degli esempi nelle crisi economiche, nell'antagonismo fra i capitalisti e i lavoratori e nella perdita dell'unità della scienza, ha come origine l'insufficienza dei contatti fra i ruoli sociali che dovrebbero concorrere a un'impresa comune. Essa si distingue dalle altre patologie delle società moderne: l'ineguaglianza delle possibilità (che Durkheim chiama "la divisione del lavoro obbligatoria"), la burocrazia (non nominata in maniera esplicita, ma evocata come un' "altra forma anormale della divisione del lavoro"), infine l'alienazione del lavoratore nei suoi compiti parcellari, problema che Durkheim affronta nel medesimo capitolo in cui tratta dell'anomia.Va riconosciuto che le distinzioni fra queste quattro "forme anormali" non sono chiaramente esplicitate da Durkheim. Una delle ragioni della metamorfosi semantica conosciuta dal concetto di anomia è la relativa oscurità che circonda il termine in Durkheim stesso. Nella sua opera egli non elabora realmente la nozione di anomia: se si vuole darle un contenuto abbastanza preciso, si devono prima eliminare le connotazioni parassite che la ingombrano, isolarla da una rete di concetti in cui si trova inserita e come invischiata.Ciò è perfettamente vero in Il suicidio (1897), dove è sviluppato il tema dell'anomia come malattia permanente delle società moderne. Per circoscrivere meglio il contenuto della nozione, si deve distinguere il suicidio anomico dagli altri tipi di suicidio. Bisogna innanzitutto ammettere la distinzione di Durkheim fra suicidio egoistico e suicidio anomico, cioè l'indipendenza delle due variabili esplicative delle variazioni del suicidio: l'integrazione e la regolazione. La pertinenza di questa distinzione è stata messa in discussione dalla maggioranza di coloro che hanno commentato e utilizzato Il suicidio, ma tuttavia è possibile dimostrare che essa è fondata sia concettualmente che empiricamente (v. Besnard, 1987, pp. 6281). D'altronde la distinzione fra due dimensioni del rapporto dell'individuo con la collettività non è propria di Il suicidio: la si trova in L'educazione morale (1925), dove Durkheim distingue "lo spirito di disciplina" dall' "attaccamento ai gruppi sociali".
La confusione frequente fra anomia ed egoismo spiega perché Durkheim sia stato spesso presentato come il "sociologo dell'anomia", mentre questo è un argomento minore e saltuario nella sua opera e, per di più, poco elaborato.
Uno dei paradossi di Il suicidio è il contrasto nella maniera di trattare le due variabili indipendenti: l'integrazione e la regolazione. La teoria dell'integrazione è molto più coerente e completa di quella della regolazione. Un gruppo sociale si dice integrato nella misura in cui i suoi membri: 1) possiedono una coscienza comune, in quanto condividono gli stessi sentimenti, credenze e pratiche; 2) sono in interazione gli uni con gli altri; 3) si sentono votati a scopi comuni. Ciascuno dei tre esempi successivamente studiati da Durkheim - la società religiosa, la società domestica e la società politica - illustra in maniera più dettagliata uno di questi tre elementi. La teoria dell'integrazione collega i sentimenti collettivi a tutta l'interazione sociale, e di lì alla struttura morfologica della società, come in La divisione del lavoro sociale. Inoltre essa si dispiega interamente rendendo conto delle due situazioni estreme (egoismo e altruismo).
La teoria della regolazione non è invece sviluppata in maniera così sistematica, tutt'altro. Ricostruire la teoria durkheimiana della regolazione è il compito più arduo nell'interpretazione di Il suicidio. Bisogna, infatti, situare l'anomia nella dimensione 'regolazione', cioè chiarire i rapporti che intrattiene con il suo presunto contrario, il fatalismo. Ebbene, Durkheim ha fatto di tutto per minimizzare l'importanza del suicidio fatalistico, fornendone delle illustrazioni empiriche poco convincenti. Eppure disponeva, nel caso della regolazione, dei dati empirici necessari - che gli mancavano nel caso dell'integrazione - per costruire una teoria coerente e completa. È questo il paradosso più curioso di Il suicidio.Durkheim concepisce il fatalismo come il risultato di una eccessiva regolazione. In base alle sue indicazioni saltuarie, e spesso contraddittorie, lo si può definire come l'incapacità di interiorizzare una norma inaccettabile: inaccettabile poiché ingiusta, o imposta dall'esterno, o anche eccessivamente repressiva. Di fatto, il fatalismo ha un vasto campo di applicazione, se si considerano i dati empirici utilizzati da Durkheim e i vari esempi che cita. Ma l'occultamento del fatalismo da parte di Durkheim ha reso oscura anche la nozione di anomia.In Il suicidio Durkheim presenta l'anomia attraverso due dicotomie. Vi è prima la distinzione fra l'anomia acuta o transitoria e l'anomia cronica e anche istituzionalizzata. L'anomia acuta è il prodotto di un cambiamento brusco nell'universo sociale di riferimento; l'anomia cronica risulta dal fatto che l'universo sociale è cambiamento e mancanza di riferimento.
La prima indica l'assenza provvisoria di norme, perché quelle esistenti non sono più adatte alla situazione nuova; la seconda, che preoccupa maggiormente Durkheim, risulta dalla presenza, nella cultura moderna, di alcuni valori come la dottrina del progresso a qualsiasi prezzo, la necessità per l'individuo di avanzare costantemente verso un obiettivo indefinito.
La seconda dicotomia oppone l'anomia regressiva all'anomia progressiva, ma questa distinzione è, a mio avviso, fallace e illusoria. Essa compare all'inizio del capitolo sul suicidio anomico, allorché Durkheim osserva che il tasso di suicidi aumenta durante le crisi economiche, ma anche nel corso di quelle che egli chiama crisi "felici" o crisi di "prosperità", cioè nei periodi di improvvisa espansione economica. Una lettura superficiale potrebbe far credere che l'anomia sia l'elemento comune di tutte queste crisi, sia progressive che regressive, ma è un'interpretazione che non resiste a un'analisi approfondita.A questo proposito è indicativo il capitolo, spesso trascurato, sulle forme individuali dei diversi tipi di suicidio. Quando Durkheim esamina i fattori psicologici che possono portare al suicidio in una situazione anomica, è incapace di differenziare l'anomia regressiva da quella progressiva. L'insoddisfazione è sempre prodotta da una mobilità ascendente che genera speranze destinate a essere deluse: l'illimitatezza delle aspirazioni apre la via alla frustrazione e anche alla disperazione.Bisogna aggiungere che la nozione di anomia regressiva non può applicarsi a un ambito particolarmente importante nella dimostrazione durkheimiana: quello dell'anomia coniugale o sessuale. Durkheim evidenzia l'anomia coniugale analizzando le relazioni esistenti fra divorzio, matrimonio e suicidio. Con una brillante intuizione, egli si interessa non alla relazione diretta fra divorzio e suicidio, ma all'effetto che può avere la possibilità del divorzio sul matrimonio e sulla sua azione protettiva in rapporto al suicidio. Mette quindi in relazione la frequenza del divorzio e l'azione del matrimonio sul suicidio per ambedue i sessi, e scopre che più i divorzi sono frequenti, più diminuisce l'immunità degli uomini sposati in rapporto ai celibi, mentre aumenta l'immunità delle donne sposate in rapporto alle donne nubili. Quando il divorzio è possibile e diffuso, gli uomini sposati soffrono di un'anomia accresciuta, mentre le donne sposate si avvantaggiano della riduzione del fatalismo generato da un legame matrimoniale troppo rigido.
L'anomia coniugale è caratterizzata dall'indeterminatezza dell'oggetto del desiderio che produce necessariamente una illimitatezza del desiderio. Si tratta dunque di un'anomia progressiva.Insomma, l'anomia è necessariamente progressiva. L'anomia regressiva non esiste. L'insuccesso individuale risulta tanto doloroso soltanto perché le aspirazioni erano elevate, addirittura illimitate. Come scrive Durkheim (v., 1897, p. 286), è proprio "quando non si ha altro scopo che quello di superare costantemente il punto in cui si è giunti" che è "così doloroso essere respinti indietro". Per rendere coerente la teoria durkheimiana, bisogna considerare l'anomia regressiva non come una forma di anomia ma come una situazione di fatalismo acuto, opposto al fatalismo cronico. Le caratteristiche essenziali del fatalismo si ritrovano in quello che Durkheim scrive a proposito degli individui vittime di un "declassamento" provocato da un disastro economico o da un rovescio di fortuna: "questo aumento di contenzione" è per essi una prospettiva "intollerabile"; "la loro educazione morale è da rifare" (ibid., p. 280). Nel caso del declassamento, come nel caso della schiavitù o dei matrimoni tra giovanissimi _ due esempi di fatalismo menzionati da Durkheim _ aspirazioni e desideri fortemente interiorizzati si scontrano con nuove norme che vengono avvertite come illegittime. Come nel fatalismo, l'orizzonte del possibile è chiuso, "l'avvenire è spietatamente murato" e i desideri e le passioni vengono a "urtarsi e a spezzarsi contro un ostacolo insormontabile" (ibid., pp. 309 e 311).Questa interpretazione permette di costruire una tipologia della regolazione che combina due dimensioni: prima la regolazione propriamente detta, cioè il grado di apertura o chiusura delle possibilità, con l'anomia e il fatalismo ai due estremi; poi la distinzione fra le forme croniche e quelle acute o transitorie derivanti da un cambiamento improvviso. Ci troviamo quindi in presenza di quattro stati patologici, tra i quali Durkheim privilegiava l'anomia cronica.
Questa interpretazione permette anche di delineare in maniera più precisa l'intuizione fondamentale di Durkheim e la vera natura dell'anomia in Il suicidio. L'anomia è una situazione caratterizzata dall'indeterminatezza degli obiettivi e dall'illimitatezza delle aspirazioni, è la vertigine generata dall'eccessiva apertura dell'orizzonte del possibile in un contesto di espansione o di forte mobilità ascendente. È la perdita nell'infinito del desiderio, e questo "male dell'infinito" è una contropartita inevitabile della società industriale moderna. Appartiene al suo sistema di valori (la dottrina del progresso), alle sue istituzioni (la legge che autorizza il divorzio), al suo funzionamento (la concorrenza su un mercato che continua a estendersi).
Durkheim ha elaborato il concetto di anomia nella primavera del 1896, in un periodo di crisi del suo itinerario intellettuale. Il termine, così come l'argomento, scomparve dalla sua opera dopo il 1901: l'anomia fu improvvisamente, e per molto tempo, eliminata dal vocabolario della sociologia. Risulta, stranamente, del tutto assente dall'opera dei collaboratori e discepoli di Durkheim, che formarono intorno a lui la scuola francese di sociologia. I motivi dell'esclusione dell'anomia sono da ricercarsi nel vero e proprio occultamento di Il suicidio, che è particolarmente sorprendente nei durkheimiani più fedeli.Il concetto durkheimiano trovò più tardi una ripresa diretta nella sociologia del suicidio, specie negli Stati Uniti, durante gli anni 1954-1969.
Tuttavia questo inserimento dell'anomia di Durkheim in una tradizione di ricerca specifica non si è rivelato molto fruttuoso: nonostante lavori come quello di Andrew F. Henry e James F. Short (v., 1954), le verifiche delle intuizioni durkheimiane concernenti l'anomia economica furono piuttosto negative. La teoria durkheimiana si diffuse in un momento in cui era contraddetta dall'evoluzione della distribuzione sociale del suicidio, ormai più frequente negli strati sociali sfavoriti. E la sociologia del suicidio trascurò completamente la teoria dell'anomia coniugale, che pure si basava sulla più brillante intuizione di Durkheim nel suo lavoro empirico. Per giunta, gli specialisti del suicidio privilegiarono la teoria durkheimiana dell'integrazione, che si prestava meglio di quella della regolazione alla prova dei fatti.
Dopo essere stata esclusa dalla Francia, l'anomia prese radici negli Stati Uniti e vi trovò il terreno favorevole per uno sviluppo ulteriore. Ma il trapianto non fu immediato, data la lentezza con la quale la sociologia di Durkheim si imponeva negli Stati Uniti: in particolare Il suicidio fu tradotto in inglese solo nel 1951 e fu per molto tempo del tutto assente dalla visione americana di Durkheim. È per questo che la nozione di anomia non poté prendere piede nel filone della ricerca sulla disorganizzazione sociale sviluppatosi presso l'Università di Chicago.Negli anni trenta autori come Elton Mayo (v., 1933), Robert K. Merton (v., 1938) e Talcott Parsons (v., 1937) riproposero, all'Università di Harvard, l'anomia, che vi restò confinata fino alla fine degli anni quaranta. Questa reinvenzione dell'anomia corrispondeva perfettamente alla strategia del nuovo dipartimento di sociologia di Harvard.
L'anomia permetteva di discostarsi dalla nozione di disorganizzazione sociale tanto cara a Chicago e si inseriva nella tendenza al recupero dei pensatori europei di fine secolo propria dei giovani teorici di Harvard. Vent'anni dopo l'anomia verrà ancora utilizzata per combattere la tradizione di Chicago, con il libro di Bernard Lander Towards an understanding of juvenile delinquency (1954), questa volta alla Columbia University.L'ulteriore successo dell'anomia fu in gran parte dovuto alle condizioni della sua riapparizione. L'innovazione veniva da un dipartimento di sociologia nuovo, ma ambizioso e situato in una università prestigiosa. Essa faceva al caso di teorici che volevano - e vi riuscirono - divenire le figure centrali della sociologia americana. Contemporaneamente, fin dalla sua 'reinvenzione', l'anomia fu un concetto - marketing, utilizzato più per la sua virtù estetica che per il suo potere cognitivo. Da questo punto di vista è Merton il vero pioniere, con il celebre testo Social structure and anomie (1938).
Il testo di Merton, attraverso successive versioni e revisioni (1949, 1956, 1957, 1964), è divenuto un classico della sociologia. La teoria mertoniana dell'anomia ha svolto un ruolo fondamentale nella diffusione del termine e nell'evoluzione semantica del concetto. Eppure, fatto strano, Merton non definì mai con chiarezza ciò che intendeva per anomia, e non ritenne mai utile esporre o discutere la concezione durkheimiana. Per giunta, un'analisi accurata dei testi di Merton mostra che la nozione di anomia vi è del tutto inutile e superflua. Dapprima essa sembra designare un certo tipo di squilibrio della struttura culturale, cioè una forte valorizzazione degli scopi e una debole definizione normativa dei mezzi validi per raggiungerli. Dopo successivi slittamenti, l'anomia finisce con l'identificarsi con un certo tipo di devianza, l' "innovazione", definito come l'utilizzazione di mezzi illeciti per realizzare gli scopi prescritti dalla cultura. La teoria dell'anomia, nella versione più corrente, sostiene che i comportamenti criminali sono più probabili negli strati sociali inferiori che non hanno accesso ai mezzi leciti della riuscita sociale.
Merton considera gli obiettivi proposti agli individui dalla cultura come dati, definiti e uniformi nell'insieme della società in questione. È anomica una situazione di limitatezza dei mezzi, mentre per Durkheim l'illimitatezza dei fini o l'indeterminazione degli scopi costituisce il tratto centrale dell'anomia. Là dove Durkheim descrive degli individui incerti su ciò che devono fare, tanto è aperto l'orizzonte dei possibili, Merton pone degli attori sicuri, con obiettivi da conseguire, le cui aspirazioni vengono però a scontrarsi con una situazione di chiusura delle possibilità di successo. Esiste realmente un'opposizione termine a termine fra le due concezioni dell'anomia, che Merton dissimulò evitando di definire la nozione e di porsi in relazione con Durkheim.Il successo della teoria mertoniana dell'anomia fu considerevole nella vulgata sociologica, cioè nei manuali o nelle raccolte di testi, e tanto bastò a radicare un uso del termine che non aveva niente a che vedere con il concetto durkheimiano. Ciò fu dovuto, in buona parte, a una determinata strategia: costituire la teoria dell'anomia come il nocciolo duro di uno dei grandi approcci sociologici alla devianza, la strain theory. Tuttavia, quando si studia l'iter reale della teoria mertoniana nella sociologia della delinquenza, ci si accorge che questa teoria ha avuto un successo modesto ed effimero. Essa si diffuse nella ricerca empirica solo per una decina d'anni (19591970), raggiungendo l'apice a metà degli anni sessanta.
I test empirici di questa teoria furono rari, tardivi e negativi, e accelerarono un declino già iniziato. È vero che la teoria mertoniana capitava male: era già fuori fase rispetto all'evoluzione della ricerca empirica. I teorici degli anni cinquanta - Merton, ma anche Albert Cohen (v., 1955), o Richard Cloward e Lloyd Ohlin (v., 1960) - si servivano di generalizzazioni empiriche accumulate anteriormente e derivate, essenzialmente, da studi sulla delinquenza basati su correlazioni ecologiche. Le loro teorie si sono diffuse nella ricerca empirica nel corso degli anni sessanta, proprio quando gli studi ecologici venivano tralasciati per le inchieste su questionario. Ebbene, i risultati di queste inchieste sulla self reported delinquency erano contrari a quelli dati per acquisiti dai teorici: la delinquenza confessata anonimamente per questionario non variava, o variava molto poco, da una classe sociale all'altra, contrariamente a quanto avveniva per la delinquenza risultante da fonti legali. Nonostante gli evidenti problemi tecnici posti da questo sistema di misurazione della delinquenza, più adatto per le piccole mancanze che per i delitti gravi, la somma dei risultati alimentò una nuova rappresentazione erudita della delinquenza e contribuì a un nuovo orientamento degli interessi teorici. Ci si allontanò dall'eziologia sociale della delinquenza per studiare gli agenti e i meccanismi del controllo sociale.
Su questo terreno la teoria dell'anomia non poteva prosperare.Come accadde per la sociologia del suicidio (e nel medesimo periodo storico), l'anomia si diffuse nella sociologia della devianza in un momento in cui contraddiceva i risultati degli studi empirici. Questo parallelismo è sorprendente se si pensa a tutto ciò che oppone fra loro l'anomia di Durkheim, anomia degli 'abbienti', e l'anomia regressiva di Merton, anomia degli 'sprovvisti'. Lo stesso termine, nel medesimo momento e nella medesima disciplina, ha ricoperto significati e referenti empirici opposti. È anche vero che era comparsa un'altra forma di anomia che faceva addensare ulteriormente la nebbia semantica che avvolgeva il termine.
L'iter dell'anomia si conclude nella sua traduzione in una serie di variabili operative che è possibile misurare direttamente, a livello degli individui, con il sistema delle scale di atteggiamenti. Questo filone di ricerca sull'anomia, oggi piuttosto dimenticato, è stato il più massiccio quantitativamente e ha occupato un posto di primo piano nella sociologia americana degli anni sessanta. Trovava una giustificazione teorica negli scritti di alcuni sociologi o politologi, autori di opere generiche o anche di saggi specifici, come Sebastian De Grazia (v., 1948), Robert MacIver (v., 1950) e David Riesman (v., 1950), che alla fine degli anni quaranta avevano concepito l'anomia come un fenomeno individuale e psicologico che caratterizzavano con l'ansia, la disperazione, la diffidenza e altri sentimenti d'insicurezza e di esclusione. È una caratterizzazione che si ritroverà, in forma semplificata, nelle scale di atteggiamenti destinate a misurare l'anomia individuale, che si presume sia espressione dell'anomia sociale.
La più celebre fu la scala di anomia elaborata da Leo Srole (v., 1956) che, insieme con la scala F che misurava l'autoritarismo, fu una delle due scale di atteggiamenti più utilizzate nella ricerca sociologica. Essa era stata d'altronde concepita come una concorrente della scala F. Le scale di anomia ebbero un successo considerevole, nonostante gravi imperfezioni tecniche e un assai debole rendimento cognitivo. Erano, soprattutto, soggette all'errore della tendenza all'approvazione a causa della formulazione unilaterale degli items che le componevano: un grado elevato di anomia risultava nelle persone con la tendenza ad approvare qualsiasi proposizione, e particolarmente quelle caratterizzate da connotazioni negative o pessimistiche, tendenza più frequente negli individui sprovvisti di spirito critico o di un sufficiente bagaglio culturale.Tutti i lavori che utilizzavano le scale di anomia - si possono citare ad esempio quelli di Ephraim Mizruchi (v., 1964) - si basavano sul postulato di un'unità concettuale che collegava i diversi usi dell'anomia a partire da Durkheim. Questo mito di una continuità tematica Durkheim/Merton/Srole resistette ai risultati accumulati dai suddetti lavori empirici, anche se nessuno di questi studi portò il minimo elemento a conferma delle ipotesi deducibili dalla teoria durkheimiana. Ogni volta che un indicatore si avvicina alle condizioni o correlazioni dell'anomia così come l'intendeva Durkheim - mobilità ascendente, cambiamento brusco dell'ambiente, aspirazioni elevate - esso risulta in relazione negativa o nulla con l'anomia psichica misurata dalle scale.
Quest'anomia psichica è la sorte degli individui che sono sprovvisti su tutti i piani: sociale, economico, culturale, intellettuale. Né vi è motivo di stupirsene se si considerano gli items che costituiscono queste scale di atteggiamenti, soprattutto quella di Srole: essi misurano un sentimento di pessimismo sul mondo attuale, di diffidenza nei confronti degli altri, di rinuncia a qualsiasi ambizione. Non è quindi senza ragione che l'anomia, così misurata, sia stata associata in molti lavori empirici all'alienazione, alla convinzione di non poter decidere del proprio destino, caratteristica del fatalismo durkheimiano.Questa metamorfosi semantica si poteva già percepire nell'uso del termine da parte di Merton, ma negli innovatori mertoniani i desideri e le aspirazioni erano ancora presenti, anche se l'accento veniva posto sull'impossibilità della loro realizzazione. Con le scale di anomia le aspirazioni svaniscono; non vi è più neanche la tensione o contraddizione fra i fini perseguiti e i mezzi che permettono di raggiungerli.
La rivoluzione semantica è pienamente compiuta. Si passa dall'esasperazione del desiderio e dall'indeterminatezza degli obiettivi all'assenza di qualsiasi tipo di aspirazione e alla rinuncia a ogni speranza; dalla vertigine dinanzi all'apertura illimitata del campo del possibile al ripiegamento su se stessi e alla sensazione che l'avvenire è spietatamente murato. L'anomia durkheimiana si trovava nel cuore stesso delle società industriali; l'anomia psichica si diffonde ai margini di queste società, fra coloro che ne sono esclusi. È stupefacente che uno stesso termine abbia potuto ricoprire nozioni tanto opposte.
Agli inizi degli anni settanta le scale di anomia furono improvvisamente accantonate dai sociologi, nel momento in cui il loro uso si divulgava, e recuperate dagli psicologi. L'iter delle scale di anomia in sociologia (dal 1956 al 1971) fu contemporaneo a quello delle altre grandi utilizzazioni dell'anomia: dal 1954 al 1969 nella sociologia del suicidio, dal 1959 al 1970 nelle ricerche sulla delinquenza. La nozione fu d'altronde applicata a ogni genere di fenomeni, svolgendo solitamente una funzione più estetica che cognitiva. Si può situare negli anni 1964-1965 il momento in cui l'anomia, in tutte le sue forme, si trovò all'apice della gloria. Questa simultaneità basta da sola a dimostrare che la diffusione dell'anomia fu un fenomeno di moda intellettuale interno all'ambito della sociologia e spiegabile con dei fattori propri della disciplina.
Di fatto, il ciclo di vita dell'anomia, le avventure del termine così come le metamorfosi del concetto, si possono comprendere solo tenendo conto delle funzioni cui ha adempiuto nelle strategie di posizione interne al campo della disciplina. Ciò è già stato osservato a proposito della sua 'reinvenzione' a Harvard. Lo sviluppo ulteriore di questo termine proprio della compagine sociologica negli anni sessanta dipende dal fatto che l'anomia servì da emblema alla pratica di ricerca usuale negli Stati Uniti. Creava un ponte fra i due pilastri di questa pratica: da un lato il riferimento ai classici che forniscono le teorie, dall'altro l'inchiesta con questionario destinata a verificare le ipotesi ricavate da queste teorie. Grazie all'anomia i sociologi disponevano, al tempo stesso, dei classici (Durkheim, Merton) e degli strumenti di inchiesta (le scale di anomia). Il passaggio di Merton (che portava nel suo bagaglio l'anomia) da Harvard alla Columbia University, dove si associò con Paul Lazarsfeld, simboleggia a meraviglia l'instaurarsi, fin dagli anni quaranta, di questo modello di ricerca che sarà predominate fino alla fine degli anni sessanta. E tale modello si oppone alle pratiche di ricerca privilegiate dalla scuola di Chicago: l'analisi ecologica e l'osservazione sul terreno.
Questa funzione emblematica dell'anomia permette di comprendere meglio le lotte per appropriarsene come marchio o come segno: ad esempio la strategia di Merton, di cui sopra, oppure le polemiche fra gli inventori delle scale di atteggiamenti.Le strategie usate per conquistare una posizione e per distinguersi si sono rivelate decisive per la storia dell'anomia. Spiegano il suo emergere e il suo successo, preludi alla caduta. L'anomia fu innanzitutto vittima della messa in discussione del paradigma di ricerca con il quale era stata identificata. Ma c'è di più: quando il successo di un prodotto intellettuale è dovuto più al suo valore di marketing che alla sua utilità cognitiva, il declino è inevitabile non appena si compie il processo di divulgazione. La storia dell'anomia è stata quella, a conti fatti molto classica, di qualsiasi bene di consumo che non ha altra virtù da far valere che il suo potere di distinzione.
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