DE MARI, Ansaldo
Figlio del console Angelerio, ucciso nel 1187 nel corso delle lotte intestine che a Genova, nella seconda metà del secolo XII opponevano tra di loro le fazioni dette "De Volta" e "De Curia", apparteneva ad una potente famiglia dell'oligarchia genovese imparentata, tra gli altri, con i Di Castello e gli Spinola. Era fratello di Guglielmo, l'autore della congiura che nel 1227 mise in pericolo gli ordinamenti e gli istituti tradizionali della città.
Il D. è ricordato per la prima volta nel 1214 quando, insieme con Giovanni Della Volta, Guglielmo Tornello, Oberto Spinola e Ogerio Pevere, esercitò la carica di console. Nello stesso anno fu coinvolto in uno scontro per le vie della città, indice dello stato ormai cronico di tensione che contrapponeva, nella zona della cattedrale di S. Lorenzo, le famiglie Della Turca e Camilla da un lato e i Pevere dall'altro. Nel 1222 e poi di nuovo nel 1229 fece parte degli Otto nobili, un'importante carica finanziaria e fiscale del Comune. Nell'autunno del 1231 fu eletto a far parte dell'ambasceria che accompagnò il podestà Ugolino Rosso di Parma presso l'imperatore Federico II a Ravenna: ne facevano anche parte Rosso Della Volta, Rubaldo Alberico, Giovanni Guercio, Almerio Panzano, Tedisio Fieschi, Ansaldo Di Negro e Giovanni Spinola, noti esponenti della politica comunale. Come podestà di Parma nel 1233 e di Cremona nel 1239, il D. prese decisamente le parti dei ghibellini e questo atteggiamento gli assicurò il favore dell'imperatore. Gliene derivarono, in un primo momento, facilitazioni per i suoi commerci nel Regno di Sicilia.
All'inizio del 1241 Federico II ordinò al D. di lasciare Genova per assumere la carica di grande ammiraglio del Regno come successore di Niccolò Spinola, l'uomo che aveva rimodernato la flotta imperiale e che era morto alla fine dell'anno precedente. Nelle vesti di capo della flotta il D., diventato ormai l'esponente più prestigioso della fazione filoimperiale a Genova, si trovò ben presto a combattere contro la patria, come del resto aveva fatto il suo predecessore e come fece, al suo fianco, suo figlio Andreolo. Fu proprio grazie all'intervento determinante di quest'ultimo che egli, pur non partecipando personalmente al combattimento, poté vincere, il 3 maggio 1241, la grande battaglia navale svoltasi presso l'isola del Giglio. Con l'appoggio dell'ammiraglio pisano Antonio Buzzacarini e di alcune navi da guerra savonesi, che gli assicuravano un'assoluta preponderanza quantitativa e qualitativa, il D. sgominò completamente la flotta genovese di circa trenta navi, capitanata dall'ammiraglio lacopo Malocello.
Ventidue galee genovesi furono catturate e tre affondate. Sempre da parte genovese vi furono circa duemila tra morti e feriti, e quattromila uomini vennero presi prigionieri. Tra di loro si trovavano anche molti dignitari ecclesiastici che si stavano recando a Roma per partecipare al concilio convocato da Gregorio IX. Il più illustre era il legato pontificio Gregorio di Romania, ma vi erano anche gli arcivescovi di Bordeaux e di Rouen, i vescovi di Pavia, Asti, Tortona, Agde, Carcassonne, Nimes, gli abati di Citeaux, di Cluny, di Clairvaux, e infine gli ambasciatori delle città lombarde. Tra i genovesi catturati figuravano alcuni dei maggiori esponenti della parte guelfa, come Guglielmo Negro Embriaco, Pietro Vento, Ottobono Mallone, Andreolo di Domoculta, Andrea Bulgaro e molti altri nobili della città e delle due Riviere. Tutti questi illustri prigionieri furono portati dal D. a Pisa, da dovevennero in seguito trasferiti a Napoli e rinchiusi nel Castel dell'Ovo.
Dopo la grande vittoria del Giglio, sembrò imminente uno sbarco del D. a Genova per togliere il potere ai guelfi e insediarvi un governo ghibellino, ma l'ammiraglio decise diversamente: preferì attendere il grande convoglio ("caravana") di navi che doveva giungere dal Mediterraneo orientale, portando il prodotto di un intero anno di investimenti commerciali genovesi nei porti dei Levante. A questo scopo egli cominciò a incrociare con una quarantina di galee armate sulla rotta abituale dei mercantili. Ma il convoglio, avvertito del pericolo, deviò verso la Sardegna e da lì poté raggiungere Genova. Il D. decise allora, in segno di sfida, di passare davanti al porto e, giunto a Savona, di unirsi ad alcuni ribelli di Alberiga e di Finale, per poi cingere d'assedio Noli, fedele alleata di Genova. Tuttavia, al sopraggiungere di una flotta genovese di soccorso, guidata da Ansaldo Soldano Malone e Iacopo di Levanto, egli si ritirò verso la Corsica, e vano fu il tentativo dei Genovesi di inseguirlo. Quando però la flotta di soccorso ripiegò, il D. ritornò al largo della Riviera di Ponente, occupò l'isola di Gallinaria, vicina ad Albenga, e il castello di Cervo e quindi riapparve di fronte a Savona, da dove tentò un attacco a sorpresa al porto di Genova. L'attacco, però, fallì e si concluse con una rapida ritirata. Un ulteriore scacco subito mentre cercava di colpire gli interessi genovesi in Sardegna spinse il D. a ritirarsì e a far ritorno in Sicilia per passarvi l'inverno.
Nel 1242 il D. proseguì le sue manovre e le sue dimostrazioni di forza contro la flotta o le piazzeforti costiere genovesi tra le isole di Hyères e la foce dell'Arno. Sbarcò più volte anche nel porto di Genova, anche se solo a scopo provocatorio, senza tuttavia riuscire a ottenere l'auspicata sollevazione della fazione imperiale della città. Questi sporadici attacchi suscitarono al contrario, nel popolo e nella classe dirigente genovesi, un senso di insicurezza e una più forte volontà di resistere, anche perché alle minacce dal mare si associavano temibili operazioni militari condotte dagli eserciti imperiali. Il vicario di Federico II in Lombardia, Marino da Eboli, era infatti avanzato, insieme con ghibellini genovesi e dell'Italia settentrionale, fino alla valle di Polcevera, mentre Oberto Pallavicini aveva attaccato la Liguria orientale con truppe toscane e della Lunigiana.
I mesi seguenti, dalla fine del 1242 in poi, furono segnati dal progressivo deterioramento dei rapporti tra il D. e i Pisani. I due ammiragli pisani Ugo Buzzacarini e Bonaccorso Della Palude in particolare, gli rimproveravano la debolezza e l'inefficacia dei suoi attacchi contro la città ligure, la sua flotta e le sue roccaforti terrestri. In sostanza questo contrasto rifletteva una sensibile divergenza di scopi tra gli alleati: mentre i Pisani miravano alla disfatta completa di Genova, il D. voleva soltanto la sconfitta del partito guelfò, dei rampini. In questo senso egli si trovava perfettamente in linea con gli altri capi ghibellini genovesi, i mascherati: Sorleone Pevere, Rosso Della Volta e Ingo Doria, i quali da Savona inviavano ambasciatori a Federico II.
Il più grave scacco subito nel 1242 dal D. avvenne presso la costa ligure orientale. Un'imponente flotta pisano-imperiale, circa centoventi navi, guidata dal D. stesso e da Ugo Buzzacarini, lasciò il porto di Pisa, costringendo i Genovesi ad armare un centinaio di navi. La flotta imperiale investi Portovenere; fu distrutto il borgo, ma gli abitanti si arroccarono nel castello e l'attacco sì concluse con un nulla di fatto. Negativo fu anche l'esito dell'assedio di Levanto, e questo suscitò molta collera tra i Pisani. In agosto il D. e suo figlio Andreolo si trasferirono a Savona, da dove tentarono un colpo di mano contro il porto di Genova, ancora una volta senza successo. Ritornarono quindi a Savona e poi ad Albenga, prima di raggiungere la Corsica, e, infine, Pisa. A settembre tuttavia il D. tornò improvvisamente a Savona, costringendo così Genova a riarmare la propria flotta. Da lì egli attaccò Cogoleto e Arenzano, che da parte di terra erano assediate da Marino da Eboli, per poi rientrare a Savona, contro la quale fallì un'offensiva del podestà di Genova. In seguito il D. organizzò un convoglio diretto in Provenza per rifornire Savona di sale. Tra Hyères e Tolone catturò tre navi mercantili genovesi che tornavano dalla Spagna e rivendette parte del loro carico a Marsiglia, prima di far rientro a Savona e di recarsi da lì in Sicilia.
Nel 1243, quando i Savonesi furono sconfitti in battaglia dai Genovesi, il partito imperiale dovette organizzarsi per portare soccorso alla fedele città alleata. Il D. giunse dalla Sicilia a capo di cinquantacinque galee, mentre i Pisani ne avevano armato ottanta comandate dal podestà Bonaccorso Della Palude in veste di ammiraglio. Ma l'offensiva fallì, e la flotta rientrò alla base. Nei giorni dell'elezione di Innocenzo IV al soglio pontificio (giugno 1243) il D. fece parte di un'ambasceria inviata a Roma da Federico II per cercare di ottenere un riavvicinamento tra Impero e S. Sede.
L'anno seguente (1244), mentre il figlio Andreolo era impegnato in scontri navali in Liguria, il D. armò venti galee in Sicilia e partì per azioni di pirateria contro i Genovesi nei mari di Tunisi e di Bougie. Un anno dopo, nel settembre del 1245, padre e figlio entravano insieme nel porto di Pisa alla testa di una piccola flotta di galee. Recatosi a Parma, dove si trovava l'imperatore, il D. ricevette da lui l'ordine di mettersi al servizio di suo figlio Enzo, re di Sardegna e già marito di Adelasia di Torres (Logudoro), e di dirigersi quindi verso la Corsica e la Sardegna. Il D. obbedì e si mosse con cinque galee, lasciando un'altra parte della flotta imperiale ad incrociare tra la Liguria e la Provenza. Fu forse per mancanza di forze navali sufficienti (ancora nel settembre 1248 aveva soltanto sei galee) che egli non riuscì ad impedire i contatti tra la regina Adelasia, abbandonata da Enzo (il matrimonio fu annullato nel 1245), e i Genovesi, che la sostenevano economicamente e avevano appoggiato la sua causa presso la S. Sede.
Viceversa in Corsica l'ammiraglio ottenne risultati più lusinghieri, soprattutto a proprio vantaggio. Grazie alla fiducia dell'imperatore, egli si poteva presentare come il delegato principale degli interessi ghibellini nelle isole del Tirreno, e, disponendo inoltre dell'appoggio concreto di una flotta, egli portò avanti, a partire dalla fine del 1245, una fruttuosa politica patrimoniale nella regione più settentrionale della Corsica. Il D. divenne così padrone, tanto con la forza quanto con il denaro, di numerosi castelli a nord del Capo. Egli fu quindi il fondatore della signoria dei De Mari su Capo Corso, che i suoi discendenti dominarono fino al XVIII secolo con il titolo di marchesi di San Colombano, dal nome del principale castello posseduto in passato dagli Obertenghi, marchesi di Massa e di Rostino.
Il nucleo primitivo di questa signoria si condensò nel giro di pochi mesi (fine 1245-1246) attraverso azioni di guerra e soprattutto l'acquisto di interi appezzamenti di terra. Al prezzo di 4.000 lire genovesi il D. comprò dai Pevere i tre castelli di Motti (Luri), Oveglia (Cagnano) e Minerviu (Barrettali). Inoltre egli comprò dagli Avogari e dai Camilla altri tre castelli all'estremità settentrionale del Capo, tra i quali il già ricordato castello di San Colombano (Rogliano). Tre anni dopo, nell'agosto del 1249, un Corso di Luri alienava a vantaggio del D. per 2.000 lire i suoi possedimenti, che avevano come confini a meridione Pietra Corbara e a settentrione la costa, e che erano stati da lui acquistati dai marchesi di Massa e di Rostino, dai Pevere e dagli Avogari. Ancora nel 1252 alcuni degli Avogari e dei Camilla gli aVrebbero ceduto, sempre al prezzo di 2.000 lire genovesi, un vasto territorio intorno a Santa Maria di a Chjapella (a nord di Rogliano).
Grazie a questi acquisti, che sancivano una vittoria o almeno un'intimidazione di carattere militare, il D. aveva spinto gli Avogari verso il sud della penisola di Capo Corso (gli attuali cantoni di Brando e di Nonza) ed aveva costituito una signoria unitaria nel Nord (cantoni di Luri e di Rogliano), dominata dal castello principale di San Colombano. Possiamo ragionevolmente supporre che di fatto, anche se ancora non di diritto, questa signoria dei De Mari comprendesse fin dall'origine l'isola di Capraia. Il fatto che i signori di Bagnaia (pieve d'Orto) si alleassero nel 1248 con i Pisani appare un'ulteriore testimonianza dell'influenza che la nuova signoria ghibellina esercitava anche di là dai limiti terrestri dei Capo, fino ai confini segnati del Nebbio e della Marana.
Gli ultimi anni di vita del D..I dopo la morte di Federico II nel dicembre del 1250, furono influenzati direttamente dal generale clima di tranquillità creatosi nella città di Genova. La vita politica procedeva ormai in modo abbastanza sereno, e questa situazione sarebbe durata ancora per qualche anno: ghibellini e guelfi convivevano piuttosto pacificamente all'interno degli stessi Consigli e delle stesse ambascerie. In questo contesto il D. poté rientrare in patria e vedere addirittura, nell'anno della sua morte, che un'iscrizione consente di fissare al 1254, il suo titolo di ammiraglio riconosciuto dalla S. Sede insieme con tutti gli onori e i privilegi che ad esso erano legati.
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