Antichi giochi italiani
Le fonti classiche che documentano giochi con la palla sono antichissime e ricche. Limitandoci alla civiltà romana, già nel 2° secolo a.C., nel suo fondamentale Sapienti a banchetto, l'erudito greco Ateneo di Neucrati informava in termini salutistici che, tra tutti i giochi con la palla, egli preferiva "l'harpastum perché vanno in esso molte fatiche e sudori nel combattere e gagliarde forze di collo". Più avanti, Ovidio, in Ars amatoria, descrive le delizie della "palla trigonale", forse un'antesignana del tennis, nella quale tre giocatori posti a triangolo battevano e si rimandavano con l'ausilio di un apposito attrezzo, ma solo con la sinistra, 'leggere palle'. È poi la volta di Svetonio che nelle Vite dei Cesari riferisce come Augusto, conclusa la guerra civile, avesse scelto di abbandonare le cruente esercitazioni nella scherma e nell'equitazione per iniziare a giocare alla palla e al pallone, secondo una moda molto diffusa tra i romani del 1° secolo. Più preciso ancora Marziale, che descrive i due tipi di palla maggiormente in uso nel suo tempo: la pila o pila paganica, palla rustica riempita di piume usata principalmente sulle aie del contado e dei pagi, e la follis, una palla più grossa di cuoio leggero cucito e gonfia d'aria che andava di gran moda a Roma. Nel 2° secolo da una lettera di Plinio il Giovane sappiamo che i ricchi romani si facevano costruire presso le proprie ville apposite palestre, dette sphaeristeria, riscaldate nella stagione fredda. Rincara la dose il celebre medico Galeno che nel suo Conservazione della salute consiglia vivamente il gioco della palla, ritenendolo fra tutti gli esercizi fisici il solo incapace di procurare danno, se praticato con moderazione. In epoca cristiana gli fa eco Clemente Alessandrino (150-210) che inserisce il gioco della palla tra quelli concessi ai fanciulli che si intendano educare cristianamente.
I giochi di palla furono raccomandati anche da altri illustri medici dell'antichità: gli scritti del bizantino Oribasio, del greco Paolo di Egina e del filosofo e medico arabo Avicenna testimoniano come fosse diffusa la convinzione degli effetti salutistici di tali giochi in epoca sia paleocristiana sia altomedievale. Con questo viatico, la palla poté attraversare indenne i secoli bui del Medio Evo fino a giungere ai tempi nostri, anche se la pila romana (di cui ancora vi è il ricordo a Roma nella via e nella piazza della Pilotta) si trasformò nel pesante pallone ottocentesco usato per la ginnastica.
In Italia la palla, giocata con molta fortuna nel Quattrocento e nel Cinquecento, fu anche argomento di numerosi trattati. Il primo autore italiano a teorizzare del pallone (e degli altri giochi con la palla di pretta origine italiana) fu il filosofo Antonio Scaino da Salò nel Trattato del giuoco della palla pubblicato a Venezia a metà del Cinquecento, testo che ha valore miliare per tutta la materia. Nella pletora dei giochi che, alla lontana, possono farsi discendere dall'harpastum romano, Scaino illustrava quelli più di moda all'epoca, tra i quali differenziava, in particolare: "il gioco del pallone o vero di pugno perché col pugno armato si batte, il gioco della palla da scanno perché si batte con un istrumento preso in mano detto scanno, il gioco della palla da racchetta alla distesa e il gioco da mano con la corda". Quelli erano i passatempi più praticati dal popolo nel pieno del Rinascimento, anche se solo in alcune regioni.
Uno dei giochi con la palla più antichi era però del tutto ignorato dal trattato veneziano, perché nato e radicato solo in una città, nella Firenze medicea: quel calcio fiorentino che qualcuno, arditamente, indica come progenitore del moderno football, ma il cui merito principale resta l'aver coniato e trasmesso fino ai nostri giorni il termine 'calcio'. Che fosse poi difficile esportarlo fuori dalle mura cittadine lo prova un editto del Protonotario apostolico di Bologna che nel 1580 per "evitare risse, scandali et inimicizie" proibiva il "gioco del calzo, gioco di palla simile al calcio fiorentino", così chiamato per il diverso colore delle calze indossate dalle squadre contendenti.
Al tramonto del Settecento, si praticava il 'gioco del pallone', progenitore di quegli antichi giochi italiani, ancora oggi mai del tutto abbandonati, al quale sull'onda dei nascenti nazionalismi che seguirono l'avventura napoleonica, si attribuì una connotazione quasi irredentista, pur se rimase circoscritto in ambiti geografici ben definiti. Con tali premesse la Tribuna Illustrata alla fine dell'Ottocento poteva scrivere: "Il gioco del pallone, fra gli altri esercizi ginnastici, è il solo che abbia carattere veramente nazionale. In nessun Paese d'Europa, eccetto che nei Pirenei, esso è conosciuto. In Italia lo si gioca in tutta la regione Romagnola, nella Marca, in Toscana, in Liguria, in Piemonte. In tutte queste nostre regioni esso ha tradizioni vecchie: dappertutto ci sono dei ricordi di grandi giocatori. […] Il gioco del pallone come ho detto è rimasto in Italia e nei Pirenei, e non è improbabile che in dato momento, tra il quattro e il cinquecento, si sarebbe potuto trovare il gioco in una zona contigua dall'Adriatico al confine spagnolo [passando] per la Liguria e la Provenza. Comunque sia, questo gioco è stato sempre considerato come un passatempo nobilissimo e come uno dei migliori mezzi di ginnastica educativa tramandataci dal mondo greco-latino che faceva consistere tanta virtù di popolo nella prestanza e nel vigore del corpo" (Tribuna Illustrata, marzo 1893).
Le prime tracce scritte sul calcio giocato a Firenze, sulle quali si abbiano riscontri certi, si fanno risalire a un poemetto anonimo del principio del Quattrocento contenuto nel Codice Marucelliano. L'autore vi descrive in versi gustosi, fin troppo coloriti, una partita disputata a Piazza Santo Spirito. Se quello fu l'avvio, si trattò di un inizio fortunato, a giudicare almeno dalle numerose targhe che ancora oggi si ritrovano sulle facciate degli edifici cittadini con il divieto delle autorità di poter giocare in certi luoghi "al giuoco di palla e pallottole et ogni altro strepitoso". Tale era la frenesia dei giovani di Firenze che alcuni cronisti hanno tramandato notizia di un incontro disputato, il 10 gennaio 1490, finanche sulla superficie ghiacciata dell'Arno: "E a dì 10 di giennaio 1490, ghiacciò tutto Arno in modo che vi si fece su alla palla, e arsevi scope: fu gran freddo" (L. Landucci, Diario fiorentino dal 1450 al 1516).
Più ampie informazioni fornisce, nel 16° secolo, il mecenate Giovanni de' Bardi che, dietro lo pseudonimo di 'Puro Accademico Alterato', nel Discorso sopra il giuoco del calcio fiorentino (1580), si lasciava andare a considerazioni che oggi definiremmo sociali: "Il Calcio è un gioco pubblico di due schiere di giovani a piede e senza armi, che gareggiano piacevolmente di far passare di posta, oltre all'opposto termine, un mediocre pallone a vento a fin d'onore". Un'altra descrizione del calcio fiorentino è data dallo storico Francesco Domenico Guerrazzi che, forse più di altri autori, lui che fu triumviro di Toscana, si sentiva vicino all'anima popolaresca del gioco: "Si divideva il campo in due parti eguali e si circondava di steccato; i giocatori, in numero di 27 per parte, si dividevano in quattro classi, i cosiddetti Innanzi, che stavano presso alla linea partitrice del campo, gli Sconciatori venivano dopo, succedevano i Datori innanzi, chiudevano finalmente i Datori dietro. Vestivano leggieri e spediti, di colori svariati, rossi e bianchi, verdi e gialli; premio della vittoria: una giacca, una veste, una bandiera. Ai due capi del campo alzavano due tende ove stanziavano gli alfieri o capi delle parti, i quali appartenevano alle famiglie più grandi. Or dunque il gioco comincia col battere della palla; un mandatore, vestito di ambedue i colori della livrea, batte la palla al muro, talché subito risalti in mezzo agli Innanzi e si ritira. Gli Innanzi accorrono tosto, e quanto più possono si affaticano a far propria la palla; se a uno di loro vien fatto di côrla tra i piedi, gli altri si affollano attorno e lo difendono, ond'egli possa avviarla agli Sconciatori; ma quando anch'egli arrivi a districarsi dalla mischia non così lieve troverà la via dal suo posto a quello degli amici Sconciatori, imperocché gli Sconciatori avversi ecco che gli correranno sopra di fianco e lo costringeranno a lasciar la palla, dove gli Sconciatori amici non lo sovvengano di prontissimo aiuto: bello il conflitto; se la fortuna seconda i primi che s'impadronirono della palla, dagli Sconciatori passa ai Datori innanzi, e questi o col calcio o col pugno stretto le danno con forza da spingerla oltre lo steccato di faccia. Quando poi con la prossima pugna degli Sconciatori e degli Innanzi, i primi Datori non abbiano comodo di bene assestare il colpo, rinviano la palla ai Datori indietro, ai quali, siccome posti in parte tranquilla, è concesso agio di divisare il come e il dove indirizzarla. Possono ancora gli Innanzi, quando siano veloci di gamba e gagliardi, prendere la palla, e via correndo, tra gli emuli destramente serpeggiando, portarla dall'opposto steccato con bell'onore di vittoria; ma ciò pochi tentano, ed a pochissimi concede la fortuna di potere effettuarlo" (Guerrazzi 1860).
Il gioco era fin troppo violento e non di rado degenerava in rissa, in aperta battaglia che, accendendosi tra i giocatori, finiva con il coinvolgere anche gli astanti. Se ne preoccupavano già nei tempi antichi, come riferisce in un suo brano il Bardi: "Le pugna nel calcio intervengono non come proprie di quello, ma come conseguenti dagli affetti degli umani animi cagionate, ed aggiunte. […] Lande alcuni campioni del calcio, sieno o Datori, o Sconciatori o Innanzi, essendo spronati, o spinti da collera, o da invidia, o da altra loro passione, o giocando fuori del dovere con modi villani o scortesi, è forza che gli altri non essendo di sasso, ne facciano risentimento, e così vengono alle pugna; allora conviene che qualcuno ivi sia più vicino li divida".
Si ritiene che proprio per temperare quei poco edificanti comportamenti ‒ almeno a dar fede al Bardi ‒ al gioco fiorentino venissero ammessi solo i nobili o gentiluomini che chiedevano di parteciparvi. I loro nomi erano inseriti in un elenco dal quale il Provveditore sceglieva quelli ritenuti più degni. Nella lista figuravano Lorenzo duca d'Urbino, Alessandro duca di Firenze, Cosimo I granduca di Toscana, Lorenzo e Francesco figli del granduca Ferdinando, Alessandro de' Medici, Giulio de' Medici che poi salì al soglio come Clemente XII e con lui altri futuri pontefici, come Leone XI e Urbano VIII.
Celebre, tra le tante, è rimasta la partita giocata il 17 febbraio 1530. Erano i giorni della Repubblica seguita alla cacciata dei Medici e dell'assedio da parte delle truppe di Carlo V che volevano restaurare la Signoria. Nella città, cinta da ogni lato, imperversavano carestie e pestilenze, mentre le cannonate degli spagnoli facevano vittime a migliaia. Nonostante tutto i giovani fiorentini, approfittando del carnevale, vollero farsi beffe del nemico allestendo un incontro a Santa Croce. La cronaca di quella memorabile giornata d'orgoglio cittadino è stata tramandata dal cronista e letterato Benedetto Varchi nella sua Storia fiorentina: "I giovani, sì per non interrompere l'antica usanza di giocare ogn'anno al calcio per carnevale, e sì ancora per maggior vilipendio de' nimici, fecero in sulla Piazza di Santa Croce una partita a livrea, venticinque bianchi e venticinque verdi, giocando una vitella. […] E per essere, non solamente sentiti, ma veduti, misero una parte de' sonatori, con trombe ed altri strumenti, in sul comignolo del tetto di Santa Croce". L'assedio durò altri dieci mesi, ma alla fine si concluse con un accordo che scongiurò il sacco della città, non sappiamo se per il coraggio dimostrato dai fiorentini con quella sfida, più probabilmente per scelte politiche e di convenienza. Resta l'episodio e con esso la dimensione dell'importanza che si dava a quel gioco nel Cinquecento a Firenze.
Riguardo al modo in cui si giocava, indicazioni vengono offerte dall'edizione inaugurale del Vocabolario della Crusca il quale, nel 1612, informava che il calcio "è anche nome di un gioco, proprio l'antico gioco della città di Firenze, a guisa di battaglia ordinata, con una palla a vento rassomigliantesi alla sferomachia passata dai greci ai latini, e dai latini a noi" (Il gioco e gli sport 1958). Vale appena la pena ricordare che in Gran Bretagna, già nel Seicento, Enrico II d'Inghilterra aveva proibito il gioco del pallone perché troppo violento e che intorno al 1200 era apparso, redatto da John Langenus, il primo trattato sul gioco che poneva l'accento sull'accanimento dei contendenti che "si rompevano a volte il collo, la schiena, le gambe e le braccia e a volte il sangue colava dalle narici e dalla bocca".
Altre informazioni si possono trarre da due opere di Pietro Gori, erudito bibliotecario della Nazionale, che riportò in auge il gioco e le sue norme alla fine dell'Ottocento. Si è già detto che i giocatori erano 27 per partito (anche se non è chiara l'origine di tale numero). Al fondo del campo, la cui misura non era definita con esattezza, trovavano posto le tende con i Maestri, gli Alfieri e le Trombe; tutt'intorno si collocavano gli Alabardieri con l'incarico di trattenere la folla dall'invadere il campo e, in casi non infrequenti, di impedire ai giocatori stessi di aggredire gli spettatori. Al primo tocco di tromba tutte le genti di servizio dovevano ritirarsi, lasciando libero il campo che era stato adeguatamente chiuso da staccionate in legno. Al secondo squillo i giocatori andavano a occupare i posti assegnati e al terzo, e ultimo, il Pallaio o Mandatore, vestito nella stessa misura equanime dei colori delle due fazioni, doveva "giustamente batter la palla". Il gioco finalmente aveva inizio. Altre norme prevedevano che: "Uscendo la palla dagli steccati per mano di Datore (mentre non sia caccia né fallo) se i corridori vi saranno giunti in tempo da poter al nemico Datore impedirne il riscatto, sarà rimessa per terra; ma se i Corridori non arrivano in tempo sarà data in mano al Dator più vicino e i Corridori torneranno dietro agli Sconciatori senza perdere il vantaggio della piazza già guadagnata"; "Sia vinta la caccia quando la palla spinta con calcio o pugno esca di posto fuori degli ultimi steccati avversari di fronte"; "Sia sempre fallo, o che la palla sia scagliata o datole a mano aperta, quando essa s'alzi oltre l'ordinaria statura di un uomo"; "Sia fallo, eziandio, quando la palla resti di posta fuori dell'ultimo steccato da parte della fossa. Se esci di posta fuori dello steccato verso gli angoli della fossa, la linea diagonale del gioco, prolungata, distinguerà se è fallo o caccia"; "Due falli valgono una caccia, e i giocatori cambiano campo"; "Vinta la caccia, cambisi campo e nel mutar luogo l'insegna vincitrice sia portata, da uno solo dei giocatori, alta e distesa: la perditrice bassa e raccolta"; "In caso dubbio decidano i giudici a pluralità di voti: un giocatore per parte, e nella disfida il Maestro di Campo e non altri, può sostenere davanti ai giudici le proprie ragioni"; "Vinca quella parte che ha più volte guadagnato la caccia, o sia superiore a cagione dei falli. Le insegne siano dell'Alfiere vincitore, ed in caso di parità ciascuno riabbia la sua".
Dicono le cronache che l'ultima partita storica fu giocata il 19 gennaio 1739 in onore del granduca Francesco II di Lorena e dell'arciduchessa Maria. Ne dà conferma Marco Lastri che, in uno scritto del 1821 sul calcio che veniva giocato a Porta a Prato, è fautore della rinascita del gioco perché "adattissima invenzione per esercitare la gioventù al corso, al salto e alla lotta".
Da esso derivano tutti gli antichi giochi italiani. Sulla sua origine si può molto teorizzare, senza raggiungere certezza alcuna di trovarsi nel giusto. Sicuramente va fatto risalire ad antichi passatempi rurali, nei quali due o più giocatori dovevano rimandarsi una palla colpendola con forza a mano aperta o, preferibilmente, con il pugno chiuso. Per imprimere maggior slancio, ma anche per proteggere la mano da dolorosi traumi, sin dall'antichità era invalsa l'abitudine di fasciarla con stringhe di cuoio o strisce di correggia. Da qui il passo fu breve verso l'adozione di una protezione più solida, in legno, che era l'elemento naturale di più facile reperimento e lavorazione.
Il bracciale. - Antonio Scaino ci ha lasciato un accurato disegno del bracciale cinquecentesco, non molto dissimile da quello attualmente in uso. Dapprima le strisce di cuoio vennero sostituite da anelli in legno, di forme e dimensioni diverse; di seguito, già a partire dal 16° secolo, venne adottato il solido bracciale con rialzi a sbalzo, più lungo e con punte più sporgenti, che rimase in uso fino all'inizio dell'Ottocento, con la sola aggiunta di una traversa interna che serviva per impugnarlo saldamente. Il bracciale moderno è invece costituito da un manicotto di un solo pezzo, cavo all'interno in maniera che il giocatore possa adattarvi al meglio la mano e il polso.
Giulio Franceschi, che studiò le regole, l'ambiente e le attrezzature del gioco del pallone, nel 1903 scriveva sul bracciale: "La sua forma all'impugnatura è tale da difendere la mano pur lasciando da due lati esposta all'aria, il che è di non lieve comodità perché s'incalorisce nel giuoco. Vedrete infatti i giuocatori soffiar sovente sulle dita per averne un momentaneo refrigerio. Ha all'estremità inferiore un bottone di ferro il cui ufficio è soltanto di non far sciupare il bracciale quando vien battuto nel muro onde assestarlo a forza sul braccio. Il manicotto è di diametro maggiore nei tre giri verso l'impugnatura ed ha dei fori cilindrici in cui vanno a commettersi i denti, a forma di lancia spuntata. Questi fori sono fatti in modo che i denti vengono a trovarsi a contatto lateralmente, e scaglionati, così da formare due fili longitudinali, in sette linee e mezzo circolari. La mezza linea è verso l'impugnatura. Ogni linea ha quattordici denti, i quali possono facilmente esser cambiati quando si rompono. I giuocatori usano un martello di legno, o mazzuolo, per ribatterli prima e durante il gioco. La parte da cui il bracciale s'infila dicesi ciambella; l'altra muso o musetto, e può infatti richiamare alla mente la bocca di un pesce. I migliori bracciali sono quelli dal manicotto di sorbo e i denti di corniolo. Pesano circa due chilogrammi (6 libbre toscane), ma quando con l'uso minacciano di spezzarsi, vengono rinforzati con strisce di ferro tra le linee dei denti, e da allora è presto capito che pesano di più. Il giuocatore si fascia il polso e parte dell'avambraccio, con strisce di tela, ed infila a forza il bracciale: quando lo ha infilato, spinge indietro, con una stecca, la fasciatura per assicurarlo sempre meglio ed averne il contatto".
Il pallone. - Il pallone all'inizio aveva peso pari a una libbra toscana (0,3395 kg), all'incirca quello di un moderno pallone da football. Le dimensioni erano più grandi di quelle odierne, in seguito si sono ridotte, con differenze su base regionale: nelle Marche e nella Toscana, fino alla prima metà dell'Ottocento, rispetto all'attuale il diametro era maggiore di circa 15 cm ('pallone toscano'), mentre in Piemonte la differenza non superava i 10 cm. Ai giorni nostri il diametro è ovunque di 12 cm.
Ma più che su misure e dimensioni, conviene soffermarsi sulle tecniche di costruzione susseguitesi nel tempo, poiché l'evoluzione del pallone anticipa l'evoluzione di tutti i giochi che ne fanno uso. Scrive Franceschi: "Un tempo i palloni erano formati all'esterno di cuoio forte (suola) in pezzi connessi strettamente a mezzo di cuciture: avevano all'interno una vescica di maiale ben preparata che funzionava da camera d'aria. La vescica era tagliata in quattro fusi di sfera dal diametro corrispondente, lasciando in ciascuno di essi una maggior larghezza di circa mezzo centimetro onde sovrapporvi l'altro fuso ed incollarvelo fortemente. Riuniti i quattro fusi, veniva ben chiuso uno dei poli della sfera, mentre sull'altro veniva incollata un'animella d'ottone cilindrica e saldata nel mezzo da una piastrina rotonda con un foro, il quale andava a corrispondere con l'altro foro che veniva lasciato nel cuoio esterno; sotto vi era fissato, da due lati, un pezzo di pelle, destinato ad agire da valvola. Tra la vescica e il cuoio ponevano un involucro di pelle scamosciata. Nei palloni adoperati ora, di otto pezzi all'esterno, mezzi spicchi, la camera d'aria sebbene si continui a chiamare vescica, è fatta di cuoio di manzo come la parte esterna: soltanto l'esterno è tagliato nella parte della pelle più forte (schiena) e la vescica nella più debole (pancia). Non v'è più l'altro involucro tra la vescica e l'esterno, e all'animella d'ottone vennero sostituiti dischi di cuoio. I palloni debbono essere cuciti alla rovescia ‒ donde il modo proverbiale toscano: alla rovescia si cuciono i palloni ‒ e la pelle dev'esser sottoposta ad una concia speciale. Con una solida pompa viene spinta l'aria nel foro del pallone: sotto la pressione esterna la pelle della valvola cede, ma l'aria stessa quanto più vien compressa nell'interno del pallone, tanto più fa forza contro la valvola medesima, fino a che questa ottura ermeticamente il foro. Gonfiato il pallone vengono spianate, con un paletto di ferro cilindrico, le cuciture sporgenti (costole); lo si ingrassa con del sego, e si prova facendolo sbalzare su un pezzo di pietra; deve essere rigonfiato ogni volta che viene rimesso in gioco".
Lo sferisterio. - Di origine romana, con destinazione pubblica o privata, era il luogo destinato al gioco con la palla. Di norma ospitava un terreno allungato e ben battuto, originariamente lungo tra i 90 e i 100 m e largo dai 16 ai 17 m, diviso per metà da una linea di mezzo realizzata con mattoni a taglio sporgenti circa 3 cm. Il campo, oltre che dalle gradinate o dallo spazio per il pubblico, era fiancheggiato da un muro d'appoggio tra i 18 e i 20 m d'altezza che, oltre a racchiudere il terreno, serviva ad accelerare la velocità dei colpi e falsarne i rimbalzi. Una recinzione in rete, alta più di 4 m, completava l'impianto e ne garantiva la sicurezza. Ai quattro angoli del campo venivano piantati dei travi per delimitarlo, due dei quali, infissi nel muro, marcavano l'area del gioco aereo.
Il più famoso sferisterio resta quello monumentale di Macerata, fatto costruire nel 1820 da un centinaio di cittadini tassatisi per la bisogna e oggi utilizzato più che altro per manifestazioni canore. Non si trattava di una novità: a Roma, già nel Seicento, esistevano spazi attrezzati per il gioco della pallacorda o della pilotta. Anche a Pesaro vi era un teatro della pallacorda. Altri sferisteri famosi a fine Ottocento, ma poi cancellati dai piani regolatori, si trovavano a Roma (Quattro Fontane), a Firenze (sferisterio delle Cure sul viale Militare e l'altro fuori Porta a Pinti), a Torino (Porta Susa all'antica piazza d'Armi, poi sostituito dal campo di calcio della Juventus). Molto importante era anche lo sferisterio di Bologna.
Quando non era possibile, e capitava spesso, costruire un apposito impianto, si ripiegava su uno spazio confinante con le mura cittadine, i bastioni di una fortezza, un edificio monumentale. Non c'era paese o città dell'Italia centrale, della Romagna e dell'Emilia, del Piemonte o del Veneto che non avesse il suo spiazzo per il gioco, le cui dimensioni variavano secondo il tipo adottato: quello toscano richiedeva spazi maggiori.
Le regole del gioco. - Fino ai primi decenni dell'Ottocento il gioco al bracciale presentava caratteristiche proprie a seconda delle diverse località. Il tentativo di uniformarne le regole incontrò qualche resistenza iniziale, poi si raggiunse un punto di incontro tra le varie versioni. Un certo campanilismo era sempre presente tra giocatori e pubblico che avevano abitudini dissimili e parlavano dialetti molto diversi tra loro.
Le intese, faticosamente raggiunte, prevedevano che la partita andasse ai sessanta punti, divisi ‒ rifacendosi ad antiche tradizioni altomedievali ‒ in 4 'quindici', anche se più tardi il 'chiamatore dei punti' preferì portare il quarantacinque a un più rapido quaranta. Se entrambe le squadre raggiungevano i quaranta punti, si ripartiva da trenta: era necessario (come nel tennis moderno o nella pallavolo) che tra i due punteggi ci fosse un doppio scarto.
Un gesto gentile da parte dei giocatori prevedeva che, a inizio incontro, il primo giocatore a ricevere il pallone dal 'mandarino' (personaggio estraneo al gioco, ma fondamentale, che aveva appunto il compito di lanciare la palla al battitore nel momento in cui questi scendeva da un trampolino inclinato per colpire il pallone con il bracciale), non lo colpisse con forza, ma si limitasse a farselo scivolare sul bracciale, mentre gli altri contendenti si rivolgevano al pubblico con un inchino. Questa usanza, nata in Toscana, si diffuse in seguito nelle altre regioni, anche se sopravvissero a lungo altre tradizioni locali. Così Belli riferisce che, a Roma, era usanza del battitore nel momento di lanciare la palla rivolgersi agli avversari con un triplice invito in vernacolo: "Vada, vvienghi, cquale la volete". All'invito poteva seguire l'accettazione, ma anche il rifiuto, e allora tutto doveva ricominciare.
La partita inizia sempre con i giocatori rossi alla battuta, quindi si cambia di campo a ogni nuova rimessa. Le squadre ‒ nella versione più diffusa, quella del gioco toscano ‒ sono composte da tre giocatori (terziglia): il battitore, che prende posto in fondo al campo; la spalla, che si colloca alle spalle del battitore; il terzino, che sta in avanti, faccia rivolta al muro. Completano lo schieramento il mandarino e il 'chiamatore dei punti'. Nella versione piemontese, i giocatori in campo sono quattro (quadriglia): battitore, spalla, mezzaspalla e terzino.
Le principali regole d'uso più generale alla fine dell'Ottocento, quando il gioco attraversò il suo periodo di maggior fulgore erano: "Il giocatore deve stare, con almeno un piede sul terreno circoscritto dai segnali e rimanere nella metà di campo assegnato a quelli del suo colore: non può dare a un pallone stando coi due piedi nel canale, né andarne al di là, e neppure toccare con un piede la linea di demarcazione, o cordino". "Il pallone in gioco può essere toccato dai giocatori soltanto col bracciale: se tocca una parte qualunque della persona rappresenta un punto perduto". "Il giocatore non può toccare col bracciale il terreno nell'atto che dà al pallone". "Si può rimandare di posta [al volo], o al primo balzo, non dopo". "Per un fallo chi manda il pallone fuori del gioco da una delle parti laterali, o al disopra del muro o della rete opposta, o chi lo fa battere nelle rete medesima, o anche nel canale che la fiancheggia". "Il pallone che avendo battuto sul muro, per taglio, torna in gioco, è valido se non venne perduto di vista". "Fa parimenti un fallo chi non fa superare dal pallone il cordino prima del balzo". "Fa una volata chi manda il pallone in una delle reti di testata (battuta o ribattuta) o la supera passando nello spazio limitato dalle antenne". "Perdono il punto i giocatori del partito dal quale non vien rimandato il pallone che non è andato in fallo". "Rompendosi il pallone durante il gioco, non conta né come quindici buono né come fallo e si ripete la battuta". "In conseguenza delle regole sopraccennate si segna un quindici buono al partito del giocatore: che ha fatto una volata; il cui pallone non è rimandato, di posta o al primo balzo; cui viene mandato il pallone, o risposto, in fallo, ovvero se l'avversario urta il pallone con una parte qualsiasi del corpo, o va con la persona o la semplice punta del piede sulla linea del cordino, o nel dare tocca il bracciale per terra". "Vince un gioco il partito che arriva prima a quattro quindici. Se gli avversari non hanno fatto nessun quindici, il gioco è vinto 'marcio' e conta per due". "Il battitore può rifiutare il pallone inviatogli dal mandarino: deve però dichiararlo o esplicitamente, o implicitamente toccandolo col bracciale senza dargli forza". "Usualmente un battitore batte per due giochi di seguito (che formano un trampolino) dopo dei quali passa alla ribattuta, lasciando il trampolino all'avversario".
Varianti. - Il gioco presenta delle varianti. Alcune sono cadute in disuso, ma meritano una citazione perché aiutano a intenderne lo spirito. Una delle più note era la partita con il cordino, sollevato a mezz'altezza, come nei giochi di racchetta. A volte, anzi, al cordino era attaccata una rete. Il pallone doveva sempre passare sopra le rete, senza toccarla né passare sotto, altrimenti si realizzava un fallo.
In un ambito tipico più della sagra paesana che del gioco propriamente detto, poteva capitare che, in serate d'onore o di festa, si collocasse sulla rete un tamburo di leggera carta colorata contente alcuni colombi. Il giocatore che sfondava il tamburo, liberando il volo dei colombi, vinceva un premio suppletivo. Altre volte veniva collocata sul campo una botte scoperchiata nella quale si nascondeva un giocatore che poteva, al passare di qualche pallone, intercettarlo con il bracciale.
Una variante poco usata era la palla a muro che veniva giocata su un terreno largo 8 m, da un lato limitato da un muro alto 1,5 m. Le squadre potevano essere formate da un numero variabile di giocatori, da due a dodici (divisi in battitori e ribattitori). Il lancio e il rilancio dovevano obbligatoriamente avvenire facendo rimbalzare la palla sul muro, ma sempre al di sopra della linea disegnata.
Il costume dei giocatori. - Anticamente era invalso l'uso di presentarsi sul campo con indosso una semplice camicia. Poi, man mano che il gioco si faceva più impegnativo e si iniziò a praticarlo non più per semplice diletto, ma traendo dalle esibizioni cespiti e regalie, l'abbigliamento divenne più curato. Sempre Franceschi informa: "Pei giocatori di professione il vestito dev'essere bianco, di tela o di piquet, e costituito da una casacca, mancante della manica destra; calzoni fino al ginocchio, calze lunghe di filo e scarpa di tela. Intorno alla giacca vi è chi mette per guarnizione una gala, un ricamo, od una trina, sempre in bianco; ma le più semplici rimangono le più graziose. Non vi sono tasche, e i giocatori tengono nella mano sinistra il fazzoletto per asciugarsi il sudore e… per strapparlo coi denti ad ogni colpo sbagliato. Fino al secolo scorso tra la giacca e i calzoni portavano un corto gonnellino di colore azzurro o rosso, che fu poi sostituito da una ciarpa (o fusciacca) alla sua volta sostituita da una pezzuola di stoffa rettangolare, che molti ambiscono di portar ricamata e con frangia dorata. Nel secolo scorso i giocatori bravi, specialmente nel giorno della loro beneficiata, portavano pendenti dalla cinta ricche ciarpe di seta che venivano loro offerte da ammiratori e … da ammiratrici insieme a medaglie d'oro le quale dovevano essere guadagnate in partite difficili. […] I giocatori di pallone hanno continuato a portare i calzoni corti, anche quando la moda (dalla prima metà del secolo passato) volle quelli lunghi ora abbandonati in quasi tutti gli esercizi sportivi. Il solo mandarino, fu traditore, mise i calzoni lunghi ed ora per castigo glieli hanno lasciati onde denotar subito che ei non è destinato ad un esercizio sportivo … ma soltanto a pigliarsi qualche pallonata nel petto o nelle spalle dai battitori inesperti o indispettiti". L'azzurro (o il turchino) e il rosso vennero così a cedere il passo al più elegante bianco.
Le beneficiate e il totalizzatore. - Una delle più radicate abitudini prevedeva che i giocatori, prima di cominciare la partita, si collocassero con un tavolino davanti all'ingresso da cui affluivano gli spettatori. Sul tavolino, dinanzi a loro, ponevano un vassoio d'argento ‒ ma, il più delle volte, di metallo meno nobile ‒ destinato a raccogliere offerte in denaro o oggetti di qualche valore. Era una usanza nata nel Settecento nei teatri, quando artisti e artiste di grido facevano qualcosa di analogo per dare un senso pratico alla loro arte, anche se in quei casi la questua prendeva il nome di 'serata d'onore'. Le beneficiate, il cui uso si diradò verso la fine dell'Ottocento, vennero in parte sostituite da collette organizzate autonomamente, previa autorizzazione dell'impresario, dai mandarini e dal 'chiamatore dei punti' in occasione del Ferragosto.
Queste primitive forme di ingaggio sparirono del tutto quando venne affermandosi l'uso del totalizzatore applicato al gioco, una novità che incontrò molte resistenze da parte dei pubblici poteri prima di essere legalizzato a tutti gli effetti. Si scommetteva non sulla squadra, ma sui singoli giocatori, indipendentemente dai colori. Le quote erano stabilite in base alle puntate e venivano pagate, come alle corse dei cavalli, una prima e una seconda categoria di vincite. Al gestore dell'impresa andava il 10% dell'intero ammontare delle scommesse. Si trattava di un sistema molto articolato, dov'erano posti in gioco sia le prestazioni dei giocatori sia i loro errori, e che non poteva ritenersi del tutto esente dal rischio di qualche aggiustamento.
I grandi giocatori.- Ricchi probabilmente no, ma famosi sicuramente divenivano i maggiori giocatori di un'epoca che doveva ancora scoprire il divismo e in cui le informazioni viaggiavano a rilento, preferibilmente di bocca in bocca. Ogni città aveva i suoi campioni, giovani e meno giovani (non capitava di rado che i maggiori per fama e per rispetto superassero i 50 anni). Se ne ricordano a fatica i nomi, molto di più i soprannomi con i quali il popolo li osannava.
Un gioco proletario, è stato detto, per l'origine umile dei suoi protagonisti. Non proprio vero, poiché lo praticavano anche i nobili, non vergognandosi per qualche scommessa perduta. Lo giocavano con furia ‒ riferisce Edmondo De Amicis ‒ "condottieri famosi, principi, cardinali, pontefici, cavalieri, il fiore dell'aristocrazia romana, fiorentina, bolognese". C'era anche chi, come il marchese Piero Antinori, coltivava "con tanta passione il più bello dei nostri giochi nazionali", da farsi costruire uno sferisterio nella sua villa, nei pressi di Firenze.
Ma i veri protagonisti restavano i proletari anche perché la violenza dei colpi e il peso del pallone, accresciuto dall'abbrivio, richiedevano grande prontezza, possanza, coraggio per i rischi di frattura, che non sempre erano prerogative dei giovani più nobili. Nella Roma papalina furoreggiava un certo 'Tuzzoloncino' (soprannome derivato, con tutta probabilità, dal verbo romanesco 'tuzzare' per alludere alla violenza dei suoi colpi), idolo delle folle del quale nessuno ha tramandato il vero nome: forse un carrettiere, forse un carbonaio, certamente un professionista del gioco, uno su cui scommettere forti somme.
Sul muro dello sferisterio bolognese erano infisse alcune lapidi per ricordare l'altezza alla quale erano stati ripresi i palloni. In una si leggeva: "A Giovanni Ziotti ‒ giocatore di spalla valentissimo ‒ degno di perpetua memoria ‒ il pubblico pose ‒ 8 ottobre 1883". Di questo Ziotti, 'artista dell'anima', si ricordavano le innovazioni tecniche e le invenzioni stilistiche (il suo colpo famoso era riprendere con il braccio piegato e il bracciale all'altezza della vita, dietro la schiena, i palloni che venivano attaccati al muro). Onori ancora maggiori toccarono a Giovanni Battista Cerrato da Portacomaro, Asti, cui De Amicis consacrò ben quattro pagine.
Tra i più grandi giocatori, eroi della generazione della nuova Italia unita, restano il pisano Antonio Maestrelli (1815-1895) che giocò fino ai 56 anni, il piemontese Domenico Bassotto, nato nel 1840 a Scurzolengo d'Asti, bersagliere, che fu tra quelli che entrarono a Roma dalla breccia di Porta Pia e finì i suoi giorni come rispettato direttore dello sferisterio torinese. Va poi ricordato Bruno Bianchini di Prato, figlio e padre di giocatore.
Deriva dal gioco del pallone a bracciale e simili sono le misure del campo (96x20 m). I giocatori sono quattro per ciascun partito: battitore, spalla, due terzini. La palla è in gomma, di circa 10 cm di diametro. La si colpisce con la mano nuda, appena protetta da pelle, o garza o tela. L'assegnazione dei punti, sempre disposta su base quindici, avviene dopo quattro giochi (15, 30, 40, gioco). La partita si conclude dopo che una delle due quadriglie ha raggiunto il numero di giochi fissato all'avvio, di norma undici.
Per quanto riguarda le modalità di svolgimento, all'inizio il battitore prende posto nello spazio a lui riservato e lancia la palla verso la metà campo avversa. La respinta deve avvenire al volo o, al più, dopo che la palla abbia effettuato il primo rimbalzo. In caso avverso si segna una 'caccia', ossia un punto individuato dall'arbitro e tracciato sul terreno, che avrà valore di punto se la caccia seguente cadrà oltre quel segno.
Il trattato di Franceschi, già ricordato a proposito del pallone a bracciale, riporta le norme antiche sulle 'cacce', che costituivano un antico e complicato metodo di conteggio dei punti, adottato quando non c'era ancora il muro, avvertendo che il sistema venne abbandonato dovunque (meno che in Veneto e Piemonte) perché "guastava più che accrescere l'interessamento da parte dei giocatori". Va anche ricordato che, con il sistema delle 'cacce', era preferibile il gioco a otto (due quadriglie opposte). "Se non riuscivasi a ripigliare il pallone di posta, o al primo balzo, nel punto dove i giocatori riuscivano a fermarlo veniva posta la caccia". "Segnata una caccia, se i giocatori di battuta o di ribattuta avevan fatto tre quindici con le regole ancora in uso (cioè: o con delle volate proprie, o con dei falli fatti dagli avversari) si passava subito, se né gli uni né gli altri avevano ancora segnato tre punti [quindici], aspettatasi, per passare, la seconda caccia"."Una caccia non influiva sui punti; costituiva però una scommessa tra i giocatori che s'impegnavano a vincerla". "Quando i giocatori erano passati da una parte all'altra, lasciando la caccia al posto dove era segnata, dovevano oltrepassarla prima del secondo balzo, ché se il pallone batteva in terra due volte al di qua di essa era per loro un'altra caccia perduta". "Una era detta: prima caccia; l'altra la seconda".
Pochi giochi possono vantare di aver attraversato, pressoché indenni nei contenuti, cinque o sei secoli. Nel Cinquecento, nel trattato dello Scaino, vi si faceva riferimento come gioco della 'palla da scanno'. La sua fortuna, rispetto al gioco del pallone, era dovuta alla maggiore facilità di reperire uno spiazzo o un prato adatti, all'inutilità del muro d'appoggio, e al non presentare alcuno dei rischi del pallone. Non per questo erano meno spettacolari e soddisfacenti i rimandi e le volate che la palla leggera e la pelle ben tesa di un buon tamburello potevano creare.
Agli incerti inizi del gioco, forse nato su un'aia in un dì di festa o ispirato dall'angustia di un cortile in un pomeriggio di noia, lo scanno ‒ dal termine latino scamnum, probabilmente utilizzato con il significato estensivo di "sedile" o, più genericamente, di "piano in legno" ‒ era costituito da un disco di legno pieno, forse anche una fetta di tronco, ma presto si adottarono tamburelli formati da un perimetro in legno sul quale era tesa una pelle animale (cartapecora). I primi tamburelli moderni avevano il piano in cuoio di cavallo giovane, appositamente conciato e ben teso sui bordi del cerchio: una scelta dettata dalla necessità di avere sempre maggiore elasticità e resistenza che consigliò di abbandonare definitivamente altri tipi di rivestimento, come la pelle di vitello. Alla fine dell'Ottocento Francesco Gabrielli sulle 'risposte' del tamburello osservava: "Il suono che debbono dare quando battono la palla dev'essere acuto, direi quasi metallico e si può provare battendo sulla pelle con la nocca delle dita, o meglio ancora con lo scatto del medio in quel modo che i fiorentini chiamano 'biscottino', i milanesi 'goga' e che in lingua credo si dica buffetto. […] Dal tamburello si giudica il giocatore, un buon giocatore non adopera mai uno cattivo e quello da lui usato si consuma soltanto nel centro. Quando vedete un tamburello con una sola macchia scura nel centro, della grandezza di una palla e tutto bianco all'intorno, dite pure che chi lo ha adoperato sapeva il fatto suo".
La palla anticamente era realizzata in cimosa, con l'anima in piombo e ricoperta all'esterno di pelle o di uno spago intrecciato a rete. Con l'estendersi dell'uso del caucciù, già a metà dell'Ottocento, se ne costruivano in gomma piena o mezza piena, con una leggera anima di spugna e l'involucro di non più di 2 cm. Il peso era contenuto tra gli 80 e i 100 g. La diffusione delle palle in caucciù in principio fu rallentata dall'altezza e dall'imprevedibilità dei rimbalzi, ma alla lunga finirono per soppiantare del tutto quelle antiche. Ai giorni nostri, abbandonata definitivamente ogni risorsa animale, il tamburello è un attrezzo tutto in plastica molto resistente, rotondo, di 28 cm di diametro, per il gioco e la battuta, ovale ('tamburella') solo per la battuta. La palla è di gomma semipiena: nel gioco all'aperto ha 83-88 g di peso e 59 mm di diametro, in quello indoor 42 g di peso e 61 mm di diametro.
Il campo di gioco all'aperto, per le categorie superiori, ha dimensioni di 80x20 m, ed è diviso in due parti uguali da una linea mediana tracciata parallelamente ai lati corti. All'interno di ciascuna metà campo è ricavata un'area di battuta, delimitata dalla linea di fondo e da una linea parallela a questa, posta alla distanza di 5 m. Il campo indoor misura 30-34x12-16 m; la battuta avviene dall'esterno del campo.
Le squadre sono composte da cinque giocatori (battitore-spalla, rimettitore, centrocampista o mezzovolo, terzino destro e sinistro), che nel corso della partita possono avvicendarsi nei ruoli. Dà inizio al gioco il battitore, lanciando la prima palla che può essere ribattuta al volo o dopo il primo rimbalzo. Se il primo tentativo non è valido, il battitore ne ha a disposizione un secondo. La partita si svolge in unico set, sulla distanza di 13 giochi. In ogni gioco i punti sono conteggiati secondo la cadenza di 15, 30, 40 e 50, che assegna il gioco. L'insieme di tre giochi costituisce il 'trampolino' dopo la cui disputa le squadre cambiano campo.
Il gioco del tamburello è diffuso in tutta Italia, prevalentemente in piccoli centri che alle partite si animano come in un giorno di festa. Gabrielli notava che questi incontri "danno luogo a sfide che quasi ricordano le guerre dei comuni".
Oggi quasi caduto in disuso, ma alla fine dell'Ottocento ancora ben diffuso nell'Italia centrale (Toscana) e in Piemonte, costituiva una variante della palla a bracciale. La palla, di dimensioni a metà fra il pallone elastico e la palla del tamburello, era formata dalla semplice vescica (oggi diremmo camera d'aria) senza copertura in cuoio. A volte, e senza troppe angosce, in caso di scoppio o altri guasti, si faceva ricorso a una palla formata da stracci compressi e ricoperta in pelle. Si rinunciava all'elasticità guadagnando in praticità. Anche il bracciale era più piccolo e meno pesante. Privo di spuntoni nella parte superiore, quasi rettangolare, era in legno, aveva la testa sagomata a ferro di cavallo con le punte sporgenti e si impugnava infilandovi la mano, tenendola ferma a un supporto impugnato tra pollice e indice: attrezzo campagnolo, più che a un bracciale somigliava a una manopola. Il suo nome popolare era 'caciottino'. Il gioco era praticato su terreni ridotti, più che altro da neofiti e come allenamento al pallone. Le partite si aggiudicavano con il sistema dei 4 quindici.
Progenitore del tennis, il gioco della palla a corda è, a detta dello Scaino, di nobilissima origine italiana: "gioco della palla da racchetta alla distesa e gioco da mano con la corda". Già codificato nell'Italia settentrionale tra Quattrocento e Cinquecento e praticato dalla nobiltà più che dal popolo, discendeva dalla palla trigonale dei latini, di cui s'è già detto, anche se poi i francesi lo battezzarono jeu de paume. A confermare la sua origine italiana, comunque, resta il sistema di conteggio dei punti che è sempre il quindici, trenta, quaranta e gioco. Pare più forzata la tesi che vorrebbe la parola 'tennis' derivare dal latino tenisia (dalla striscia di stoffa che divide il campo), ma che trova anche riscontro nell'antico termine inglese tenise. Qualunque sia stata la sua origine, furono gli inglesi a riportare il gioco in Italia nella seconda metà dell'Ottocento. Il primo Tennis club italiano venne costituito a Bordighera, nel 1878, su iniziativa di alcuni residenti britannici.
Si ritiene che, all'inizio, la palla venisse giocata a mano nuda e solo più tardi sarebbe stata introdotta la 'racchetta alla distesa' di cui dice lo Scaino. Gioco gentile, è il primo che vide le donne impegnarsi sul campo oltre che come spettatrici.
Gioco affermatosi in epoca rinascimentale, ma d'origine antichissima, se ne trova traccia in molte opere letterarie. Tra i primi ne parlò in Italia Antonfrancesco Grazzini detto 'il Lasca' nel Canto di giocatori di palla al maglio (1559).
Gli attrezzi richiesti erano un maglio e una palla di legno. Il maglio, un mazzuolo di legno dal manico lungo, veniva adoperato afferrandolo con le due mani sovrapposte e, dopo una rotazione, percuotendo con esso la palla con notevole forza. Il gioco consisteva in prove di destrezza o di distanza. Conosciuto e praticato in tutte le città italiane, se ne faceva risalire l'origine ai romani.
Gioco di corte, riservato ai nobili e d'obbligo nelle feste patrizie, si diffuse rapidamente in Francia con il nome di mail (uno dei campi più celebri si trovava alle Tuileries, commissionato da Luigi XVI che ne era un appassionato). Nel 17° secolo la moda della palla al maglio sbarcò in Inghilterra dove il gioco venne ribattezzato pall-mall incontrando un enorme successo, tanto da dare il nome al quartiere che ospitò il primo campo. Diede poi origine ad alcuni degli sport più tipicamente britannici: il cricket, il croquet, il golf. Furono proprio gli inglesi a modificare il mazzuolo, dandogli forme meno rigide, ma più confacenti alle nuove regole che andavano stabilendosi, mentre la palla ‒ anche ai fini di attutire gli effetti dei colpi ‒ venne ricoperta da una superficie in panno.
Caduto ormai quasi del tutto in disuso, sono stati dimenticati anche i nomi degli esercizi che il gioco prevedeva: rouet (giro del campo nel minor numero di colpi); passe (a squadre di quattro o sei giocatori); chicane (gioco in aperta campagna e su terreno accidentato); big shoot (sfida tra due concorrenti impegnati a raggiungere la distanza maggiore).
Sotto questa dizione si raccoglievano esercizi di varia natura, catalogati in base alla dimensione e al peso dell'attrezzo semplice (palla) utilizzato. In tutti i casi si utilizzavano palloni ginnici da palestra e lo scopo era quello di 'sfrattare' la squadra avversaria dal suo campo. Le principali categorie erano: sfratto al balzo, sfratto al disco, sfratto a palla spinta, sfratto con palla vibrata.
Lo sfratto al balzo era un esercizio ottocentesco, statico e noioso, per il quale veniva utilizzato un grosso pallone di gomma, ricoperto di cuoio o di tela forte. I dodici giocatori si disponevano su tre file, la prima delle quali doveva collocarsi a 8 m dalla riga mezzana del campo, e lanciavano a turno la palla nel campo avverso, il più lontano possibile. Gli avversari tentavano di rilanciarla, potendo usare solo le mani. Il punto di caduta determinava la linea del nuovo schieramento degli attaccanti della squadra che aveva lanciato. A quel punto la palla passava all'altra squadra che avanzava fino al nuovo punto di caduta del proprio lancio. Ogni fallo consentiva un avanzamento di 3 m della squadra che l'aveva subito. Scopo del gioco era di raggiungere prima possibile la linea di fondo avversaria, causando lo 'sfratto' degli avversari.
Lo sfratto al disco era analogo al precedente, ma con l'uso di un pallone di cuoio più piccolo e riempito di crine. Il lancio doveva imitare il lancio del disco e, pertanto, la palla doveva essere lanciata con il braccio disteso all'indietro e con rotazione. La palla che cadeva nel campo avverso poteva venir rimandata di volo o fermata a due mani: in quest'ultimo caso, il giocatore acquisiva il diritto di rinviarla sostituendosi al compagno di turno.
Nello sfratto a palla spinta invece che il gesto del discobolo andava imitato il movimento del getto del peso, con il braccio alzato e il palmo della mano che reggeva la palla poggiato sulla spalla.
Nello sfratto con palla vibrata la palla, del peso di 1,800 kg e un diametro variabile tra i 18 e i 21 cm, completamente riempita di crine di cavallo e rivestita in cuoio, presentava sulla superficie due strisce di cuoio che la cingevano completamente, a croce, formando una solida maniglia. Come esercizio ginnico, utile per lo sviluppo della muscolatura dorsale e degli arti, la palla era lanciata il più lontano possibile, afferrandola per la maniglia, dopo averle impresso alcune rotazioni, secondo la capacità e la forza del ginnasta; i lanci dei migliori giocatori non superavano i 40-45 m. La prova a squadra ‒ sei giocatori per parte ‒ si disputava su un campo rettangolare di ampie dimensioni (120x20 m) e aveva una durata 20 minuti divisi in due tempi uguali. Anche qui lo scopo era costringere la squadra avversaria a superare la linea di sfratto. Questa disciplina, accolta nell'ambito della Federazione italiana sport atletica, disputò i suoi campionati nazionali all'inizio degli anni Venti.
Gioco prettamente italiano, di effimera gloria, è stato l'ultimo degli sport italiani. Venne ideato e teorizzato a tavolino, nell'estate del 1928, quale rimedio ai guasti procurati dal dilagante professionismo nello sport italiano, nel calcio in particolare, che alla fine degli anni Venti stava mettendo in crisi tutta l'organizzazione sportiva nazionale. Padre del nuovo gioco fu Augusto Turati, a quel tempo segretario del PNF (Partito nazionale fascista) e, come tale, anche capo del CONI. Turati aveva praticato con successo la scherma, continuando a prendere parte saltuariamente ad affollate esibizioni e, pertanto, di sport aveva più di una cognizione. Nella volata ‒ che nelle sue idee avrebbe dovuto essere la vincente risposta nazionale all''albionico' football ‒ introdusse una serie di elementi tratti, con molta libertà e fin troppa fantasia, da diverse discipline di squadra: lo stesso calcio, il rugby, il basket e la pallamano, termine con il quale il regime, autarchicamente, traduceva il gioco dello handball di origine tedesca.
Le regole erano semplici. Si giocava nell'arco di un'ora suddivisa in tre tempi da 20 minuti ciascuno. Le due squadre erano formate da otto giocatori: un portiere, due terzini, tre mediani, due attaccanti. La palla ‒ del tipo di quelle utilizzate nel football ‒ pesava circa 400 g. Poteva essere giocata sia con i piedi sia con le mani, nel qual caso non doveva essere trattenuta per più di tre secondi, a meno che la si facesse rimbalzare come nella pallacanestro. Era ammesso il placcaggio dell'avversario purché eseguito con presa al di sopra della vita. Il campo era rettangolare, con misure variabili dai 40x60 m fino al massimo di 60x90 m che caratterizzava i maggiori impianti calcistici. L'area (quella che nel calcio si chiama 'di rigore') era costituita da un arco avente sulla linea di porta una corda di 8 m. Le due porte misuravano 5 m di larghezza e 2,44 m di altezza. La rimessa laterale o i 'corner' si effettuavano esclusivamente con le mani. Ovviamente, scopo del gioco era quello di segnare il maggior numero di porte.
Malgrado l'impegno posto dal regime e gli sforzi di una federazione costituita appositamente, la Federazione italiana gioco della volata (FIGV), le 2000 società dopolavoristiche e gli oltre 20.000 tesserati, lo sport non incontrò né il favore dei giocatori né quello del pubblico. Il gioco risultava farraginoso, molto spesso interrotto, sovente paralizzato da gigantesche mischie, ridotto a una confusa imitazione del calcio.
La partita inaugurale si giocò nel giorno della festa della Befana nel 1929, allo Stadio nazionale di Roma, tra due squadre capitoline che si erano allenate per alcune settimane. Fu una grande delusione per tutti. Nonostante ciò, poco dopo prese il via anche il Campionato nazionale che si concluse nel settembre 1930, alla presenza del Duce, con la vittoria per 9-2 della Richard Ginori di Milano sulla Dopolavoro comunale Palermo. Si trattò dell'apogeo e, nel contempo, del declino della volata che lentamente venne dimenticata. Il colpo di grazia fu inferto dall'esautorazione politica di Turati: il nuovo segretario del PNF, Achille Starace, preferì tornare all'antico e di lì a qualche anno, nel 1934, il calcio italiano conquistava il suo primo titolo mondiale.
E. De Amicis, Gli Azzurri e i Rossi, Torino, F. Casanova, 1897.
G. de' Bardi, Discorso sopra il giuoco del calcio fiorentino del Puro Accademico Alterato, Firenze, Giunti, 1580.
G. Franceschi, Il Giuoco del Pallone, Milano, Hoepli, 1903.
F. Gabrielli, Giuochi ginnastici raccolti e descritti per le scuole e il popolo, Milano, Hoepli, 1895.
Il gioco e gli sport, "AZ-Panorama", Bologna, Zanichelli, 1958; P. Gori, Giuoco del Calcio, Firenze, Bemporad, 1898; Id., Giuoco del Calcio e le Signorie festeggianti, Firenze, F. Lumachi, 1902.
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