Anselmo d'Aosta
Dottore della Chiesa (Aosta 1033 o 1034 - Canterbury 1109), santo. Entrato intorno al 1059 nell’abbazia di Bec in Normandia, nel 1063 succedette al suo maestro Lanfranco di Pavia nella carica di priore e nel 1078 a Erluino in quella di abate; nel 1093 fu nominato arcivescovo di Canterbury in Inghilterra, nel quale ufficio resistette con straordinaria fermezza all’invadenza del potere secolare. Canonizzato nel 1163, nel 1720 fu dichiarato dottore della Chiesa.
A. è una delle figure più significative della cultura e della spiritualità medievale. Tra le sue opere principali, il Monologion (in precedenza intitolato Exemplum meditandi de ratione fidei) è una teodicea in 80 brevi capitoli in cui si mostra, anzitutto, l’esistenza di un sommo bene, di un solo Essere altissimo e – data l’esistenza di vari gradi di perfezione – perfettissimo. Questo Essere altissimo e perfettissimo è soltanto per sé stesso e da sé stesso, tutte le altre cose esistenti sono state create da lui dal nulla; seguono poi gli attributi dell’Essere sommo, la dottrina del Verbo e della Trinità. Il Proslogion (già intitolato Fides quaerens intellectum), al posto delle numerose dimostrazioni del Monologion, presenta un unico argomento per l’esistenza di Dio. A. parte dal concetto di Dio assunto dalla fede («credimus») come qualcosa di cui non si può immaginare nulla di più grande («id quo maius cogitari nequit») e deduce da esso la necessità della sua esistenza anche extramentale. L’argomentazione del Proslogion trovò presto un critico in Gaunilone di Marmoutiers cui A. rispose; anche Tommaso d’Aquino (e, dopo di lui, molti altri ancora) rivolse ad A. le stesse obiezioni avanzate da Gaunilone, ossia che la dimostrazione introdotta nel Proslogion contenesse un salto non lecito dall’ordine logico a quello ontologico. D’altra parte, la dimostrazione ha avuto anche entusiastici consensi, come quelli di Bonaventura, Duns Scoto, Cartesio, Leibniz e altri ancora. Il De veritate tratta del concetto della verità e delle sue diverse applicazioni nella lingua parlata: la verità stessa culmina poi nella somma Verità. Alla definizione della verità come «rectitudo sola mente perceptibilis» si affianca quella della giustizia come «rectitudo voluntatis servata propter ipsam rectitudinem». L’Epistola de incarnatione verbi, in polemica con il nominalista Roscellino, contiene essenzialmente una dottrina della Trinità, ma anche brani importanti per la filosofia (problema degli universali); nell’introduzione reca alcuni chiarimenti notevoli sulla relazione tra fede e ragione. Il Cur Deus homo, forse l’opera principale di A., è di grande importanza per la dottrina della redenzione nella teologia cattolica; per A. il peccato è un’infinita offesa di Dio e condonarlo senz’altro sarebbe contrario alla giustizia divina. Così resta soltanto la pena o la soddisfazione. L’uomo doveva soddisfare; ma Dio solo poteva soddisfare, era quindi necessario che un Uomo-Dio desse soddisfazione, se non doveva andar delusa l’intenzione divina di destinare l’uomo alla beatitudine eterna. La teologia successiva ha essenzialmente accettato la dottrina di A. sulla redenzione. Altri scritti sono il De grammatica, il De veritate, il De libertate arbitrii, il De casu diaboli, il De conceptu virginali, il De processione Spiritus sanctus, oltre a preghiere, meditazioni e lettere.
Al di là degli originali contributi alla soluzione dei singoli problemi teologici risultanti dall’esame degli scritti, l’opera di A. acquista un particolare significato nella storia del pensiero medievale soprattutto per il compito assegnato alla ratio e alla dialettica nell’approfondimento della speculazione dogmatica. Contro la presunzione dei «dialettici moderni», che rischiavano di subordinare la fede alle regole del discorso logico-dialettico, ma anche contro la negazione tradizionalistica della ratio in nome dell’auctoritas, A. difende la peculiare funzione della ratio nell’enucleazione della ricchezza del patrimonio dogmatico accettato dal credente per semplice fede. Il titolo originario del Proslogion, Fides quaerens intellectum, riassume l’orientamento della speculazione di A.: muovendo dalla fede l’intellectus progressivamente scopre la ratio immanente alla fede (ratio fidei); in questo processo l’intelligere raggiunge una sua necessitas (rationes necessariae) nella misura in cui riesce a scoprire quell’assoluta ratio veritatis che presiede all’economia della rivelazione e fonda la ratio fidei, come la ragione dell’uomo (ratio veritatis nos docuit). Si definisce in questo contesto il valore dell’intellectus, teso fra fede e visione beatifica. Per intendere la posizione anselmiana sarebbe quindi erroneo muovere da una giustapposizione tra fede e ragione: esse sono situate sulla stessa linea di sviluppo come momenti di un unico conoscere, dalla fede alla contemplazione; di qui anche il nesso tra speculazione e preghiera, che è caratteristica dell’opera anselmiana: fervore religioso e tensione speculativa sono così saldamente congiunti che reciprocamente si rafforzano, sicché dove più profondo è il mistero della fede, più impegnata si fa anche la ratio. Per il suo costante impegno speculativo A. è stato riconosciuto come il padre della scolastica; e certo, anche se egli restò lontano dall’impostazione sistematica delle più tarde summae, la posizione che riconobbe alla ratio nell’elaborazione speculativa del dogma segna il consapevole inizio di quel processo che – attraverso l’opera dei sommisti e canonisti del 12° sec. e soprattutto di Abelardo – porterà nel 13° sec., arricchito dalle tecniche della logica aristotelica, alla teorizzazione della teologia come «scienza».
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