ANTICO
Aggettivo sostantivato invalso nel linguaggio degli studi storico-artistici per designare globalmente elementi o procedimenti formali, iconografici, tecnici e anche presupposti ideologici propri delle arti greca, ellenistica e romana ricorrenti nella produzione artistica posteriore. Nel Medioevo si verificano fasi e modi di continuità, assimilazione, ricezione, imitazione dell'a. assai diversi, anche in conseguenza dei diversi momenti o monumenti dell'Antichità presi a riferimento. Gli articoli che seguono ne danno la cornice problematica generale in più specifico rapporto alla peculiarità del termine e del suo uso in età medievale e alle aree ove esso corrisponde a una qualche vitalità di fatto della realtà storica che gli è sottesa.Nella molteplicità delle varianti e nella specificità di ogni singola variante di rapporto delle arti del Medioevo occidentale, così come delle arti bizantina e islamica contemporanee, con l'a. si impongono tuttavia costanti che richiedono trattazioni specifiche o rientrano in più generali fenomeni e comportamenti caratteristici del Medioevo. Esse sono il riuso di strutture e, più spesso, di pezzi di spoglio antichi (v. Reimpiego); la riproduzione o imitazione di singole opere o categorie di opere antiche viste come esemplari (v. Copia; Modello); l'impostazione di intere fasi di produzione artistica secondo parametri o programmi ispirati all'Antichità (v. Rinascenza). L'ispirazione all'Antichità può indurre all'identificazione con essa anche sul piano delle idee e a reperirvi la validità normativa assoluta che motiva l'imitazione delle sue forme con la riproposizione dei suoi contenuti (v. Classicismo).A. Cadei Il termine deriva dal lat. antiquus (da ante), 'chi fu prima, che è precedente', in senso temporale; nella forma anticus in senso spaziale, di cui resta traccia anche nel comparativo antiquior 'preferibile', basato sul senso proprio 'chi è più avanti' (Ernout, Meillet, 1932, s.v.). Ad anticus si oppone posticus (da post, forse su *postiquos): "quae ante nos sunt antica et quae post nos sunt postica", Pauli exc. ex lib. Pompei Festi, 220; anche in architettura: "templi quattuor partes dicuntur, sinistra ab oriente, dextra ab occasu, antica ad meridiem, postica ad septentrionem" (Varrone, De lingua latina, 7, 7), laddove l'antonimo in senso temporale di antiquus da post è posterus 'chi viene dietro, o dopo' (da cui posteri 'discendenti' vs antenati e antecessores, 'antenati, predecessori').Nella concezione latina (e greca, πϱότεϱοϚ) del tempo-spazio, antiquus è dunque ciò che nella storia "ha avuto la parte precedente, chi sta davanti (o lontano, gr. πάλαι)" (Mazzarino, 1962). In questa prospettiva si vedano gli attigui prior 'precedente, primo di due, superiore' (pl. priores equivalente a maiores 'antenati') e priscus 'antico', per persone o cose che esistettero un tempo (e non esistono più all'epoca in cui si parla), laddove pristinus è usato per quelle che esistono ancora. Sia priscus sia pristinus, frequenti in Cicerone, sono rari in epoca imperiale (Ernout, Meillet, 1932, s.v.); priscus è del tutto assente nella Vulgata, pristinus è invece usato in circa venticinque luoghi, una volta in compagnia di antiquitas (Sal. 77 [76], 6). Al contrario, vetus ('l'anno trascorso', gr. (F)έτοϚ) è normalmente associato ad antiquus, anche in iterazione sinonimica e perciò non solo nel senso di 'ciò che è deteriorato per l'età'. Vetus (da cui anche veternus 'antico') e più frequentemente antiquus sono dunque usati per riferirsi a persone, eventi, cose, idee collocate in un tempo lontano, cronologicamente delimitato e opposto (anche e spesso soprattutto antiquus - in senso positivo) a quello presente in genere di chi parla: sono attestati in coppia funzionalmente antitetica (così come olim vs nunc) innanzitutto a novus ma anche a recens (vs praecedens), praesens, coetaneus, proximus, nuper, noster e al calco greco neotericus. Una costellazione relativa al tempo più che una precisa polarizzazione ideologica e culturale. Antiquus (e specialmente antiquitas), vetus (e vetustas) implicano ben presto anche un atteggiamento rispetto ai 'valori' rappresentati nel passato 'antico': positivo o, meno frequentemente, negativo. L'essere 'antico' in una società basata sui valori dei senes (senatus 'assemblea dei senes'), degli anziani dotati di esperienza, implica dignità ("exempla [...] plena dignitatis, plena antiquitatis", Cicerone, Verr., 4, 209; "gravitatem plenam dignitatis", Sest., 130) e autorità ("auctoritatem antiquitatis habent", Quintiliano, Inst., 1, 6, 39). Ma non solo; lo stesso Cicerone pur così attento ai valori della tradizione e dell'antiquitas può essere il primo a prenderne le distanze: "Errabat multis in rebus antiquitas quam vel usu iam, vel doctrina, vel vetustate immutatam videmus" (Div., 33).Definire il valore di a. comporta dunque definire l'estensione cronologica effettiva che gli autori attribuiscono al passato e l'eventuale sistema di valori positivi e/o relazionali con il concetto contropolare, il 'presente', il 'contemporaneo', ammesso che tale polarità esista e abbia significato. L'analisi della formazione e dell'articolazione linguistica e ideologica di tale polarità nel corso del tempo potrà fornire i parametri cui commisurare l'atteggiamento di singoli autori e opere, anche se non affrontati nel loro contesto socioculturale specifico (elemento determinante quest'ultimo per una questione che investe il problema del potere e quindi dell'autorità).L'opposizione fra 'antichi' e '(più) nuovi' (νεώτεϱοι) è già attestata in età alessandrina e nella cultura latina di età repubblicana e augustea, quando divenne più forte la volontà e la coscienza di una differenziazione rispetto all'età precedente (Curtius, 1948). Neotericus è usato dopo il sec. 4° nel senso di 'scrittore più moderno' (Girolamo, Sulpicio Severo, Aurelio Vittore, ecc.) e sopravvive in sede colta anche in età medievale (de Ghellinck, 1940), ma anch'esso esprime una concezione relativa e mobile e non sembra costituire una coppia forte, dialetticamente polarizzata, con antiquus/vetus.A una concezione dunque lineare del tempo non si associa la coscienza o la necessità di un periodizzamento e di una relativa nomenclatura che opponga un'età e una cultura 'antica' a una 'nuova', 'recente', 'presente', intesa come sistema di valori distinto e autonomo, 'moderno' appunto: 'a.' (antiquus/vetus, ma non molto altro) potrà assumere un senso storico-culturale definito solo nel momento in cui sarà opposto a un campo semantico similare, ed entrambi saranno terminologicamente circoscritti; allora si imporrà come inevitabile un'analisi solidale non del solo 'a.' ma della coppia 'a.' - 'moderno'. Il complesso, vario e a volte contraddittorio sviluppo del concetto, caso particolare di un problema ancor più ampio (la concezione del tempo, vissuto e 'storico'), potrà spiegare la grande articolazione di lemmi e campi semantici che intervengono nella questione, e non sempre tangenzialmente. Si veda la coppia senex vs iuvenis, quest'ultimo connesso al nome indoeuropeo della 'durata' *ayu-*yu 'forza vitale', e quindi a aevus-aevum 'tempo considerato nella sua durata' (opposto a tem-pus 'tempo misurato'), da cui 'durata della vita, generazione' ed 'eternità' (si veda anche aetas da aevitas, aeternus da aeviternus, soppiantato nel lat. tardo ed ecclesiastico da saeculum 'generazione, durata di una generazione', traduzione del gr. αἰών, con cui aevus-aevum). Senex ('vecchio', con sfumatura di rispetto che non ha generalmente vetus) non si oppone a novus, malgrado una possibile originaria relazione indoeuropea fra *senos e *neuo, ma a iuvenis ('colui che è nella forza dell'età', per lo più dai venti ai quarant'anni), così come i seniores si oppongono (come categoria di cittadini) agli iuniores e maior 'vecchio' a iunior 'giovane' e a minor 'minorenne': maiores non a caso può indicare con rispetto le 'persone anziane', i 'vecchi' e gli stessi senatores (quindi il senatus) e gli antenati (come poi, onorevolmente, in Dante: "Chi fur li maggior tui?", Inf. X, v. 42). Aevum (con cui iuvenis-senex) e saeculum rappresentano un tempo continuo, pensato sulla vita di un uomo; le generazioni si susseguono le une alle altre, senza interesse a periodizzazioni precise; l'unica opposizione possibile è quella tra 'vecchio' e 'giovane' ove, per tutta la durata della civiltà agricola (classica, medievale e moderna), il 'vecchio' è il più rispettato e il conflitto fra tradizione e innovazione assume spesso le forme di un conflitto, appunto, generazionale.Anche in sede letteraria, ancora fino a Orazio (sec. 1° a.C.), si ha un tempo sostanzialmente continuo e omogeneo, quindi terminologicamente assai vario e poco polarizzato; pur quando l'opposizione di valori fra antiqui e praesentes costituisce l'oggetto del contendere, non si esce da una concezione generazionale e relativistica del tempo e del periodizzamento: la nozione di antiqui, perfino nella autocosciente età augustea, è quindi soggetta a continui slittamenti e a diverse interpretazioni.Il criterio cronologico, l''antichità' - sostiene Orazio - non ha nulla di logico e stabile e togliendo un anno alla volta i cento anni che rendono perfectos veteresque gli scrittori si possono ridurre a zero senza che nulla si possa di volta in volta obiettare; è il concetto stesso di 'a.' che viene azzerato insieme al suo valore (numerico e ideologico): "demo unum, demo etiam unum, / dum cadat elusus ratione ruentis acervi / qui redit in fastos et virtutem aestimat annis / miraturque nihil, nisi quod Libitina sacravit" (Orazio, Ep., 2, 1, vv. 34-49). L''antichità' di per sé non può dunque costituire criterio di valore. Antiquissima, antiquus, antique, optima, annosa, defunctus, sepultus, annos centum, perfectos veteresque, vilis atque novos, vetus (probus), veteres (più volte), praesens, postera aetas, recens, nostrum tempus, nuper, patres, minores (più volte), senes, nostra, novitas, maiores, prisci, (aevum): in Orazio (Ep., 2, 1) c'è un campionario quasi completo del campo semantico di 'a.' e forse di 'moderno', ma l''antichità' non appare, neppure negativamente, come un concetto storico-ideologico e quindi non produce neppure polarizzazioni semantiche.Quasi cento anni dopo, Quintiliano (35 ca. - 95 d.C.) esprime ancora la fluidità del rapporto fra 'a.' e 'nuovo': "Nam et quae vetera nunc sunt fuerunt olim nova et quaedam sunt in usu perquam recentia" (Inst., 8, 3, 34). È un'idea che tornerà ancora in età carolina e nel 12° secolo.Un possibile allievo di Quintiliano, l'autore - forse Tacito - del Dialogus de oratoribus (capp. XV-XVI), oppone vetera [...] et antiqua ai nostrorum temporum studia e saeculum nostrum ad antiquos e veteres ma mentre è importante l'esplicita problematicizzazione della nozione e dei limiti cronologici di antiquus, è ancor più notevole che uno degli interlocutori si rifiuti di discutere analiticamente sul vocabolo e sul suo senso e valore, accontentandosi di una dizione temporale generica purché sia ammesso il valore superiore degli 'antichi'. Rispetto a Orazio è capovolto il giudizio ma non è collegato tempo (antiquus, vetus) e valore. D'altra parte non solo è ritenuta necessaria una discussione precisa sulla nozione di antiquus/vetus, ma si comincia a porre il problema stesso di una periodizzazione fondata su ragionamenti 'culturali' e non puramente generazionali; la concezione antropologica del tempo sta mutando, pur se rimane collegata apparentemente al movimento degli astri e alle grandi periodizzazioni 'naturali' antiche. Gli antichi non sono ancora i modelli, i 'classici', non esistendo evidentemente uno spartiacque preciso su cui poggiare la propria esperienza di 'moderni' contrapposti a predecessori sentiti eventualmente come 'altri' e distinti, 'antichi'.Gli antiqui (anzi, antiquiores) sono strettamente collegati ai classici (ovvero agli appartenenti alla prima delle cinque classi della costituzione serviana, i più ricchi) presso Aulo Gellio (130-180 ca. d.C., dunque quasi cento anni dopo il Dialogus).L'uso linguistico corretto si deve modellare - dice Gellio, riportando l'opinione di Cornelio Frontone - su autori esemplari, "e cohorte illa dumtaxat antiquiore vel oratorum aliquis vel poetarum, id est classicus adsiduusque aliquis scriptor, non proletarius" (Noct. Att., XIX, 8). Auctoritas, 'antichità' e classe sociale / ricchezza, si connettono dunque per la prima volta in un insieme anche ideologicamente solidale e significativo: l'a. in quanto 'classico' e 'di valore' (adsiduus) è modellizzante e respinge il 'nuovo' in una categoria inferiore, non attendibile.Più incerta invece la periodizzazione eventualmente seguita da Frontone / Gellio: chi sono gli antiquiores e a chi altri si oppongono? Per Gellio, che pure gradua e pone in relazione, con Varrone, vetus e novus (in coppia quasi antonimica) con i rispettivi comparativi e superlativi (vetustius-veterrimum vs novius-novissimum; Noct. Att., X, 3), non sembra infine esservi differenza tra veteres e antiquiores (tutti sono distinti invece, come già in Quintiliano e altri, dagli antiquissimi Romani): sono quelli che "ante divi Augusti aetatem pure integre loquuti sunt" (ivi, XIII, 6) e quindi Ennio, Plauto ma anche Catone, Cesare, Cicerone. È probabilmente la stessa coscienza (storiografica?) ravvisabile nel Dialogus (repubblica vs principato) e, forse, nella opposizione fra honestiores (depositari secondo Gellio del prestigio linguistico) e humiliores (minacciosamente incombenti anche sulla parola). L'uso linguistico imperiale, greco-latino e rustico, viene opposto a quello incontaminato rappresentato dalla Roma fedele alle sue origini italiche. È da notare, pur restando di difficile interpretazione, che Gellio non sembra mai usare in correlazione sinonimica vetus e antiquus; si potrebbe pensare a un'incipiente diversa specializzazione fra i due termini poi peraltro bloccata, posto che nel Medioevo vengono usati anche indifferentemente, fuori di un ambito immediatamente religioso. Di fatto la stessa contrapposizione vetus-novus, serpeggiante implicitamente in tutta l'opera di Gellio, non è mai organizzata in un'opposizione che marchi uno stacco e una profonda diversità: una tale coscienza sembra del resto mancare a tutta la cultura pagana di età imperiale.Solo con la cultura cristiana si effettua, in ambito inizialmente delimitato, religioso, il salto radicale che è all'origine della concezione di 'a.' nella cultura occidentale: l'opposizione tra Vetus (Testamentum) e Novum (Testamentum) e il superamento del vetus nel novum stabilisce infatti un confine preciso, di carattere epocale, tra 'a.' / 'vecchio' e 'nuovo'.Nella Vulgata sembra di poter cogliere anche una differenza tra antiquus e vetus. Antiquus indica generalmente tempi remoti alquanto indeterminati "interroga de diebus antiquis qui fuerunt ante te" (dies antiquos, de/ex/a/in diebus antiquis e simili sono i sintagmi più frequenti in assoluto, da Dt. 4, 32 a 4 Re 19, 25, da Mic. 7, 14 e 20 ad At. 15, 7); non è rivestito di valori negativi ma semmai positivi; compare una sola volta - sia nel Vecchio sia nel Nuovo Testamento - in associazione sinonimica con vetus (Ger. 38, 11); oppone, anche esplicitamente, due stati temporali, in senso generazionale (Gb. 32, 6) o morale oppure addirittura assoluti: il tempo si annulla in Dio, e allora la coppia non sarà antiquus-novus o antiquissimus-novissimus (meno che mai vetus con altro) ma antiquus-novissimus (Sal. 138, 5), probabilmente per evitare equivoci con l'asse ideologico portante (vetus-novus) e a conferma forse di un uso quasi assoluto e quindi extratemporale di antiquus, quasi assente nel Nuovo Testamento: tre occorrenze in Matteo, riducibili in realtà a una (Mt. 5, 21; 5, 27; 5, 33); una in Luca (Lc. 9, 8); nessuna in Marco e Giovanni, ove mancano del tutto sia vetus sia novus, ed è fatto ovviamente notevolissimo; e nessuna, soprattutto, in Paolo; le altre presenze si distribuiscono fra At. 15, 7; 15, 21; 21, 16 ed Esd. 7, 30. La gran parte delle occorrenze di antiquus è dunque contenuta nel Vecchio Testamento (cinquantacinque contro dieci, con le assenze appena sottolineate).Il rapporto di frequenza si inverte invece per vetus: trenta casi nel Vecchio Testamento e ventuno nel Nuovo. Vetus figura in coppia con novus per sei/sette volte nel Vecchio, per sei/nove nel Nuovo Testamento ove peraltro, a parte le statistiche (che possono solo rivelare una tendenza), risulterà naturalmente centrale, anche ove la coppia non sia esplicitamente addotta per intero, la contrapposizione di un vetus a un novus (Mt. 9, 16-17; Mc. 2, 21-22; Lc. 5, 36-39; 1 Gv. 2, 7). Soprattutto - e per primo - Paolo stabilisce alcune proposizioni fondamentali per il problema: indica senza possibilità di equivoci un 'prima' (negativo, a differenza di antiquus) e un 'poi', una frattura epocale, storica ed extrastorica, tra 'vecchio' e 'nuovo', tra un''età' e un'altra 'età' (Rm. 6, 6; 7, 6; 1 Cor. 6, 7-8; 2 Cor. 3, 14; 5, 17; Ef. 4, 21-24).L'elenco non è completo poiché dovrebbe includere tutti i luoghi in cui si sottolinea, già nel Vecchio Testamento, la novità del messaggio divino: segnatamente il Cantico dei Cantici e i Salmi ("cantate domino canticum novum" e simili: sarà un tópos della poesia mediolatina e romanza), oggetto di molteplici interpretazioni allegorico-figurali; dovrebbe inoltre includere anche i numerosissimi passi del Nuovo Testamento (con i testi paolini in assoluta evidenza) ove la predicazione del novus sottende sempre e comunque il distacco dal vetus, "testamenti novi mediatorem Iesum" (Eb. 12, 24).Fu soprattutto l'esegesi scritturale che reinterpretò i passi del Vecchio Testamento come 'prefigurazione' del Nuovo; solo nel cristianesimo-paolinismo viene espressamente dichiarata la 'novità' rispetto alla 'vecchiezza'. Agostino, contemporaneo di Girolamo (secc. 3°-4°), molto esplicitamente dice: "Vetus Testamentum est quasi haereditas pertinens ad hominem veterem. Nos innovati sumus, homo novus facti sumus: quia et Christus homo novus venit. Quid tam novum quam nasci de Virgine?" (Tract. XXX in Ioan.; Auerbach, 1938). Come si pone l'affermazione di una tale novità rispetto alla concezione del tempo, all''a.' e al nuovo? Su un piano teologico per Agostino non c'è dubbio: "Deus numquam novus, numquam vetus" (Conf., I, 4); "Deus est interior omni re, quia in ipso sunt omnia: et exterior omni re quia ipse est super omnia: et novior omnibus, quia idem ipse est post omnia" (De Gen. ad litt., 8, 6). Ma esiste anche un tempo storico, una città degli uomini; nel tempo può determinarsi il nuovo (come appunto Cristo), pur se in Dio nulla è nuovo: "Quod in tempore novum est, non est novum apud eum qui condidit tempora" (Ep., 5); e ancora: "Quia non oportebat ut novum faceret mundum Deus, nova fecit in mundo. Homo enim de virgine procreatus, potentius opus est quam mundus" (Ep., 5).Il "novum testamentum" comporta anche un'inversione di prestigio radicale ("et ecce sunt novissimi qui erunt primi et sunt primi qui erunt novissimi", Lc. 13, 30) che ridisloca secondo nuovi assi anche tutto il sistema del sapere classico, dalla lingua alla stessa interpretazione, alla dottrina stilistica. Per la prima volta nella cultura occidentale si pone in modo realmente oggettivo il problema di una tradizione: il tradere non può più essere concepito all'interno di una linea continua ma a partire da una frattura e da un rifiuto e, peraltro, dalla volontà di recuperare una parte di quanto era stato respinto. È ormai possibile identificare un 'a.' nella società e nella cultura terrena (e tentarne anche il recupero) in quanto su un'analoga operazione, epocale, era stata fondata la religione cristiana del 'nuovo' patto, che non dissolveva il vecchio ma lo superava. L'interpretazione allegorica poté quindi essere lo strumento comune di un recupero che nello stesso momento in cui salvava il salvabile negava quel che non interessava: l'allegoria figurale nel caso del Vecchio Testamento consentiva e/o imponeva il recupero persino del senso letterale; quella semplicemente allegorica ('pagana' e/o moraleggiante) permetteva, nel caso dei testi greco-romani 'classici', di rifiutare, se il caso, anche il significato letterale.A. e tradizione (cristiana) sono quindi storicamente e concettualmente collegati, uniti da un legame quasi organico che fa dell''a.' e della tradizione occidentale un caso del tutto particolare, poiché sono entrambi fondati sul riconoscimento di una 'alterità' e su una radicale novità, legata però al vetus precedente e al gigantesco sforzo della Chiesa per ricomprendere al suo interno, dopo la frattura, la "societas gentilium", l'"humana societas", "qua in hac vita carere non possumus" (Agostino, De doctr. christ., II, 40, 60): prima ancora di essere impiegato sulla cultura pagana tale schema era stato applicato proprio al Vecchio Testamento e alla religione e cultura giudaica. L'assoluta mancanza di storicità e dunque l'impossibilità nella cultura medievale di rappresentare l''a.' in quanto tale, con 'senso storico', va ricondotta oltre che all'idea di un Dio che è il Tempo (dunque "numquam novus numquam vetus"), a quell'appropriazione strumentale e abrasiva della società e della cultura dei gentili operata dai Padri. Proprio nel momento in cui la cultura greco-romana viene accettata in parte, previa selezione, nel novus (De doctr. christ., II, 40, 60), le si nega il diritto a un sistema di valori proprio e quindi a un tempo proprio. La letteratura e l'arte cristiana tardoantica e medievale dovranno risolvere il problema molto complesso di rappresentare nel significante (non solo mediante simboli) fatti e figure antiche che dicano oltre che se stessi, altro: "Vetus enim testamentum est promissio figurata, novum testamentum est promissio spiritualiter intellecta" (Agostino, Serm., 4, 9). Infatti, spiega ancor più chiaramente lo stesso Agostino in altra occasione: "Temporalium quidem rerum promissiones testamento veteri contineri, et ideo Vetus Testamentum appellari nemo nostrum ambigit; et quod aeternae vitae promissio regnumque coelorum ad Novum pertinet Testamentum: sed in illis temporalibus figura fuisse futurorum quae implerentur in nobis, in quod finis saeculorum obvenit" (Contra Faustinum, 4, 2). In modo quasi implicito, ma solido e determinante, si afferma una concezione del tempo in cui passato, presente e futuro rimandano organicamente l'uno all'altro, fin quasi a sovrapporsi: la frattura e la 'novità' individuano una 'alterità' ma al tempo stesso si propongono di superarla completandone le 'promesse'.Il tempo cristiano è una concezione del mondo prima che una definizione strettamente cronologica; è quanto si può constatare anche in ambito più strettamente storiografico, con Orosio, che nelle Historiae impiega spesso le espressioni praesens tempus, hoc tempus, nostra tempora. I praesentia tempora di Orosio sono però sempre i tempora christiana (Freund, 1957, pp. 17-23), che iniziano con l'incarnazione di Cristo sotto Augusto e arrivano sino allo stesso Orosio. Se proprio si dovrà distinguere all'interno del tempo cristiano si ricorrerà a nunc o a sintagmi con dies (specie hodiernum diem), non a tempora praesentia che equivale appunto a christiana. In tale contesto il 'passato' e l''a.' sono o ciò che precede addirittura i Romani ("omnes historiae antiquae a Nino incipiunt, omnes historiae Romanae a Proca exoriuntur", Hist., 2, 2, 4) o semplicemente il tempo praeteritum, un concetto storico-cronologico non applicabile nel tempo cristiano. Vetustas (corrispondentemente a vetus) non è un'unità storica ma una forza distruttiva: "vel oblivione defecit vel viluit vetustate" (ivi, 30, 20, 8). Antiquitas, antiquus (e connessi) sono sentiti come troppo normativi e carichi di valori positivi per essere applicati ai tempi precristiani; il presente, nel senso di presente cristiano, per Orosio ha valore fondativo e non è dunque ancora periodizzabile in una partizione interna. Quando si avverte la necessità di una cronologia e di una periodizzazione cristiana si recupera antiquus, cui peraltro manca ancora un correlativo contropolare (lo stesso praesens, con Orosio, significava ormai anche altro): certo non si potrà più usare novus, che esprime una condizione spirituale e una concezione del tempo assoluta, non storica, in cui il valore pur usuale di 'recente' è stato fagocitato. Se prima del cristianesimo si poteva trovare novus in opposizione ad antiquus, con Paolo, Girolamo e Agostino la coppia vetus-novus diviene ideologicamente troppo forte e pregnante perché possa esprimere indicazioni cronologiche e periodizzazioni: il secondo termine è disponibile soprattutto per indicare rinnovamento spirituale - più raramente, e in ambiti molto specialistici già usuali (Rhetorica nova, Poetria nova), per determinazioni cronologiche o progressive - laddove vetus rimane di largo uso accanto ad antiquus, specie nelle forme veteres e vetustas. Quando si ritrova la coppia veteres-novi anche al di fuori di ambiti immediatamente religiosi e morali, per es. in Isidoro (Etym., VIII, 7, 6-7), è quasi sempre facile riconoscere un implicito giudizio morale o di valore (a vantaggio dei novi). Con la grande speculazione cristiana dei secc. 4°-5° il problema di una coppia di termini atti intanto a distinguere in senso cronologico, o comunque non negativo, un 'prima' e un 'poi', un 'passato' e un 'presente' sembra effettivamente aperto.Oltre a un tentativo cultista e specialistico di utilizzare neotericus, glossato come libri novi vel recentes (Curtius, 1948), è proprio dal sec. 5° che viene offerta, in ambito strettamente ecclesiale, la prima attestazione di modernus e per di più in relazione proprio ad antiquus. Dice papa Gelasio (intorno al 494-495) in un contesto che sembra documentare la necessità di distinzioni interne alla pur unitaria tradizione ecclesiale (Freund, 1957, p. 5ss.): "Et antiquis regulis et novella synodali explanatione comprehensum est, personas obnoxias coelestis militiae cingulo non praecingi [...] Actores siquidem illustris viri filii nostri Amandiani graviter conqueruntur, homines suo iuri debitos alios adhuc clericos, alios iam diaconos ordinatos, quam non solum post modernum [=decretum], quod tantorum pontificum collectione [...] constat esse perfectum, [...] verum etiam [...]" (Ep., 20).Derivato da modo usato nel senso di 'adesso, ora, in questo momento' (come hodiernus da hodie), modernus batte progressivamente tutti i concorrenti, anche quelli meno ideologizzati e dal significato specificamente temporale (come recens), divenendo il termine contropolare di antiquus. Dal momento in cui è attestata la bipolarità antiquus-modernus, l''a.' può assumere, pur in diverse articolazioni, la sua autonomia: la sua storia è da allora inscindibilmente connessa, anche in absentia, fino all'età contemporanea (e al postmoderno), a quella di 'moderno', sicché per capire l'uno non si può prescindere dall'altro. Per un lungo periodo, naturalmente, modernus è ancora in concorrenza con altri termini ed espressioni e la stessa opposizione 'vecchio'-'nuovo' si intreccia con la storia di veteres-antiqui-moderni e affini, posta se non altro la coincidenza di un membro (vetus), ma il punto essenziale è che la coscienza della 'contemporaneità' ha spinto all'individuazione e all'uso di un vocabolo specifico, progressivamente egemone, e che il 'passato', 'ciò che precede' si scopre a sua volta identificabile, per opposizione, con un altro vocabolo specifico (antiquus, cui per lungo tempo rimane associato il sinonimo tradizionale, vetus, e relative famiglie).Papa Gelasio usa modernus senza avvertire la necessità di spiegare il termine, come si farebbe con un neologismo: si può dunque supporre che alla fine del sec. 5° il vocabolo (e la coppia oppositiva) fossero già penetrati nella coscienza linguistica. Gelasio usa anche precise determinazioni del passato come 'unità storica' che continua ad avere influenza sul presente; al termine antiquitas è associato veneranda e i patres costituiscono un punto di riferimento costante.Sembra insomma che antiquus (e antiquitas), in quanto contropolare del neonato modernus (nostra aetas, non sinonimico di christiana aetas), indichi un periodo storico cronologicamente determinato, caratterizzato da valori positivi particolari, quelli dei patres, rispetto a cui ci si pone in termini di continuità (anche modernus ha infatti in Gelasio valore positivo).Non è possibile dire se nella distinzione fra 'moderno' e 'a.' Gelasio fosse in qualche modo influenzato anche dalla coscienza di una frattura che si era prodotta con la deposizione dell'ultimo imperatore romano d'Occidente, Romolo Augustolo. Certo è che "contrariamente a ciò che si ritiene da molti studiosi, i contemporanei ebbero chiara coscienza della gravità del crollo della pars occidentale, e la 'puntualizzarono', naturalmente, al 23 agosto 476, data in cui Odoacre fu acclamato re in Italia" (Mazzarino, 1962).A pochi anni dalla prima attestazione in Gelasio, modernus riappare in un autore, Cassiodoro (490-583), che di tale frattura ebbe chiarissima coscienza. Cassiodoro conseguentemente individua l''a.' in quanto scopre se stesso e il proprio tempo (nostrum tempus) irreparabilmente diversi e 'decaduti'; occorre riconoscere i guasti e le particolarità del presente per voler restaurare l'antichità: "ad statum [...] pristinum [...] cuncta revocare [...] ut [...] nostris temporibus videatur antiquitas decentius innovata" (Variae, IV, 51, 12). La raccolta delle epistole riflette fedelmente il tentativo politico-culturale di salvare tutto il possibile dell''a.', architettura compresa, perfino come modello per costruzioni nuove ("spectabilitatem tuam [...] curam palatii nostri suscipere debere censemus, ut et antiqua in nitorem pristinum contineas et nova simili antiquitate producas", ivi, VII, 5, 3). L'antiquitas è dunque per Cassiodoro una concezione del passato concepito come 'valore' ed è anche una concezione del tempo che ha i propri limiti cronologici nella dominazione dei re goti (Freund, 1957, pp. 27-40): è molto spesso accompagnata da un aggettivo positivo (provida, prudens, cana, artifex, ecc.; solo due volte è introdotta - come rudis antiquitas - a indicare i tempi primitivi). All'antiquitas, nelle Variae, si oppongono nostra tempora e nostra saecula ma soprattutto, per ciò che qui interessa, modernus (forse in conseguenza anche dell'esclusione di praesens, nel linguaggio cancelleresco delle Variae usato come pronome dimostrativo dello scambio epistolare).Antiqui e moderni con Cassiodoro si costituiscono per la prima volta in quel sistema ideologico che attraverserà il dibattito teorico e le realizzazioni artistiche di tutta la cultura occidentale: Simmaco, a cui viene affidato il restauro del teatro di Pompeo, viene lodato come "antiquorum diligentissimus imitator, modernorum nobilissimus institutor" (Variae, IV, 51, 2). Dunque non solo gli antiqui sono modelli da imitare ma la funzione e il valore dei moderni (anche in quanto maestri) consistono proprio nell'imitare bene. Con modernus si intende il 'presente', il 'contemporaneo' e non genericamente il 'nuovo' (come attestano, oltre Cassiodoro, le traduzioni dal greco del sec. 6°, nei luoghi in cui gli originali hanno οἱ νῦν): novus vale a indicare 'ciò che si distacca da quanto è noto / valido fino a un certo punto' e non ha valore immediatamente temporale ma oggettivo, materiale (Freund, 1957, p. 39), perfino nei casi nei quali si potrebbe sospettare una generica sinonimia: "Propositi quidem nostri est nova construere, sed amplius vetusta servare, quia non minorem laudem de inventis quam de rebus possumus adquirere custoditis. Proinde moderna sine priorum immutatione desideramus erigere" (Variae, III, 9, 1).Il tentativo di salvare la tradizione latina e quindi l'a. nel regno goto venne ripetuto da Cassiodoro quando si ritirò a Vivarium. Mentre però in una struttura statale l'a. veniva assunto in tutta la sua complessità e autonomia, in un ambito esclusivamente culturale e in un 'ritiro' salvifico il punto di riferimento doveva necessariamente essere il sistema cristiano. Nelle Institutiones permane la volontà di assicurare la sopravvivenza della cultura 'antica' (riconosciuta ancora come tale) ma all'interno di una riduzione che ne utilizza solo frammenti per un altro sistema, secondo modalità che sarebbero state tipiche della cultura medievale: "Sit ergo antiquorum labor opus nostrum, ut, quae illi latius plurimis codicibus ediderunt, nos brevissime [...] secundo volumine collecta pandamus et quod illi ad exercendas versutias derivarunt, nos ad veritatis obsequia laudabili devotione revocemus [...] Multi iterum patres nostri talibus litteris eruditi et in lege domini permanentes ad veram sapientiam pervenerunt [...]" (Inst., I, 27, 1-4). Gli antiqui sono gli scrittori pagani, opposti ai patres nostri (il possessivo, che divenne di uso comune, fino a Dante e oltre, per indicare gli appartenenti alla tradizione cristiana, non sembra avere valore specifico): patres (forse qui usato per la prima volta in senso letterario) sono gli scrittori ecclesiastici illustres della tradizione cristiana. Antiqui e patres formarono da allora in poi le componenti, entrambe 'antiche' ma distinte, di un'unica tradizione autorevole, classico-cristiana, garantita e preservata dall'insegnamento scolastico e dalle artes liberales.Cassiodoro apre e prepara il Medioevo anche per l'unificazione che compie fra tempo cristiano e tempo mondano. L'idea di uno stacco forte tra antiqui e moderni e il tentativo di (ri)valorizzazione dell'antiquitas, anche pagana, rispetto ai nostra tempora procedono evidentemente dal tempo mondano, dalla constatazione di una frattura prodottasi in Italia (e segnatamente nello stato romano) con l'assunzione del potere da parte di Odoacre e dei popoli barbari: dunque dall'idea di un possibile restauro, assumendo l'a. a modello. La proposta invece di un'appropriazione, fino all'uso strumentale, del labor antiquorum procede di fatto dal tempo cristiano e dall'inglobamento in esso del tempo pagano 'antico'; sono due soluzioni storicamente date ma assumibili anche come possibili modelli teorici nei confronti dell'a. e dell'interpretazione in generale: restauro ('storico') o appropriazione e quindi modernizzazione? La risposta medievale, fino al Rinascimento (e oltre), fu quella 'appropriativa'. La continuità del tempo cristiano diviene continuità di una tradizione 'antica' ideale, classico-cristiana, nella quale l'acquisizione della cultura classica e la sua fusione con l'elaborazione dei nostri patres, pur scontando molte perdite, continuò a procedere regolarmente, lasciando come unica periodizzazione quella dell'incarnazione di Cristo, scavalcata essa stessa però dalle possibilità di recupero, perfino in ambito morale, che offriva l'interpretazione allegorica. Ciò può spiegare il rispetto per l'a., emendato e riusato, e il suo contemporaneo schiacciamento, così caratteristico della cultura medievale nel suo complesso: a. e ri-uso dell'a. nascono praticamente insieme. Antiqui (e veteres, termini interscambiabili presso Cassiodoro e in seguito; più raramente maiores) sono dunque gli auctores: antiquitas e auctoritas sono soprattutto nella schola, ma non solo, due aspetti di un'unica realtà che comprende, in una concezione peraltro gerarchica della sapientia, anche i (nostri) patres. La contraddizione interna da cui è segnato conseguentemente il rapporto della cultura medievale con gli antiqui risulta pertanto strutturale; la lotta tra una corrente 'rigorista' e una 'umanista' proseguì, con alterne vicende, fino a Petrarca e all'Umanesimo, quando la filologia e il 'senso storico' tentarono di recuperare l'a. come sistema: fino ad allora, infatti, il catalogo degli antiqui (auctores) cooptabili, pur presentandosi come mobile, era necessariamente oggetto di possibile censura ogni volta che apparisse come non adibito a usi strumentali (e talvolta pure in questi casi, si veda Pier Damiani). Le soluzioni furono diverse dunque, per l'intero Medioevo, a seconda dell'occasione e del luogo.I platonici (i neoplatonici) erano stati formalmente coonestati dallo stesso Agostino (De doctr. christ., II, 40, 60); per Boezio (480-526) la cooptazione di Platone (assunto quasi come un elemento periodizzante della filosofia) avviene attraverso il possessivo noster, gravido di senso per il cristianesimo e la sua concezione del tempo: "Nonne apud veteres quoque ante nostri Platonis aetatem magnum saepe certamen cum stultitiae temeritate certavimus [...]?" (De cons. phil., I, 3). Veteres sembra svolgere un'indubbia funzione cronologica ma soprattutto ideologica poiché oppone di nuovo chi è dentro la tradizione a chi è fuori, 'prima'. Con noster Boezio intende "indicare quelle personalità della speculazione filosofica le cui teorie sono compatibili con la dottrina cristiana e interpretabili quali anticipazioni del messaggio cristiano: nostro ha la funzione di designare un patrimonio culturale comune in cui si fondano la dottrina cristiana e certe esperienze della cultura classica" (Mercuri, 1969, p. 100). Veteres sono comunque i filosofi precedenti Platone: è una determinazione di priorità che si affianca a prior (per l'età dell'oro, De cons. phil., II, 5, v. 20) e a priscos ("Utinam modo nostra redirent / in mores tempora priscos", ivi, vv. 23-24), opposto a nostra tempora usato in senso cronologico e morale. Si potrebbe quasi pensare a usi specifici validi all'interno di una certa tematica e di un certo settore, senza escludere però, in nessuno dei tre casi, e tantomeno per veteres, intenzioni valutative.Anche in Isidoro veteres ha valore distintivo all'interno di un genere specifico, la commedia, ma è di nuovo utilizzato per affermare (come nel caso boeziano) anche un apprezzamento negativo per i veteres e positivo per i novi, citati in contrapposizione, pur facendo tutti parte del canone: "Duo sunt autem genera comicorum, id est veteres et novi. Veteres, qui et ioco ridiculares extiterunt, ut Plautus, Accius, Terentius. Novi, qui et satirici, a quibus generaliter vitia carpuntur, ut Flaccus, Persius, Iuvenalis vel alii" (Orig., 8, 7, 7). L'opposizione tra comici veteres e novi è certamente improntata al greco ma sembra probabile che risenta anche del campo semantico di vetus (testamentum) contrapposto al novum che inizia con l'incarnazione di Cristo e dà origine ai nostra / christiana tempora. Ciò potrebbe spiegare l'interscambiabilità di veteres e antiqui (che in molti casi risulterebbe peraltro solo apparente): vetus (e famiglia) è tutto ciò che precede un evento salvifico o innovativo-migliorativo e dal punto di vista epocale data dall'incarnazione di Cristo e dall'età di Augusto; antiquus (e famiglia) è pure ciò che precede e data (in Gellio e altri) per ragioni diverse da quelle cristiane ma oggettivamente convergenti, dall'età di Augusto. Mentre però vetus (e conseguentemente veteres) porta spesso con sé nel Medioevo (cristiano) una carica negativa o di distanza spirituale, antiquus può anche portare, oltre a un significato negativo analogo a vetus, anche un senso esclusivamente tecnico-cronologico (gli scrittori greco-romani, anche pagani: originariamente i preaugustei) o addirittura positivo, in quanto coincidente con gli auctores letti a scuola e quindi 'autorevoli'. L'uso di patres (già in Cassiodoro) serve appunto a distinguere, nell'ambito di un'antiquitas neutralizzata o positiva, gli antiqui (pagani, pur cooptati) dagli 'antichi' cristiani, lasciando aperta la possibilità di un'interpretazione negativa, o di distanza 'sistemica', di antiqui. La stessa dittologia sinonimica antiqui veteresque da questa prospettiva può talvolta non apparire innocente ma indicare un'intenzione connotativa precisa da parte dell'autore.In Beda (672-735) si trovano probabilmente rappresentate le varie possibilità. Quando egli tripartisce i tempora in vetera, nostra e hodie, commentando Dn. 9, 25 (uno dei luoghi fondamentali per la concezione cristiana del tempo), è chiaro che con veterum indica il Vecchio Testamento, con nostrorum il tempo 'nuovo' della cristianità, con hodie il tempo contemporaneo: "cuius prophetiae veritatem et historia veterum et nostrorum hodieque temporum testatur eventus" (De temporum ratione, 9). Del resto è proprio Beda che inizia a datare gli avvenimenti dalla nascita di Cristo. I tempi 'vecchi' sono distinti dai 'nostri' e conservano una sfumatura 'negativa' che invece non ha antiquus, sia quando è usato in ambito ecclesiale, (Hist. eccl., 2, 19) sia quando è addotto per citare un'auctoritas classica. A patres rimane invece affidata l'opinione autorevole interna alla Chiesa stessa: "Sane de differentia annorum inter Hebream et LXX interpretum auctoritatem ne quis nos laceret novas movisse questiones, legat prefatorum patrum memorata opuscula" (Chronica maiora, 19; i patres in questione sono Girolamo e Agostino).Quando nell'epistola De litteris colendis (databile fra il 794 e il 796) Alcuino, per conto di Carlo Magno, esorta Baugulfo, abate di Fulda, a curare lo studio delle lettere per penetrare più facilmente e rettamente nei misteri della divina scrittura, recupera perciò un programma ben solido nelle sue fondamenta, pur se ormai corroso da anni di decadimento culturale. Già nell'intestazione della lettera ("Karolus, gratia Dei rex Francorum et Langobardorum ac patricius Romanorum") è chiara la nuova disposizione politico-culturale: il richiamo a Roma, inevitabilmente, per l'intero Medioevo, è richiamo all'impero e di fatto a quell'antica legittimazione che il poeta Saxo evoca espressamente ("sicut mos debitus olim / principibus fuit antiquis") descrivendo la cerimonia dell'incoronazione di Carlo a imperatore (De gestis Caroli Magni imperatoris, IV, vv. 21-22; MGH. Poëtae, IV, 1, 1899, p. 46). La descrizione della costruzione di Aquisgrana, "la seconda Roma" ("sed et urbe potens, ubi Roma secunda / flore novo, ingenti, magna consurgit ad alta / mole, tholis muro praecelsis sidera tangens"), come suona un componimento già attribuito ad Angilberto (Karolus Magnus et Leo papa, vv. 94-96; MGH. Poëtae, I, 1, 1880, p. 368), esemplata forse non casualmente sull'edificazione dell'anti-Roma, Cartagine, secondo il primo libro dell'Eneide, è un piccolo concentrato del rapporto concreto dell'età carolina con l'a. e di quella che è stata definita 'rinascita carolina'. Roma e l'Antichità forniscono i supporti ideologici forti di una grandiosa operazione politica (e culturale) ormai inevitabilmente 'nuova' in ragione della localizzazione geografica e della distanza temporale.Novus e modernus, più che il pur bene attestato antiquus, sono i termini che qualificano la rinascita carolina; Renovatio Romani Imperii è nel sigillo di Carlo, come flore novo è definita la 'seconda Roma' e 'nuova Atene' quella francese: "Forsan Athenae nova perficetur in Francia; immo multo excellentior, quia haec Christi domini nobilitata magisterio omnem achademicae exercitationis superat sapientiam. Illa, tantummodo Platonis erudita disciplinis, septenis informata claruit artibus; haec, etiam insuper septiformi Sancti Spiritus plenitudine ditata, omnem saecularis sapientiae excellit dignitatem" (MGH. Epist., IV, 1895, nr. 170, p. 279). Nell'idea di translatio è implicita l'idea di una tradizione e di una cultura classico-cristiana, 'antica', superiore proprio perché composta di una sapienza divina che ha saputo integrare la sapienza delle sette arti e di Platone con il magistero di Cristo; è invece esplicita la coscienza di una 'novità' e di un 'progresso' (excellentior). La corte di Carlo Magno non si pone in posizione subalterna o di semplice recupero nei confronti della cultura 'antica' e anzi propone anche una soluzione 'nazionale' della questione. Già l'irlandese Colombano (540-615), l'apostolo della Borgogna, fondatore dei monasteri di Luxeuil e di Bobbio, sosteneva la possibilità che esistesse una verità più antica dell'a. ("Et si, ut audivi [...] hoc respondere volueris, temporis antiquitate roborata mutari non posse, manifeste antiquus error est; sed semper antiquior est veritas, quae illum reprehendit"; MGH. Epist., III, 1892, p. 160). La proposizione riguarda questioni ecclesiali ma a maggior ragione varrà in altro ambito: il 'recente', il 'moderno', se fondato sul vero, può essere più giusto dell'a., poiché la verità è sempre più antica dell'errore.In età carolina modernus non solo è impiegato molto frequentemente (Freund, 1957, p. 46), pur in diversi significati, ma progressivamente si ha la coscienza che quella di Carlo Magno è davvero un'età 'nuova' che possiede una propria compattezza storica proprio in quanto periodo 'moderno', diverso da quell'a. su cui fondava tanta parte della propria ideologia e propaganda politico-culturale. Modernus indica così non solo i contemporanei ma anche la cesura fra epoca carolingia e antiqui. Nella seconda metà del sec. 9° Ludovico II potrà addirittura scrivere a Basilio I (871): "Verum, quid mirum, si novum sit, cum omne vetus a novo principium habeat, non novum a veteri?" (MGH. Epist., VII, 2, 1928, p. 365).La distanza cronologica sempre maggiore, la diversa localizzazione geografica del 'nuovo' impero, pur romano nel nome, l'acculturazione cristiana di popolazioni e terre precedentemente non toccate dalla conquista romana, aprono la strada a tematiche 'nazionali' in Irlanda, Britannia, Borgogna, Germania, a maggior ragione in Francia, perfino a livello di grandi categorie mentali e storico-culturali. Poco dopo la morte di Carlo la coscienza di un 'moderno' che fa autorità viene affermata in più campi, da quello ermeneutico, al musicale, al grammaticale (Freund, 1957, p. 50). Sono atteggiamenti significativi, pur se non generalizzabili: Rabano Mauro aveva esortato, in una lettera a Eberardo duca del Friuli, "ut novelli doctores sanctorum patrum et catholicorum doctorum sequantur vestigia, non a recto tramite eorum traditionis in erroris devia secedentes corruant" (MGH. Epist., V, 2, 1899, p. 486).Il riconoscimento e l'affermazione del moderno sembrano congiungersi (come poi nel sec. 12°) con una nuova attenzione al testo e ai suoi problemi: la ricopiatura dei codici porta all'istituzionalizzazione di un nuovo tipo di scrittura, la minuscola carolina, modello poi per Petrarca e l'Umanesimo italiano; un grande revisionatore carolino del testo biblico, Teodolfo d'Orléans, usa distinguere per primo, con molti secoli d'anticipo, le fonti delle sue varianti.La Renovatio Romani Imperii di Carlo presuppone con il riconoscimento dell'a. la coscienza del proprio tempo e della propria particolarità, anche sul piano linguistico: al concilio di Tours dell'813, un anno prima della morte dell'imperatore, viene prescritto ai vescovi di "transferre" le omelie "in rusticam Romanam linguam aut Thiotiscam, quo facilius cuncti possint intelligere quae dicuntur (MGH. Conc., II, 1, 1906, p. 288): nell'842 Carlo il Calvo (di lingua francese) e Ludovico il Germanico (di lingua tedesca) si scambiarono il giuramento in volgare 'romanico' e 'tedesco'. L'iniziativa politico-culturale centralizzata da Carlo si sposta nelle singole corti e centri locali (grandi abbazie in testa). È difficile attribuire le ricorrenti condanne contro i libri dei pagani all'impulso, pur straordinario e certamente inquietante per molti spiriti pii, impresso da Carlo allo studio delle lettere. Oddone fondatore di Cluny (910) sogna, come già Girolamo e Gregorio Magno, le opere pagane, addirittura Virgilio, come tentazioni diaboliche: un vaso pieno di serpi velenose; Teodulfo ripropone il ben collaudato metodo allegorico per giustificare la lettura degli antichi (Roncaglia, 1965, p. 98ss.). Di condanne e di deprecazioni per l'eccessiva presenza dei classici o, viceversa, per la decadenza degli studi, è pieno l'intero Medioevo. Quel che può cambiare è l'opportunità o la percentuale relativa di letture all'interno di un ambiente specifico.Alla fine del sec. 10° tutte e due le componenti (condanna e tentativi di rivitalizzazione) si trovano riunite nell'altro grande, ma effimero, tentativo di renovatio istituzionale e culturale prodotto in età medievale prima di Federico II, quello di Ottone III (983-1002) e di Gerberto di Aurillac, poi papa Silvestro II (999-1003). La situazione che Gerberto tratteggia per bocca del vescovo Arnolfo d'Orléans alla sinodo gallicana di Saint-Basle (991) è ancora peggiore di quella denunciata nel De litteris colendis, ma la responsabilità ora è tutta addossata a Roma, alla culla di una tradizione 'antica' contrapposta crudamente alla situazione contemporanea: "O lugenda Roma, quae nostris maioribus clara patrum lumina protulisti, nostris temporibus monstrosas tenebras futuro saeculo famosas offundisti! Sed cum hoc tempore Romae nullus pene sit, ut fama est, qui litteras didicerit, sine quibus, ut scriptum est, vix hostiarius efficitur, qua fronte aliquis eorum docere audebit, quod minime didicit?" (MGH. SS, III, 1839, p. 673). La risposta di Leone, legato pontificio, chiarisce, se vi fossero dubbi, che i patres in questo caso non sono (o non sono solo) Girolamo e Agostino e che i nostra tempora non indicano i christiana tempora: "Vicarii Petri et eius discipuli nolunt habere magistrum neque Platonem, neque Vergilium, neque Terentium, neque ceteros pecudes philosophorum [...]; nam Petrus non novit talia [...] Et ab initio mundi non elegit Deus oratores et philosophos, sed illitteratos et rusticos" (ivi, p. 687). Ad Arnolfo-Gerberto il legato Leone risponde con argomenti anticlassici, tipicamente 'rigoristi', che gettano uno squarcio di luce sul retroterra romano più prossimo alla renovatio ottoniana (Roncaglia, 1965). Lo scontro rappresenta bene la dialettica fra corrente 'rigorista' e 'umanista', cui forse non erano estranee le lotte di potere tra papato e impero e tra diverse fazioni ecclesiastiche, romane e non romane. Lo stesso componimento di Brunone addotto da Curtius (1948) sarà da reinterpretare, se realmente attribuibile ad ambiente vicino a Ottone III, in questa prospettiva: "Deciderat studium veterum / et vigilancia pene patrum, / cecaque secula barbaries / seva premebat et error iners" (vv. 21-24; MGH. Poëtae, V, 2, 1939, p. 378). A cavallo del millennio sembra vincere la corrente 'umanistico-cristiana': Gerberto, con l'aiuto di Ottone (divenuto poco prima imperatore) viene eletto papa, ma il sogno di renovatio dura poco. Nel giro di due anni (1002-1003) muoiono prima Ottone e poi Gerberto. L'idea di restaurare nei fatti e nell'ideologia il Romanum Imperium dall'Aventino (ove Ottone teneva la sua corte) si presenta nella prospettiva storica, data la sua caducità, con una evanescenza e un sovrappeso retorico forse eccessivo, come le parole troppo insistite per essere veramente convinte con le quali Gerberto si era rivolto all'imperatore: "Nostrum, nostrum est Romanum Imperium [...] Noster es Caesar, Romanorum imperator et Auguste, qui summo Graecorum sanguine ortus, Graecos imperio superas, Romanis hereditario iure imperas, utrosque ingenio et eloquio praevenis" (PL, CXXXIX, col. 159). Noster non sta certo qui per christianus.Da una prospettiva particolaristica un nobile storico sassone, Dietmaro di Merseburg, considerava antiqui i pagani sassoni e non solo i romani e antiquitas l'età per lui d'oro di Ottone I; descriveva quindi non senza aristocratico distacco, e con una certa ironia, i tentativi di Ottone III volti a renovare una città e uno spirito universalistico ormai finiti: "Imperator antiquam Romanorum consuetudinem iam ex parte magna deletam suis cupiens renovare temporibus multa faciebat, quae diversi diversa sentiebant" (Chron., 4, 47); per lui il lamento sul presente non risaliva così indietro e così lontano dalla Germania: bastava fermarsi a Ottone I (Freund, 1957, pp. 53-58). La variabile geografica si rivela ormai fondamentale, accanto a quella cronologica e ideologica, per comprendere aspetti e funzioni dell'antico.Per quanto recepibile in diverse maniere, il mito della renovatio, a seconda dei luoghi e degli interessi, corrispondeva peraltro a bisogni reali della società feudale e cristiana. Renovatio implica l'idea di qualcosa di preesistente, di a. nel nostro caso, da recuperare, rinnovare appunto. È diversa da una 'rinascita', ma non completamente: c'è qualcosa del tempo passato che si è perso o guastato ed è bene reinserire nel tempo presente. Dunque fra il passato / a. e il presente / moderno c'è dell'altro che si rifiuta e si intende riformare. Su tale piano logico, e forse persino nelle profonde correnti della storia, tra la renovatio imperiale di Ottone III e di Silvestro II e il movimento riformatore che nei secc. 11° e 12° sconvolge la Chiesa e i suoi rapporti con l'Impero, c'è un legame. La renovatio cui non erano potuti pervenire solidalmente Chiesa e Impero, dovrà tentarla la Chiesa, autonomamente e anzi contro l'Impero, con grandi conseguenze sul piano culturale e sulla stessa concezione del tempo.Una delle figure più rilevanti del movimento riformatore, Pier Damiani, mette in causa alla radice il rapporto con i libros gentilium, rifiutati in blocco, persino nella scuola. In quel momento, probabilmente, si pensava che alla Chiesa occorresse altro: le letture dei pagani erano troppo compromesse con un sistema di rapporti Impero-Chiesa posto in discussione. Lo stesso Pier Damiani propone invece come modello la buona antiquitas ecclesiastica di papi e imperatori; l'Antichità di Pier Damiani si estende fino agli inizi del sec. 7° e comprende i papi fino a Gregorio Magno (m. nel 604): "Cur non antiqua sanctorum patrum gesta sive precepta subtilius pertractantur, ut [...] eadem semper discreti moderaminis linea teneatur?" (Liber gratissimus, 29). La distingue nettamente dal passato recente, compresa l'età degli Ottoni, dal tempo della simonia e dei patres vissuti nel peccato. Patres può dunque indicare due realtà e due tempi diversi, l'uno dei quali opposto al buon uso antico, corrotto nel recente passato e talvolta nel presente, da cui l'uso di modernus, evitato invece dal partito imperiale che non riconosceva una cesura fra tradizione e presente (l'uso di modernus diviene addirittura un contrassegno linguistico dei riformatori; Freund, 1957, p. 58ss.). Riformare la Chiesa significa tornare alla devota antiquitas, all'età dell'impero cristiano di Costantino e Giustiniano, quando le cariche ecclesiastiche non erano assegnate simoniacamente. La concezione del tempo di Pier Damiani e di parte dei suoi contemporanei è tripartita: l'antiquitas (ora è estesa fino al sec. 7° e comprende i Padri della Chiesa fino a Gregorio Magno, cui presto saranno aggiunti Isidoro e Beda), il tempo successivo, negativo, fino al presente o quasi, che si pone fuori dal recente passato e costituisce il 'nostro' tempo, il 'moderno'.Nello stesso sec. 11° l'opposizione fra antiqui e moderni può seguire anche altri percorsi. Tradizionalisti e innovatori si scontrano sulla sacra coena: Berengario di Tours (m. nel 1088) è accusato da Adelmanno di Lüttich di essere un 'moderno' in quanto sovvertitore dell'insegnamento dei veteres (Hartmann, 1974, p. 26). Non è una questione generazionale: un contemporaneo di Berengario, Durando di Troarn (m. anch'egli nel 1088), preferisce, con Fulberto di Chartres (m. nel 1028), l'insegnamento degli antiquorum patrum e non si definirebbe mai un moderno. Boezio in quanto teorico di musica figura come maximus antiquorum accanto ai modernorum potentissimi Guido d'Arezzo (m. nel 1050) e Oddone di Saint-Maure (m. nel 1050) presso il 'moderno' Guglielmo di Hirsau, contemporaneo di Oddone e pure seguace dell'opinione degli antichi, diversamente dall'altro 'moderno' Giovanni Cotto (prima metà del sec. 11°), estimatore della subtilitas dei moderni. Dunque, in taluni settori, moderni indica i contemporanei (rispetto a veteres e patres), non solo dal punto di vista cronologico ma ideologico (i sostenitori di 'nuove' teorie); per contro antiqui non sono mai definiti i contemporanei seguaci degli 'antichi'.Lo sviluppo sempre maggiore delle scuole cittadine e della Scolastica porta a distinzioni frequenti e articolate tra antiqui e moderni con significati che variano a seconda del contesto, degli autori e della zona, ripetendosi spesso, peraltro, atteggiamenti che abbiamo già incontrato precedentemente.Chenu (1954) ha individuato quattro significati fondamentali con cui l'opposizione antiqui-moderni si presenta nei secc. 12° e 13°; antiqui può indicare: 1) gli autori dell'antichità greco-latina, in opposizione agli scrittori dell'era cristiana, moderni; 2) gli scrittori dei primi secoli cristiani (i sancti patres, diversi dai philosophi, sapienti precristiani), mentre moderni sono i patres / doctores del Medioevo; 3) i 'fedeli dell'antica alleanza' (l'Antico Testamento), in opposizione ai moderni, i 'fedeli della rivoluzione cristiana'; 4) i rappresentanti della speculazione scolastica prearistotelica (fino alla generazione del 1220-1230), invecchiati rispetto ai successori, i moderni lettori delle opere di Aristotele e degli Arabi, come Alberto Magno e Tommaso d'Aquino. L'estremo sviluppo della logica successiva all'introduzione di Aristotele e degli Arabi porterà, nel sec. 14°, a distinguere una via antiqua e una via moderna, quella di Ockam e dei barbari Britanni. Una quinta distinzione proposta da Chenu (seguaci della logica vetus vs seguaci della logica nova) non sembra fondata e la tralasciamo (Freund, 1957, p. 72).Giovanni di Salisbury (1115/1120-1180) è per molteplici aspetti un rappresentante importante della cultura del sec. 12° e un punto-chiave nella storia di antico. Egli distingue nettamente tra i moderni e gli antiqui: i moderni sono i suoi contemporanei (ivi compresi quelli della generazione immediatamente precedente, come Bernardo di Chartres e Abelardo); gli antiqui sono gli auctores greco-latini (pagani), distinti dai patres e dai loro successori: "Qui vero naturam anime diligentius investigare voluerunt, non modo Platonis, Aristotelis, Ciceronis et veterum philosophorum scripta revolvant, sed patrum qui veritatem fidelius expresserunt. Nam et doctores ecclesiae et post eos Claudianus et alii moderniores de anima multa scripserunt" (Metalogicon, IV, 20).Per Curtius (1948) il Medioevo non distingueva fra pagani e cristiani: erano tutti veteres, come dimostrerebbe, tra gli altri, anche Gautier de Châtillon, contemporaneo e collega di Giovanni alla corte di Enrico II: "Nescimus vestigia veterum moderni / Regni nos eternitas non trahit superni, / Ardentis sed nitimur per viam inferni" (Moralisch-satirische Gedichte, a cura di K. Strecker, Heidelberg 1929, p. 97). Giovanni sembrerebbe in realtà anche altrove molto attento (Freund, 1957, pp. 71-79) a distinguere tra antiqui / veteres e patres ma proprio la presenza di Claudiano introduce un elemento di sovrapposizione tra le due serie, riconducendoci a una unità meno specifica ma certamente ben operante: gli auctores. A scuola, scrittori cristiani e pagani erano ancora studiati insieme e formavano gli auctores, coloro che facevano autorità. In una lista di autori letti a scuola, Corrado di Hirsau (prima metà del sec. 12°) pone l'uno accanto all'altro Aviano, Sedulio, Giovenco, Prospero d'Aquitania, Aratore, Cicerone, Lucano, Orazio, Ovidio, 'Omero', Stazio, Virgilio, eccetera. Giovanni stesso cita continuamente, quali testimoni 'autorevoli', pagani e cristiani, 'antichi'. Per Ugo di Trimberg (1230-1313 ca.) "gli autori pagani veramente grandi vanno equiparati agli scrittori biblici" (Curtius, 1948). Lo stesso Giovanni attribuisce a Virgilio e a Terenzio, fra gli altri, l'aggettivo noster, che separa il tempo cristiano da quello pagano e gli auctores assunti nella tradizione classico-cristiana dagli altri. Alcuni auctores, pur veteres e antiqui (lontani nel tempo), sono così vicini spiritualmente da poter essere definiti nostri, come i patres. Auctores, antiqui, veteres, patres ricompaiono tutti insieme, usati in modo sinonimico, in un brano famosissimo che esprime in modo compiuto e 'autorevole' la concezione e la funzione dell''a.' per Giovanni e per larga parte della cultura successiva, sino a Dante compreso: "Preterea reverentia exhibenda est verbis auctorum, cum cultu et assiduitate utendi; tum quia quandam a magnis nominibus antiquitatis preferunt maiestatem, tum quia dispendiosius ignorantur, cum ad urgendum aut resistendum potentissima sint. Siquidem ignaros in modum turbinis rapiunt, et metu perculsos exagitant aut prosternunt; inaudita enim philosophorum verba tonitrua sunt.Licet itaque modernorum et veterum sit sensus idem, venerabilior est vetustas. Dixisse recolo Peripateticum Palatinum, quod verum arbitror, quia facile esset aliquem nostri temporis librum de hac arte componere, qui nullo antiquorum, quod ad conceptionem veri vel elegantiam verbi, esset inferior, sed ut auctoritatis favorem sortiretur aut impossibile aut difficillimum. Hoc ipsum tamen asserebat maioribus ascribendum, quorum floruerunt ingenia, et inventione mirabili pollentes, laboris sui fructum posteris reliquerunt.Itaque ea, in quibus multi sua tempora consumpserunt, in inventione sudantes plurimum, nunc facile et brevi unus assequitur; fruitur tamen etas nostra beneficio precedentis, et sepe plura novit, non suo quidem precedens ingenio, sed innitens viribus alienis et opulenta doctrina patrum.Dicebat Bernardus Carnotensis nos esse quasi nanos gigantium humeris insidentes, ut possimus plura eis et remotiora videre, non utique proprii visus acumine aut eminentia corporis, sed quia in altum subvehimur et extollimur magnitudine gigantea.Et his facile adquieverim, quia artis preparatitia et multos articulos veritatis tradunt artium preceptores, etiam in Introductionibus suis, eque bene antiquis et forte commodius.Quis enim contentus est his que vel Aristotiles in Periermeniis docet? Quis aliunde conquisita non adicit? Omnes enim totius artis summam colligunt, et verbis facilibus tradunt. Vestiunt enim sensus auctorum quasi cultu cotidiano, qui quodammodo festivior est, cum antiquitatis gravitate clarius insignitur" (Metalogicon, III, 4).Da Aulo Gellio (letto da Giovanni) in poi, la nozione di 'a.' non era più stata posta così chiaramente in relazione con quella di auctor e cioè di 'classico', di scrittore al vertice di una gerarchia di cui fa parte anche il suo eventuale interprete.Giovanni di Salisbury non intende aprire una querelle fra antiqui e moderni: propone invece l'idea di una cultura in cui l'antiquitas, le parole degli auctores, la tradizione sono la condizione indispensabile per il progresso dei moderni. Per Giovanni i moderni sono i 'contemporanei'. Un suo vicino, Walter Map, lo precisa analiticamente, quasi al modo oraziano (De nugis curialium, I, 30). Walter Map sul rapporto auctoritas-antiquitas sembra più critico o rassegnato di Giovanni di Salisbury (che pur se abbastanza disincantato prendeva atto, non solo per realismo, di un legame 'positivo' che collegava antiqui e auctores): " Scio quod fiet post me. Cum enim putuerim, tum primo sal accipiet, totusque sibi supplebitur decessu meo defectus, et in remotissima posteritate mihi faciet auctoritatem antiquitas, quod tunc ut nunc vetustum cuprum preferetur auro novello. Simiarum tempus erit, ut nunc, non hominum: [...] Omnibus seculis sua displicuit modernitas, et quevis etas a prima preteritam sibi pretulit" (ivi, IV, 5).L'antiquitas di Walter Map sembra almeno in parte meno periodizzata di quella di Giovanni, corrispondentemente, forse, alla maggiore attenzione alla propria misconosciuta modernitas. Il termine antiquitas ha invece un valore preciso, riferito agli antichi greci e romani, anche per Guglielmo di Malmesbury (m. intorno al 1142). Ma per Guglielmo, attento cronista di cose inglesi, il termine è anche "completamente libero da ogni riferimento all'antichità classica" (Freund, 1957, p. 90) ed è impiegato per indicare l'età e l'autorevolezza di istituzioni e norme locali, inglesi: l'antiquitatis inscientia viene identificata da Walter Map come un elemento di debolezza per Tommaso di York nella disputa che lo oppone a Lanfranco, arcivescovo di Canterbury.La legittimazione grazie all'antiquitas è alla base della grande attività storiografico-romanzesca in volgare che si sviluppa alla corte di Enrico II d'Inghilterra; l'ascendenza troiana dei Romani è un elemento di prestigio per la dinastia francese, per quella plantageneta come poi per molti comuni e città italiane alla ricerca di autorevolezza genealogica e politica. Un ciclo completo di romanzi di materia 'antica' costituisce lo sfondo dello sbarco di Brut (l'eroe eponimo, discendente dei Troiani) in Britannia e delle 'antichità' anglonormanne: Roman d'Enéas, Roman de Thèbes, Roman de Troie, Roman de Rou, Roman de Brut. Il valore dell'antiquitas non è però solo 'esterno', in quanto capace di legittimare genealogie e imperi, ma anche 'interno', in quanto dà un senso all'operazione stessa dello scrivere, già, embrionalmente, dal Roman d'Alexandre di Alberico di Pisançon (ca. 1135).Nel Roman de Rou, nel Roman de Thèbes e nel Roman de Troie (vv. 1-39) l'antiquitas, gli ancessor (da antecessores, corrispondente ad antiqui, come altre volte maiores) rappresentano la tradizione, antica, che rende possibile il progresso, la stessa umanità e il ricordo, tramite quella scrittura che già accomunava antichità pagana e cristiana in quanto tradizioni determinate e circoscritte.La corrispondenza tra i prologhi dei romanzi e i concetti espressi nel Metalogicon da Giovanni di Salisbury è forte; si può risalire anche a fonti comuni (quantomeno paoline, non solo per il rapporto fra 'progresso' e charitas), ma occorre in ogni caso sottolineare l'addensarsi di tanti autori solidali intorno alla corte di Enrico II e la rapidità e l'articolazione con cui il nucleo teorico iniziale viene ripetuto e/o si espande e si costituisce quasi in tópos (come avviene anche per l'immagine dei nani e dei giganti).Quando lo si ritrova in Francia, si fa fatica a riconoscere in fugaci versi sbiaditi una pallida eco di una tematica così importante e 'generale': per Chrétien de Troyes (Cligès, vv. 18-42) la tradizione scritta fa fede della veridicità del racconto e della conoscenza dei "fatti degli antichi"; tradizione e 'progresso' della scienza sono concetti ancora presenti ma servono solo a riproporre, nazionalmente, il mito della translatio studii, già a suo tempo proposto da Alcuino.Solo in Italia, nel sec. 13° è possibile ritrovare un rapporto con l'a. così analitico e strategicamente approfondito. Il legame tra la prassi politica di Federico II, nuovo Cesare e nuovo sostenitore di una renovatio Romae, e le sue iniziative culturali è solidissimo. Nella politica di Federico è sembrato di poter scorgere i primi indizi di una ripresa 'sistematica' dell'a., nella giurisprudenza, nelle arti figurative, nella passione antiquaria, nell'immaginario e nel recupero di temi e figure.La lettera che l'imperatore Federico II (e/o il figlio Manfredi) invia agli studenti delle università di Parigi e Bologna, accompagnando il dono di una traduzione di Aristotele (Huillard-Bréholles, 1854, p. 383ss.), è un documento notevole di quanto il rapporto tra a. e concezione della cultura affermato in Giovanni di Salisbury fosse ormai espanso a livello europeo.Quando Dante elaborò a sua volta una teoria della cultura e quindi dovette fare i conti con l'a., mosse esattamente dallo stesso terreno, prima anglonormanno e poi svevo. Già nel Convivio Dante propone la 'misericordia' (la paolina charitas) come compito dell'uomo (colto), collegandola peraltro (come nell'epistola federiciana) all'amore del sapere. La scelta stessa del volgare per un trattato che pure appare quasi come una teoria della cultura è strettamente collegata a una scelta 'italiana', nazionale. Nella Monarchia, invece, scritta a Commedia già molto avanzata, la questione è universale, il pubblico è internazionale, la scrittura è latina. Il prologo recupera l'intera problematica di cui la charitas è parte; si riallaccia (in certi movimenti quasi alla lettera) ai ragionamenti già svolti da Giovanni di Salisbury nel Metalogicon (e ripresi nei romanzieri anglonormanni e nella cultura sveva), partendo proprio dal rapporto con gli antiqui e su di esso affermando l'idea di un legame necessario fra tradizione e progresso grazie alla mediazione della charitas: "Omnium hominum quos ad amorem veritatis natura superior impressit hoc maxime interesse videtur: ut, quemadmodum de labore antiquorum ditati sunt, ita et ipsi posteris prolaborent, quatenus ab eis posteritas habeat quod ditetur" (Monarchia I, I, 1-4).Il labor antiquorum è lo stesso che ha permesso agli uomini di non vivere "come bestie"; gli antiqui sono - con Giovanni di Salisbury - gli auctores, pagani e cristiani, alle cui parole si deve riverenza ("E così 'autore' [...] si prende per ogni persona degna d'essere creduta e obedita. E da questo viene questo vocabulo [...] 'autoritade'; per che si può vedere che 'autoritade' vale tanto quanto 'atto degno di fede e d'obedienza'", Convivio, IV, VI, 5).Nella Commedia "antico" è attestato in molteplici significati che rispecchiano gran parte degli usi precedentemente rilevati; salvo pochi casi (sei in tutto, quando è legato ad "avversario" ed "errore") ha valore positivo, come "novo", che però si presenta anche in senso nettamente negativo, posto in rapporto con tutto ciò che ha turbato l'ordine morale e sociale di "Fiorenza dentro da la cerchia antica" (Par. XV, v. 97), ovvero con "la gente nuova e i sùbiti guadagni" (Inf. XVI, v. 73). A. in Dante non si oppone mai esplicitamente a moderno. L'opposizione temporale più evidente è nel De vulgari eloquentia fra predecessores / vetustissimi e moderni ('contemporanei'), ma con predecessores vengono indicati i poeti in volgare e dunque in qualche modo gli auctores che danno una 'regola', equiparabili ai classici ma non 'antichi': "predecessores nostri diversis carminibus usi sunt in cantionibus suis, quod et moderni faciunt" (De vulgari eloquentia II, V, 2). Vetustissimi indica invece una distanza temporale notevolissima ma indistinta, certo non gli antiqui né gli auctores: "Quapropter audacter testamur quod si vetustissimi Papienses nunc resurgerent, sermone vario vel diverso cum modernis Papiensibus loquerentur" (ivi, I, IX, 7-8). "Moderno" nella Commedia compare solo in quattro luoghi; ha valore puramente cronologico ('contemporaneo, attuale'), in Purg. XXVI, v. 113 ("che, quanto durerà l'uso moderno") e Par. XVI, v. 33 ("ma non con questa moderna favella", ove peraltro, pur senza sfumature di valore negativo, connota l''antichità', positiva, di Cacciaguida); esprime biasimo, proprio in ragione dell'opposizione con un nonmoderno non esplicitato (non necessariamente 'a.') in Purg. XVI, v. 42 ("fuor del moderno uso") e Par. XXI, vv. 130-132 ("Or voglion quinci e quindi chi i rincalzi / li moderni pastori e chi li meni, / tanto son gravi, e chi di rietro li alzi"). Per contro, la contrapposizione antico-novo / nuovo è esplicita in due luoghi (per Antico e Nuovo Testamento: Par. XXIII, v. 138; XXV, v. 88), ma soprattutto percorre fitta, più o meno immediatamente ed esplicitamente, i canti di Cacciaguida, ovvero della morale e della Firenze "antica" (Par. XV-XVII). Nella Commedia, sul senso storico-cronologico o mondanamente periodizzante prevale la determinazione ideologico-morale e 'catastrofico'-epocale, profetica, fino al riconoscimento, anche in questo ambito, del valore transeunte del tempo biografico (Purg. XI, vv. 100-103) e complementarmente (come in De vulgari eloquentia I, IX, 7) del continuo mutamento storico che rendendo antico il nuovo porta l''amico del vero' a cercare l'immortalità nella buona fama ("e s'io al vero son timido amico, / temo di perder viver tra coloro / che questo tempo chiameranno antico", Par. XVII, vv. 118-120).All'opposizione biblica e cristiana a.-nuovo corrisponde anche il valore autonomo e quasi 'assoluto' che svolge, in molteplici occasioni, 'a.': "Dante riveste di una pregnanza ben precisa l'aggettivo antico mediante il quale individua e qualifica la categoria dell'originalità: antico sta per archetipo: l'uso di antico è funzionale alla determinazione di un clima tradizionale e alla qualificazione della persona cui si riferisce come archetipo e iniziatore di essa tradizione. Antica madre e padre antico stanno a significare i progenitori della stirpe umana [...] Quando antico è riferito a persona nella Divina Commedia generalmente ha due significati, uno tecnico legato al codice linguistico scritturale e patristico e uno ideologico qualificante i valori di paternità e originarietà di una tradizione e di un'élite (ad esempio Adamo è antico in quanto progenitore del genere umano)" (Mercuri, 1971, p. 271).I valori archetipici affidati ad 'a.' sono rilevabili anche in ambito di teoria linguistica e letteraria (De vulgari eloquentia I, IX, 11) e, più in generale, nella concezione della tradizione consegnata in forma estremamente condensata e semanticamente spessa a Purg. XXII, vv. 97-99. Nel De vulgari eloquentia Dante pone esplicitamente in rapporto la gramatica, il latino e la sua inalterabilità, alla necessità per gli uomini di attingere all'"autorità e alle azioni memorabili degli antichi"; l'a. è il 'classico', ciò che deve essere sottratto all'arbitrio del tempo e dello spazio, ciò che è autoritas (da augere, secondo Isidoro), modello, "degno di fede e d'obedienza" e dunque extrastorico: "Hinc moti sunt inventores gramatice facultatis [...] Adinvenerunt ergo illam, ne propter variationem sermonis arbitrio singularium fluitantis, vel nullo modo vel saltim imperfecte antiquorum actingeremus autoritates et gesta [...]" (De vulgari eloquentia I, IX, 11). Gli antiqui non sono evidentemente (come i vetustissimi Papiensens) coloro che sono vissuti molto tempo prima: antiquorum specifica autoritates e gesta, dunque è usato in senso coincidente con quello rilevato in Giovanni di Salisbury e in tutta la corrente 'umanistica' medievale, compresa quella legata all'uso semplicemente didattico degli auctores ma comunque non rigorista. Chi sono per Dante gli antiqui dotati di autoritas? La definizione che in Purg. XXII, vv. 97-99 dà di Terenzio ha certamente valore generale: "dimmi dov'è Terrenzio nostro antico, / Cecilio e Plauto e Vario, se lo sai: / dimmi se son dannati, e in qual vico". In questo caso, come già in altri autori medievali e in Giovanni di Salisbury, "antico" vuol dire 'appartenente agli auctores e ai poetae regulati', in definitiva 'classico'. Ma non solo pagano: anche "nostro" ha valore ideologicamente pertinente (Mercuri, 1969): indica, come in Giovanni di Salisbury (Freund, 1957, pp. 67-88), tutti gli auctores cristiani o integrabili nella tradizione e nel corpo dottrinale (classico -) cristiano in quanto - come aveva già dichiarato Agostino (De doctr. christ., II, 40, 60) - avevano enunciato già prima di Cristo, in ragione della grazia divina, idee vere e conformi alla fede, perfino riguardo al "culto dell'unico Dio".Nell'Italia del sec. 14° con Dante (dal De vulgari eloquentia alla Commedia alla Monarchia) 'a.', in quanto 'classico' e 'cristiano', si costituisce in un articolato e organico sistema culturale, perno fondamentale di una incipiente teoria umanistica della cultura.Le implicazioni strategiche e le potenzialità radicalmente innovative dell''a.', e di quanto vi era connesso, risultano ben chiare a Petrarca (e a Boccaccio, per la sua parte), a partire addirittura dal problema della sua rappresentazione grafica, materiale. Petrarca desidera una "littera castigata et clara" che superi il calligrafismo decorativo della gotica e sia quindi più atta alla lettura: la trova in un esemplare di Agostino, in minuscola carolina, di cui loda la "vetustioris litterae maiestas". La presunzione di antichità sarà essenziale, anche per gli umanisti, per preferire la minuscola carolina, ritenuta di età romana e definita littera antiqua. Littera antiqua e correttezza del testo sono per Petrarca due aspetti dello stesso problema: il restauro della lezione degli auctores compromessa dai copisti e quindi l'affermazione di una gerarchia delle arti in cui la filologia, proprio in quanto scienza dell'a., scalzi la filosofia (aristotelica) dal suo ruolo di scienza sovrana. La cura per il passato, l'attenzione filologica e storica sono in realtà ormai una forma mentale che reintroduce un elemento nuovo nel rapporto con l'a.; un vero e proprio disprezzo culturale e soprattutto esistenziale per l'età contemporanea ("etas ista"); Petrarca è ormai al di là della semplice constatazione (altre volte attestata) di un degrado o di un'inferiorità rispetto al passato: "Incubui unice, inter multa, ad notitiam vetustatis, quoniam mihi semper etas ista displicuit; ut, nisi me amor carorum in diversum traheret, qualibet etate natus esse semper optaverim, et hanc oblivisci" (Posteritati; Senilium rerum libri, XVIII, 1).Il culto dell'a. è ricondotto al luogo proprio dell'a., a Roma; e a Roma è conseguentemente ricondotto anche l'impero che o è a Roma o non è: "Si imperium romanum Rome non est, ubi, queso, est? Nempe si alibi est, iam Romanorum imperium non est, sed eorum penes quos illud volubilis fortuna deposuit" (Sine nomine, IV). L'a., romano, diviene al tempo stesso restaurazione di un senso universale e 'nazionale', non per nulla opposto alla teoria franca (presso Alcuino) e poi francese (presso Chrétien) della translatio imperii così come il 'suo' latino era stato opposto al più noto francese nella famosa ambasceria a Parigi presso il re di Francia. Si vedano Spirto gentil, che quelle membra reggi (Canzoniere, LII), tutta intessuta sul mito di Roma e sulle "antiche mura ch'anchor teme et ama / e trema 'l mondo", e Italia mia benché 'l parlar sia indarno (ivi, CXXVIII), ove il "latin sangue gentile" è invitato a "sgombrare" da sé le "dannose some": "vertù contra furore / prenderà l'arme, et fia 'l combatter corto: / ché l'antiquo valore / ne l'italici cor' non è anchor morto". Recupero dell'a. e coscienza storica divengono due aspetti di uno stesso problema: "Quis enim dubitare potest quin illico surrecture sit, si ceperit se Roma cognoscere?" (Familiares, VI, 2).Dalla letteratura classica nomi, exempla e temi affollano le opere volgari e latine di Petrarca (il cui bilinguismo - fondamentalmente squilibrato sul latino - implica un progetto strategico, più netto e cosciente di quello dantesco, sostanzialmente ancora 'medievale'). L''a.' petrarchesco è dunque 'classico' e si affianca positivamente al 'nuovo' cristiano sul piano della periodizzazione epocale: "Dicantur antique quecumque ante celebratum Romae et veneratum romanis principibus Christi nomen, nove autem ex illo usque ad hanc etatem" (Familiares, VI, 2). Proprio nel momento della riacquisizione positiva dell'a. in quanto classico, si compie perciò, nel modo più chiaro e lungimirante, quell'operazione 'umanistico-cristiana' di assimilazione fra la cultura 'antica' e quella dei patres, quel filone che da Agostino e Boezio legava il noster Platone e gli antichi auctores alla tradizione cristiana (tutti insieme opposti invece da Petrarca ai moderni logici, ai barbari Britanni e agli aristotelici e averroisti): "Quid ergo studio veritatis obesse potest vel Plato vel Cicero, quorum alterius scola fidem veracem non modo non impugnat sed docet et predicat, alterius libri recti ad illam itineris duces sunt?" (Familiares, II, 3). Sono preoccupazioni 'classico-cristiane': il recupero pur 'sistematico' dell'a. non può prescindere dall'assimilazione che della cultura classica - lungo un arco di dieci secoli - ha compiuto la tradizione cristiana.
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La parabola dell'a. nella cultura medievale e moderna si svolge entro due termini: continuità e frattura. Continuità certamente, nel senso che il mondo classico aveva elaborato una lunga serie di schemi tipologici e iconografici accettati dagli artisti medievali: i monumenti sopravvissuti alla rovina del passato mantenevano il loro ruolo di modelli; frattura, perché quegli stessi modelli così amorosamente coltivati avevano mutato di segno. Nella seconda metà del sec. 12° magister Gregorius, un inglese che scriveva a uso del clero di Canterbury, descriveva la Città Eterna come una serie continua di mirabilia, "que vel arte magica vel humano labore sunt condita", come dice il titolo stesso della sua opera (Narracio de mirabilibus urbis Romae). I monumenti antichi erano ammirati, ma come si potrebbero guardare esseri mostruosi, che affascinano e intimoriscono, comunque pericolosi per il bene e la morale pubblici.Lo zelo religioso eccessivo aveva prodotto guasti enormi a questo patrimonio; quando scriveva magister Gregorius era ormai codificata la tradizione che attribuiva a papa Gregorio Magno la distruzione di quasi tutti i monumenti pagani (Buddensieg, 1965). Vero o falso che sia, era ormai accreditata l'immagine di sculture animate da demoni maligni, di monumenti che per questo motivo dovevano essere distrutti, malgrado la loro prepotente bellezza, ammirata e temuta (Cilento, 1983; Frugoni, 1984). Una delle statue del tempio di Apollo Palatino, forse la stessa statua del dio, opera di Skopas, è stata rinvenuta a pezzi minuti (Carettoni, 1966-1967). Sarebbe suggestivo supporre che, quando papa Gregorio, ut traditur a maioribus, ordinò la distruzione delle biblioteche del Palatino poste ai lati del tempio di Apollo (Giovanni di Salisbury, Policraticus, II, 26, ricorda che i libri in esse contenuti "erano reputati rivelare agli uomini la mente dei celesti e gli oracoli degli dei"), alcuni fanatici avessero distrutto anche la statua di culto di Apollo cancellandone brutalmente la demoniaca immagine.Il concetto della normatività dell'arte greca nasce verso la fine dell'età ellenistica, probabilmente nell'ambito della scuola filosofica della Stoà di Mezzo (Panezio e Posidonio; Becatti, 1951; Pollitt, 1974). È in questa fase che la critica d'arte, staccandosi da una concezione puramente 'tecnica' della realizzazione artistica, elabora, sulla base di precedenti platonici e aristotelici, la nozione di phantasía, una visione intuitiva della realtà trascendente che ha permesso ai sommi artisti greci, e al più grande di tutti, Fidia, di elaborare statue di divinità non più imitando la realtà naturale (mímesis), ma osservando in se stessi, come per una visione, la divinità stessa.Il concetto di phantasía poneva in forse l'intera impalcatura filosofica basata sulla mímesis della realtà naturale. La mímesis mutava di segno; non era più la realtà naturale a fungere da modello, ma le stesse opere d'arte dei grandi maestri, nelle quali vibrava una scintilla della mente divina. Quel mondo di dei ed eroi irraggiungibile nella sua perfezione poteva ormai essere recuperato con un solo sistema, copiandolo.
Plotino offre le chiavi per una migliore comprensione del passaggio dalle concezioni estetiche del mondo antico alla mentalità medievale, sviluppando il pensiero platonico ben oltre la soglia già varcata dagli stoici con il concetto di phantasía (Panofsky, 1924; Ferri, 1935-1936; Grabar, 1945; Marra, 1947-1948). Nel suo pensiero al limite del misticismo si avvertono i segni precipui dell'avvento di una nuova posizione culturale che avrebbe avuto nel Medioevo le sue espressioni più compiute. Interessato ai problemi della percezione visiva, si occupò anche della questione del bello, sebbene non in modo sistematico, tanto che è possibile selezionare nella sua opera (raccolta da Porfirio) concezioni differenti a seconda delle esigenze del ragionamento. Dell'attitudine platonica è sintomo il celebre aneddoto secondo cui Plotino avrebbe rifiutato di farsi ritrarre da un pittore o da uno scultore perché il suo corpo era una opprimente immagine impostagli dalla natura e quindi il ritratto sarebbe stato un'immagine dell'immagine, due volte lontana dalla realtà. Da questo atteggiamento di matrice platonica nasce lo scarso interesse del Tardo Antico e del Medioevo per il ritratto fisionomico. Paolino di Nola attesta la continuità del pensiero di Plotino nei confronti del ritratto: "Sed pauper ego, et dolens, quia adhuc terrenae imaginis squalore concretus sum, et plus de primo quam de secundo Adam carnis sensibus et terrenis actibus refero, quomodo tibi audebo me pingere, cum caelestis imaginem inficiari prober corruptione terrena? Utrimque me concludit pudor: erubesco pingere quod sum, non audeo pingere quod non sum: odi quod sum et non sum quod amo" (Ep. XXX; PL, LXI, col. 322). Non poteva essere altrimenti dove le concezioni metafisiche prendevano il sopravvento su una cultura basata essenzialmente sull'uomo e sull'esistenza terrena. Consona a questa matrice filosofica è la scarsa simpatia per le immagini che permea la cultura tardoantica e bizantina, prima di giungere al rifiuto totale con l'iconoclastia.La concezione artistica che Plotino tuttavia ha trasmesso al Medioevo è di ben più vasta portata. Divergendo dalla tradizione platonica e ponendosi in immediato rapporto con il concetto di phantasía, il filosofo suppone che la bellezza nell'opera d'arte abbia la sua radice in una forma spirituale assai più alta (un éidos) nella mente divina. La materia bruta è rivestita con una forma che "esisteva in colui che la ideò prima ancora che entrasse nel marmo; esisteva, beninteso, nell'artista, non in quanto questi ha pure occhi e mani, ma perché partecipe dell'arte" (Enn., V, 8; I, 3).Plotino frantuma per primo le fondamenta dell'estetica classica, che voleva la bellezza come armonia delle parti (symmetría), postulando la presenza della bellezza anche in cose che non avevano parti, come l'oro o la luce (ivi, I, 6, I ss.; VI, 7, XXII-XXIII). In una visione trascendente, la bellezza è quanto l'anima riconosce come tale, in un'unione mistica più profonda, che avvicina a Dio. Ha origine così l'estetica medievale: l'arte assume il ruolo di contribuire alla conoscenza di una realtà trascendente, perdendo la sua funzione di mímesis della realtà naturale (Panofsky, 1924; De Bruyne, 1946; Montano, 1952; Eco, 1959; Assunto 1961; 1963).Naturalmente gli sviluppi artistici seguiranno vie assai più articolate, dove la concezione filosofica e razionale dell'arte di derivazione pitagorica avrà comunque un ruolo basilare, come pare di desumere dall'opera di s. Agostino (Svoboda, 1933), per il quale il vero artista doveva essere capace di eternare il sensibile e il passeggero secondo i numeri che riflettono l'ordine cosmico sovratemporale; una concezione che probabilmente dipende da idee pitagoriche.Il mutamento delle tendenze si manifesta anche nell'opera di s. Agostino che, preso dal valore educativo dell'arte, pone le premesse per un valore etico del contrasto tra bello e brutto, con una giustificazione del deforme e dell'orrido, come antitesi alla bellezza, che, curiosamente, è anch'esso desunto dal mondo classico, dove si era giunti a descrivere con un verismo anatomico quasi eccessivo le deformazioni del corpo per contrasto al bello ideale. È tuttavia la coscienza del peccato, ignota al mondo antico, che fa recuperare ad Agostino il valore estetico del brutto, dovuto anch'esso all'ordinator iustissimus che ha voluto la bellezza. Si imposta con ciò definitivamente la funzione morale di edificazione, propria dell'arte, poi ripresa da Paolino di Nola, interessato egli stesso alla costruzione di edifici sacri nei quali la decorazione figurata doveva sottostare a precise esigenze pedagogiche.
A ben vedere, oltre alle formule che tuttavia hanno contribuito alla conoscenza del periodo storico, la complessa realtà medievale sta nei confronti dell'a. in un rapporto difficilmente identificabile, basato su una dialettica continuamente in azione e in incessante discussione.In età romana i trattati retorici avevano offerto lo stimolo critico per la definizione e la realizzazione dell'opera d'arte, in base a un processo analogico con la scultura e la pittura (Preisshofen, Zanker, 1970-1971; Wünsche, 1972; Trillmich, 1973; La Rocca, 1987). I concetti di interpretatio, imitatio e aemulatio, che impostavano criticamente il problema dell'imitazione, avevano fornito ai Romani una chiave di lettura dello sviluppo dell'arte greca dove il peso della componente classicistica era preponderante, ma non era l'unico. L'arte greca nel suo insieme è assunta come un ampio e duttile repertorio di forme stilistiche differenti, che possono essere imitate separatamente, avvicinate o ancora mischiate a seconda del soggetto da realizzare (è la nozione di 'stili di genere', o di 'arte tematica', coniata da Blanckenhagen, 1942, e da Brendel, 1979, corrispondente ai modes indagati da Kitzinger, 1958, per l'arte medievale). L'uso funzionale e consapevole del linguaggio artistico greco secondo questa formulazione eclettica funge da supporto 'tecnico' e ideologico per gli artisti; esso può essere analizzato come un 'sistema semantico' (Hölscher, 1987).Vuol dire che stili differenti possono coincidere cronologicamente e rispecchiare tendenze di diseguale portata per gli sviluppi futuri delle forme artistiche; fenomeno sintetizzato da Pinder (1926) con la celebre espressione 'le ineguaglianze del contemporaneo' e revisionato da Brendel (1979) per l'arte romana.Questo schema mentale persisterà anche nel Medioevo definendone altrettanto bene la complessa vicenda culturale, in quanto la componente interpretativa non è più solamente un indefinito Zeitgeist, ma una vasta rete di suggestioni dipendenti dal grado e dalla formazione culturale di committenti e artisti. Nella celeberrima icona della Madonna in trono tra angeli e santi nel monastero di S. Caterina sul monte Sinai, gli angeli sono eseguiti nella maniera della tradizione classica, ma i santi, nella loro ieraticità, seguono altre forme tipologiche; e tuttavia l'autore dell'opera è riuscito a fondere le diverse influenze in una realizzazione unitaria e coerente. Attraverso i secoli, e con alterno successo, l'arte classica sarà la forza propulsiva per le trasformazioni artistiche; la sua emulazione diventerà sintomo di rinascenza pur essendo, nella realtà dei fatti, una sorta di ininterrotto canale sotterraneo che trasmette le sue acque lungo un percorso ad andamento irregolare.Immesso nell'alveo del più articolato discorso del 'sistema semantico', il rapporto tra arte 'popolare' o 'plebea' e arte 'colta', impostato da Rodenwaldt (1940) e da Bianchi Bandinelli (1967; 1969) per definire i mutamenti del linguaggio figurativo romano in età tardoantica, non riesce a offrire più di un suggerimento di lettura in chiave sociologica, e solo uno di tanti. Questo supposto dualismo propone di vedere le radici della cultura artistica medievale in forme provinciali o rozze appena toccate dall'influsso della normativa classica e poi assunte a vettore privilegiato delle ideologie della classe media, prima di essere trasferite nell'ambito di corte all'epoca di Costantino (Schweitzer, 1949). È certamente vero che una certa semplificazione della struttura, un interesse per i volumi pieni piuttosto che per la loro definizione plastica, un linearismo di superficie, un emergere della frontalità tesa a innalzare il committente in una sfera sovraumana sono tutti indizi di un modo diverso di concepire ideologicamente l'immagine. Ma è anche vero che solo raramente questa forma assurge a livello d'arte e comunque non segue una linea di sviluppo coerente, anzi procede a sbalzi, nel tentativo di adeguarsi comunque al modello colto.Altri fondamentali vettori entrano in gioco per una definizione più esatta dell'arte romana nel suo rapporto dialettico con l'arte medievale. Mutevole e cangiante dal centro alla periferia dell'impero, essa è sottoposta alle più svariate influenze, talvolta da parte di culture artistiche formalmente meno elaborate (Gallia, Spagna, Germania), ma che sotto la spinta della normativa classica assumono un maggior rigore; talaltra da parte di centri e regioni con una grande tradizione culturale e artistica (Egitto, Siria). In ogni caso, la mescolanza di influssi genera produzioni d'arte che a malapena possono essere integrate sotto la comune etichetta di 'arte romana' (Bianchi Bandinelli, 1970).Si verificarono talora autentici travisamenti delle realtà culturali delle singole regioni. L'appiattimento dell'immagine, il decorativismo dei panneggi sono formule che si incontrano in Italia, in Gallia e in Siria senza che possa essere stabilito un reale contatto tra queste regioni. Si tratta nella maggior parte dei casi di espressioni formali autonome, dipendenti da sostrati culturali dissimili, convergenti verso soluzioni formali affini.Anche a livello di realizzazione si osserva in genere una più precisa coerenza dove la tradizione locale è impostata su basi artistiche più complesse ed elaborate, come in Siria, ai confini quasi dell'impero, in un territorio soggetto a influenze da un lato greco-romane e dall'altro persiane o partiche, dove si giunge precocemente ad altissimi livelli di qualità formale che preludono al Tardo Antico (Schlumberger, 1960; 1969). In Africa risulta ancora forte la spinta culturale di Alessandria e, come un sostrato impermeabile ai vettori esterni, della grande tradizione egiziana, anch'essa coerentemente legata a una differente concezione artistica.Per l'Oriente e l'Egitto il rapido assurgere di questa particolare forma artistica in uno stile coerente può essere dipeso dalla originaria matrice religiosa assolutamente contrastante con quella greco-romana, pervasa da concezioni escatologiche e metafisiche e da un concetto del potere regale emanante direttamente dalla divinità che, come è ben noto, ebbe in Grecia e a Roma una funzione meramente simbolica, mai realmente sentita come fatto religioso autonomo.Nei centri provinciali d'Occidente la ricerca artistica e l'elaborazione formale sono più intuitive, meno rigorose; non assurgono nel loro insieme a sistema stilistico. Straordinarie realizzazioni non mancano, ma non vi è tessuto connettivo. Tutto resta allo stadio iniziale, mentre la normativa classica offre un appoggio strutturale per le carenze della forma.A Roma stessa le varianti non sono da poco entro l'ampia serie di botteghe attive per committenti di varia estrazione sociale e possibilità economiche. In alcuni casi è possibile confrontare la realizzazione destinata a un ambiente colto e raffinato e la sua 'traduzione' in ambito provinciale. Nel secondo caso, come in un interessante rilievo pubblico di Palestrina (Palestrina, Mus. Archeologico Naz.) raffigurante il trionfo postumo di Traiano sui Parti (Musso, 1987), si osservano la costrizione delle figure in uno spazio limitatissimo, l'isometria dei personaggi disposti in file regolari e tendenti alla frontalità, lo scarso interesse per l'organicità dei corpi e, al contrario, un capillare interesse per la descrizione dei volti e dell'acconciatura dei capelli, infine la sproporzione metrica tra cavalli e littori. Si intuisce il modello aulico (e basterà pensare al rilievo con processione trionfale sull'arco di Tito), ma ridotto entro una sintassi che tende a distruggere uno dei massimi raggiungimenti formali della cultura classica: l'organica disposizione dei corpi nello spazio. Ma ben altra cosa è il fregio a girali d'acanto con animali inseriti nelle spirali delle foglie che inquadra il rilievo. Qui il livello, secondo i canoni estetici dell'epoca, è molto alto, nella sapiente regolazione modulare e nell'uso di un chiaroscuro che non corrompe la forma organica, ma anzi contribuisce a staccare i girali dal fondo con l'uso della tecnica pittorica. Evidentemente l'opera è stata elaborata da una bottega specializzata in partiti decorativi, dove aveva raggiunto un alto virtuosismo tecnico, ma non idonea a eseguire scene figurate secondo lo standard ottimale dell'epoca. In età adrianea, quando è stato eseguito il rilievo di Palestrina, una simile bottega poteva realizzare a Roma, per un committenza statale, solo lavori a carattere decorativo e ornamentale. Ma per una committenza privata della classe media o per un ambiente municipale la situazione era diversa; potevano quindi essere realizzati rilievi a imitazione dell'arte colta ma con inferiore coerenza formale, come mostra per es. il celeberrimo rilievo con anziani coniugi dinanzi al Circo Massimo (Roma, Mus. Vaticani), quasi certamente prodotto nella stessa bottega (Rodenwaldt, 1940).Il concetto di 'sub-antico' coniato da Kitzinger (1967; 1976; 1977) per definire una corrente sotterranea alla cultura artistica classica, presente in vario grado in luoghi e tempi differenziati, mira a ristabilire una presenza formale non legata a impropri fattori sociali ed economici che ne potrebbero inquinare l'interpretazione. Perché è vero che mentre in Occidente questa arte è 'popolare' o 'plebea', in Oriente essa è linguaggio colto, una autentica controrisposta al linguaggio classico, che può assumere essa stessa forme dialettali e riemergere con forza inconsueta qua e là smagliando la solida rete della normativa classica. Si tratta di vettori artistici non legati ad alcun messaggio ideologico né alla volontà di un committente, quindi non pilotati né pilotabili, che sgorgano direttamente, fluidi, senza alcuno schema mentale prefissato. Sono strutture di base indipendenti anche da quello Zeitgeist o 'spirito dell'epoca', che non è capace di spiegare la nascita del fenomeno se non con un procedimento tautologico, collegando a posteriori espressioni artistiche con fattori sociali ed economici. Si tratta piuttosto di un lento e continuo correttivo degli schemi formali, che può essere letto con maggiore proprietà negli elementi decorativi e ornamentali, dove si può essere certi d'essere di fronte a un'esperienza 'introdiretta' (Kitzinger), cioè non suggerita o vincolata alla volontà di un committente.L'elemento base che pare essere estraneo al mondo classico è la riduzione dell'immagine plastica a effetto puramente decorativo; l'abbandono della mímesis per formulazioni astratte o puramente decorative e ornamentali (Kitzinger, 1940; Lavin, 1963). Il grado formale del mosaico nella cupola di S. Vittore in Ciel d'Oro a Milano (sec. 5°) è analogo a quello dello splendido mosaico dalla casa della Fenice ad Antiochia (uno dei più alti raggiungimenti del sec. 6°) o delle volte floreali o con grandi stelle su fondo blu di Ravenna. Ma proprio osservando il mosaico antiocheno, e collocandolo nella serie che gli compete, si incontrano precedenti, prima più prudenti, tondi figurati inseriti in tappeti geometrici, poi più attenti al rapporto tra immagine centrale e contorno decorativo, infine trasformazione del motivo floreale o animale in segno geometrico. E la disposizione regolare dei fiori appena schiusi su fondo neutro prelude a una completa astrazione, dove il motivo naturalistico è svuotato e trasformato in codice, come avviene, con analogo sistema se non con altrettanta qualità formale, in mosaici dove piccoli uccelli con nastri annodati intorno al collo si dispongono in file ma con direzione alternata. L'interesse è puramente decorativo; per contrasto la fenice al centro della composizione risulta come evidenziata in una sfera di luce.Se, come vuole Kitzinger, l'elemento 'introdiretto' emerge al suo grado più alto nell'astrazione delle forme, che perdono peso corporeo per diventare motivi ornamentali, è chiaro che il passo, anche se preventivato da numerose presenze nell'ambito della cultura classica, in quella fascia detta talvolta 'popolare' o 'plebea', pare invece ritornare ideologicamente alle origini dell'arte greca, allo stile geometrico oppure allo stile ionico di età arcaica. Si può essere certi che in questo campo la differenza è tra un improvviso inserirsi di un linguaggio più elementare, incapace di riprodurre la complessa elaborazione naturalistica se non in schemi decorativi, talvolta gustosi e artisticamente compiuti, e una cosciente rigorosa fonte razionale di ricerca, dove la funzione dei fondi neutri, tanto spesso d'oro, la ricercata impostazione, rigorosamente calibrata, di immagini in uno spazio che ha perduto profondità per assumere la preziosa allusione di infinito, immutabile ed eterno, la raggelata fissità degli sguardi, tutto riporta a una concezione ultraterrena dell'esistenza, un pieno superamento del caduco e frammentario agire terrestre, quindi del naturalismo che lo esprimeva. Non si può infatti negare che, al di là di decise componenti formali che anticipano il Medioevo nel pieno della cultura romana, è la struttura ideologica e mentale di quest'arte che muta. Differenti sono gli elementi che la compongono, quelli che si sviluppano dal convergere di molteplici componenti formali prima separate o non coerentemente sviluppate in una sequenza logica e che improvvisamente prendono corpo con un'evidenza che lascia stupiti. Con la scissione cristiana tra corpo e anima si attua anche lo stacco dall'organicità del linguaggio classico e inizia la riforma che avrebbe condotto all'astrazione formale. Nell'ambiguità tra amore per forme sentite come manifestazione di una grandezza ormai non più raggiungibile e rifiuto di questi segni demonizzanti, accettabili solo in quanto schemi capaci di esprimere anche valori spirituali cristiani, si svolge il percorso dell'antico.
Nel tempo, la forma classica resiste come modello insuperato (Hamann-Mac Lean, 1949-1950; Weitzmann, 1954; Oakeshott, 1959; Kitzinger, 1963; Mango, 1963; Greenhalgh, 1979; 1984; Binding, 1980; Wessel, 1980; Settis, 1986; 1988), ma poche sono le botteghe capaci di riprodurre tale perfezione, nell'allentamento generale conseguente ai mutamenti di gusto e alle capacità tecniche. Quanto resta sono piuttosto tipologie e schemi formali, che si trasmettono incontaminati, pur se variati di segno.Nel momento stesso in cui, a partire dal sec. 3°, le condizioni economiche impongono, in Roma, una riduzione dell'attività edilizia in campo pubblico, la incapacità di restaurare i monumenti fatiscenti genera il fenomeno della appropriazione di fatto. Spogliati gli edifici in crollo o resi fatiscenti dal tempo e dagli incendi, i rilievi già destinati a glorificare questo o quel determinato imperatore sono modificati in modo tale da rispondere a mutate esigenze, senza peraltro perdere nulla del loro significato originario. Diventa quasi obbligatorio arroccarsi entro una codificazione di schemi e simboli atemporali del potere che possano in qualche modo difendere il sovrano quale simbolo vivente dello Stato. E come Valeriano, Diocleziano, Costantino, usurpano monumenti destinati a Claudio, Traiano, Adriano, Marco Aurelio, così in seguito i papi e gli imperatori germanici tentano di recuperare gli schemi e i simboli del potere imperiale romano per affermare la loro supremazia.La trasmissione di messaggi e segni dal mondo antico a quello medievale non mostra soluzione di continuità. Muta la chiave di lettura, nel senso che lo spettatore medievale ha una posizione religiosa e culturale mutuata da una visione dualistica dell'uomo, nella ormai evidente frattura tra corpo e spirito, e quindi nella evidente sottovalutazione dell'esistenza terrena. Ma è vero anche che il cristianesimo, privo all'origine di una sua specifica cultura figurativa, si è comportato nei confronti del repertorio greco-romano allo stesso modo in cui i Romani avevano prima assorbito e poi elaborato il linguaggio greco perché rispondesse in modo duttile alle nuove esigenze. Nel Medioevo, e specialmente in Italia, la presenza stessa dei monumenti antichi parlava con una evidenza e con una sicurezza cui non si poteva rispondere se non con una eventuale aemulatio.La spoliazione dei monumenti fatiscenti, in quest'ottica, rientra in una ben testimoniata sequela di appropriazioni che sono, certamente, frutto di crisi economica, ma ammantate di ragioni ideologiche (Fedele, 1909; Ross, 1930; Momigliano, 1955; Deichmann, 1980; "Colloquio", 1983; Parra, 1983; Brenk, 1987). Non mancano precedenti illustri nell'ambiente greco-romano: a una tavola di Apelle raffigurante il trionfo di Alessandro l'imperatore Claudio fece eradere il volto del Macedone e sostituire con quello di Augusto (Plinio, Nat. Hist., 35, 94); la statua equestre di Nerva rinvenuta a Miseno raffigurava in origine Domiziano (e qui, essendo in territorio municipale, dovette giocare in favore della trasformazione il fattore economico, come sarebbe avvenuto di norma in periodi di crisi a partire dal sec. 3°); l'arco di Portogallo sulla via Lata ebbe le teste dell'imperatore Adriano rilavorate a favore di un altro imperatore, verosimilmente Valeriano (Rilievi storici, 1986); l'Arcus Novus di Diocleziano sulla via Lata riadopera, con leggere modifiche, i rilievi di un arco di Claudio (Laubscher, 1976); l'arco di Costantino, che fruisce di rilievi dell'età di Traiano, di Adriano e di Marco Aurelio, è solo uno dei tanti monumenti costruiti con materiale di spoglio.Molto spesso gioca l'emulazione, il tentativo di appropriazione ideologica dell'immagine. Nell'arco eretto per la vittoria di Costantino su Massenzio, l'uso di spoglie antiche vuole essere da un lato ammirazione e stima per opere d'arte di qualità estetica non facilmente raggiungibile, dall'altro un'appropriazione della gloria degli imperatori del passato, dei quali Costantino ha emulato le gesta. Del resto il suo ritratto ufficiale mostra un'acconciatura di capelli dipendente dal ritratto di Traiano, modello ideale e confronto per le future generazioni. Anche la monetazione costantiniana rivela forti tracce di un adeguamento al programma traianeo; d'altronde la stessa moda del volto rasato, contro la tradizione codificata nel sec. 3°, parla in tal senso. In questo modo l'opera d'arte, non più vista come fine a se stessa, diventa trofeo di vittoria, come era stato per i Romani, e come fu poi per i Bizantini e per gli imperatori germanici (Greenhalgh, 1984). Si propone una identificazione tra quella bellezza e la gloria dell'Impero romano, quasi che ogni oggetto antico di particolare qualità formale preservi in sé una scintilla della passata grandezza. È il motivo per cui ogni sovrano teso a ricostruire l'Impero romano impone alla sua corte un gusto classicistico e fa raccolta di oggetti antichi, la cui perdita appare perdita della propria identità, quasi crollo del proprio potere. Così Niceta Coniate poteva scrivere un trattato De statuis come reazione al sacco di Costantinopoli da parte dei Latini nel 1204, vedendo nella distruzione di opere d'arte una perdita delle radici su cui era fondato l'Impero bizantino.Risalendo nel tempo, Teodorico, appoggiandosi all'ormai codificato mito della passata grandezza di Roma (Bach, 1955-1957; Deichmann, 1980; Pietri, 1981), volse direttamente la sua attenzione agli edifici romani. Cassiodoro attesta il tentativo di preservare la continuità con l'a., che per altri versi, in tempi ormai calamitosi, sembrava in bilico (Momigliano, 1955; Gregory, 1963). In una lettera scritta in nome di Teodorico è chiara la volontà di emulare e di superare gli antichi: "Absit enim ut ornatui cedamus veterum, quia impares non sumus beatitudine saeculorum [...] De arte veniat, quod vincat naturam; discolorea crusta marmorum gratissima picturarum varietate textantur" (Variae, I, 6). Ritorna come un leitmotiv la necessità di preservare i monumenti antichi e di costruirne di nuovi, di riportare al pristino splendore gli edifici vetusti: "Propositi quidem nostri est nova costruere, sed amplius vetusta servare; quia non minorem laudem de inventis, quam de rebus possumus acquirere custoditis [...] indecore iacentia [scil. lapides et columnae] servare nil proficit, ad ornatum debent surgere redivivum quam dolore monstrare ex memoria praecedentium saeculorum" (ivi, III, 9). Lo spirito nuovo si manifesta con il definire miracula i monumenti romani che a stento si riesce a consolidare (ivi, IV, 51). Il termine non è nuovo: era stato già adoperato da Ammiano Marcellino quando narrava dell'arrivo a Roma di Costanzo II nel 357, del suo sguardo attonito su meraviglie già fatiscenti, ma viste come memoria storica da preservare per la loro irraggiungibile, non umana bellezza, che mani mortali non avrebbero potuto più emulare; e ritorna, come si è visto, nella descrizione dei monumenti romani di magister Gregorius. In Cassiodoro insomma, come nel suo coetaneo Boezio, la cultura artistica del mondo classico è già vista nello specchio di una nuova epoca, come un bene prezioso da conservare e tentare di eguagliare.In quanto alla Chiesa, la sua posizione appare molto più ambigua. Si può supporre che la demonizzazione delle opere d'arte antica, unita al fascino che esse emanavano, abbia comportato una diversa valutazione dell'a. a seconda delle momentanee variazioni ideologiche e politiche. E se nell'ambito delle corti laiche le forme di autorappresentazione sembrano recuperate di peso dal mondo classico per la obbligatoria necessità di fortificare la coesione tra l'impero romano pagano e il risorgente impero cristiano, nella Chiesa si tratta di più gravi tensioni, per l'ambiguità stessa del potere papale, nel contempo spirituale e temporale (Graf, 1882; Buddensieg, 1965; Walter, 1970; 1971; Erler, 1972; Gandolfo, 1974-1975; Krautheimer, 1980; Miglio, 1982; Cilento, 1983; Frugoni, 1984; Greenhalgh, 1989; Einaudi, in corso di stampa). Il papa assume il nome della massima carica sacerdotale romana, pontifex maximus, ma per altri versi l'apparato esteriore del suo potere è simile a quello degli imperatori. Sebbene manchino gli anelli centrali della catena, per carenza di documentazione, è possibile supporre un collegamento tra le cerimonie di apertura della Porta Santa durante i giubilei e l'avvio delle processioni trionfali romane (La Rocca, in corso di stampa). In ambedue i casi il passaggio rituale attraverso una porta normalmente chiusa vale quale purificazione (dal sangue versato in guerra per i pagani, dai peccati per i cristiani). Al di là della porta è in ambedue i casi la città sacra (Roma stessa entro il pomerio per i pagani, la città di Dio o la Gerusalemme celeste per i cristiani). Anche la cerimonia di trasformazione di un edificio pagano in edificio cristiano segue, a ben vedere, schemi romani. La prima fase (inauguratio) ha sempre il significato simbolico di liberare l'area dagli eventuali demoni che la detengano; mentre la consecratio affida definitivamente l'edificio alla divinità (o a un santo).Anche l'inserimento di un capitello corinzio di spoglio entro una chiesa vale quale presenza concreta dell'a., ancora eloquente nella sua qualità estetica.Consacrare un edificio pagano e trasformarlo in chiesa è un'indiretta accettazione della propria incapacità di competere con tali meravigliose creazioni e un tentativo di recuperarne l'immagine in chiave cristiana. Non è un caso che si sia sentita necessità di salvare alcune opere d'arte ponendole sotto il controllo della Chiesa stessa e scacciando i demoni che vi erano contenuti. Sia esso il Pantheon (dal quale Bonifacio IV, dal foro sul tetto, eliminò tutti i diavoli che vi si erano rifugiati; Buddensieg, 1971), o il piccolo Spinario, un S. Giovannino ante litteram, passibile di molteplici letture (anche come osceno Priapo o come simbolo del lussurioso mese di marzo; Miglio, 1982), o semplicemente i numerosi sarcofagi e capitelli trasferiti nelle chiese ("Colloquio", 1983), è il loro mutamento di segno a permetterne la salvezza.Il Pantheon, con la sua cupola miracolosamente preservata, era uno straordinario simbolo della volta celeste stellata, e l'effetto era accresciuto dalla presenza delle splendenti stelle in bronzo dorato. Dalle volte celesti delle tombe egiziane colme di stelle sul fondo blu, passando per il Pantheon, si giunge alla meravigliosa volta stellata della tomba di Galla Placidia, cristiana per ideologia religiosa, ma impostata ancora secondo una struttura pagana.Molto più logico il sistema per gli imperatori bizantini che si reputano i continuatori reali dell'Impero romano (Grabar, 1936; Mac Cormack, 1981; Dagron, 1984). Secondo Niceta Coniate, gli imperatori Teodosio I, Michele VIII o Eraclio amavano le antiche forme ansiosi di collegare la propria signoria a un passato antico e venerato.E di fatto persino a Bisanzio, dove la continuità parrebbe impostata su basi più solide in virtù della continuità del potere imperiale cristiano, già alle soglie del sec. 10° appaiono perduti i significati dei monumenti più celebri ed è pertanto possibile nutrire dubbi sul riconoscimento di Giustiniano nella colossale statua equestre dell'Augusteion. Costantino nei Patria diventa un personaggio immaginario: feroce e sanguinario, raccoglieva in vani sotterranei le statue d'oro e d'argento degli uomini che aveva fatto uccidere, come espiazione che ha quasi un sapore di negromanzia (Dagron, 1984). È sintomo di una riduzione d'informazione che sotto vari aspetti ha dell'incredibile, tenuto conto che i trattati sono stati redatti da letterati dotati di una cultura per altri versi raffinata.Costantinopoli è costruita come un'altra Roma (Dagron, 1974) e, pur nascendo cristiana, viene fondata secondo le regole codificate dal diritto romano, con l'ausilio di un pontifex e di un augur. Ha i suoi palazzi imperiali affacciati sull'ippodromo, come i palazzi del Palatino erano affacciati sul Circo Massimo. Ha la sua porta Trionfale (detta d'Oro) e l'esercito, una volta raccolto nel Kampos fuori le mura (esplicita citazione del Campo Marzio romano fuori dal pomerio cittadino), inizia la sua processione trionfale varcando la porta d'Oro e seguendo la Mese fino a Santa Sofia, la luminosa chiesa dedicata alla divina Sapienza, erede del pagano Capitolium. Ha le sue colonne coclidi e le statue equestri in piazze che sono un esplicito riferimento alla prima Roma, la Roma dei padri (La Rocca, in corso di stampa).Si è visto che Teodorico cerca di restaurare gli edifici fatiscenti di Roma; ma a Ravenna costruisce una reggia a imitazione dei palazzi imperiali (sul fastigio d'ingresso della sua raffigurazione musiva a S. Apollinare Nuovo è scritto orgogliosamente Palatium; Duval, 1978) e si dota di una propria statua equestre, già destinata probabilmente a glorificare l'imperatore Zenone (Hoffmann, 1962; Frugoni, 1983; 1984).Carlo Magno a sua volta tenta di instaurare l'antico potere imperiale procedendo a una autentica Renovatio Romani Imperii, come è attestato epigraficamente persino su una sua bulla plumbea. Avendo soggiogato omnia regna e avendo ricevuto dal papa stesso la vidimazione del suo potere, al sovrano era necessario ricostruire nella nuova capitale, quasi a legittimazione del suo operato, monumenti che si riallacciassero al mondo antico. E non potendo avere la Lupa di S. Giovanni in Laterano, ne fece una sorta di riproduzione trasformando in lupa un'orsa di bronzo. In luogo della statua equestre di Marco Aurelio, anch'essa dinanzi alla basilica di S. Giovanni e ritenuta raffigurare Costantino, Carlo portò ad Aquisgrana da Ravenna la statua equestre raffigurante Teodorico. Anche la celebre Pigna del Vaticano venne imitata. Si creava pian piano una secunda Roma (Schramm, 1928; Hoffmann, 1962; Erler, 1972; Brenk, 1987).Roberto il Guiscardo nel 1073 saccheggiava Bari e trasferiva a Troia causa victorie sue (Romualdo Salernitano, Chronicon; RIS2, VII, 1, 1914, p. 188) colonne e capitelli di marmo. I sovrani normanni portavano da Roma a Palermo e a Cefalù marmi preziosi per decorare chiese e palazzi, soprattutto porfido per le loro tombe, cavati evidentemente da colonne monolitiche di cui non sono rimaste eguali (Deér, 1959; Faedo, 1982).Federico II non fu da meno. A Capua ritenne opportuno erigere un arco trionfale dove la sua immagine era al centro di una complessa elaborazione simbolica forse tesa a rappresentare la iustitia imperiale, a imitazione di quella celeste (Willemsen, 1953; 1977). Sotto la statua imperiale, in tre tondi, erano la testa femminile di Iustitia e i busti di due personaggi barbuti con una corona di alloro che presumibilmente aveva incastonata, alla sommità della fronte, una grande gemma. Ritenuti molto spesso giudici, talvolta riconosciuti come Pier delle Vigne e Roffredo Epifanio, si è recentemente avanzata la possibilità che raffigurino, invece, due imperatori, predecessori di Federico II nella concezione imperiale, Costantino e Carlo Magno (Deichmann, 1983). Né meraviglierebbe la presenza in ambedue i casi della barba, perché il Marco Aurelio del Laterano, secondo la tradizione vulgata, era Costantino. Federico II, insomma, si pone volutamente nel solco della tradizione considerando non frantumata la continuità con il mondo antico ed esplicitando la sua posizione con la realizzazione di una porta d'ingresso cittadina come una porta trionfale, a rispondenza della porta Trionfale di Roma. Meraviglia semmai la scelta del modello, in ambedue i casi un ritratto di poeta o filosofo greco (forse il Sofocle tipo Farnese), come se, una volta smarrita la capacità di lettura esegetica delle immagini dell'a., ne restasse comunque la tipologia, una serie di schemi perfettamente adattabili a seconda delle esigenze.Alla corte di Federico scultori e intagliatori di gemme lavoravano ispirandosi all'a. senza intermediari di sorta. E pare che l'imperatore stesso organizzasse scavi per ottenere quelle antichità cui tanto agognava, stanziando a tale scopo grosse somme di denaro (Greenhalgh, 1984). Né è casuale che proprio in questo periodo tra Reims, Bamberga e Naumburg si sviluppino scuole artistiche fortemente legate al retaggio classico nel maggiore interesse per la struttura plastica dei corpi e per il rinnovato equilibrio strutturale tra corpo e panneggio, ispirati direttamente dal patrimonio greco-romano (Müntz 1887; 1888; Adhémar, 1939; Hamann-Mac Lean, 1949-1950; Die Zeit der Staufer, 1977).Un interessante esempio di continuità è offerto dalla funzione 'imperiale' del porfido, estratto da cave di proprietà esclusiva dell'imperatore in Egitto e destinato a essere il simbolo stesso del potere, forse per quel colore rosso affine alla porpora (Delbrueck, 1932). Di porfido erano le statue imperiali, da Traiano ai Tetrarchi, di porfido i sarcofagi imperiali, da Adriano a Costantino, a Giuliano l'Apostata, a Marciano; di porfido il sepolcro di Teodorico e dei sovrani normanni e svevi, da Ruggero II a Guglielmo I a Enrico VI e Costanza fino a Federico II (che adoperò per sé e il padre Enrico VI due sepolcri depositati a Cefalù da Ruggero II, ma mai adoperati; Deér, 1959). Nuovamente una linea fluida e ininterrotta lega i fenomeni, con il tramite della Chiesa cattolica, per suo conto non certo esente dal fascino del porfido (si pensi all'uso delle rotae). Innocenzo II (m. nel 1143) recupera dal mausoleo di Adriano il magnifico sarcofago porfireo dell'imperatore per adoperarlo come sua sepoltura in Laterano; già da tempo il suo originario coperchio era stato trasferito nel quadriportico dinanzi alla basilica di S. Pietro, sovrapposto a un sarcofago in marmo contenente a sua volta un altro sarcofago con le spoglie di Ottone II (m. nel 983), prima di essere trasformato, con opportune modifiche che ne hanno alterato l'aspetto, in fonte battesimale da Carlo Fontana (D'Onofrio, 1978). Altri papi seguirono l'esempio di Innocenzo II: Anastasio IV (m. nel 1154) riadoperava il sarcofago di s. Elena. Laddove mancava il porfido, si potevano adoperare altri marmi colorati, visto che in questo periodo, come testimonia magister Gregorius (Narracio de mirabilibus urbis Romae), anche il basalto e il granito potevano considerarsi, con una certa larghezza di vedute, porfido. Ma Ruggero II aveva un'esatta conoscenza del valore simbolico 'imperiale' del porfido. Il sovrano depositò nella cattedrale di Cefalù due sarcofagi porfirei destinati l'uno alla propria sepoltura, l'altro "ad insignem memoriam mei nominis, quam ad ipsius ecclesiae gloriam" (Caspar, 1904, nr. 194), in opposizione simbolica, secondo un'ipotesi, alla vocazione temporale del papa, proprio quell'Innocenzo II che, usurpando il sarcofago di Adriano, aveva ripreso il costume funerario imperiale; la diocesi di Cefalù, fondata dall'antipapa Anacleto (m. nel 1138), era il simbolo diretto del potere normanno contro la Curia romana. In realtà, gioca a favore della scelta del porfido probabilmente il suo impiego per le deposizioni imperiali a Costantinopoli, nella chiesa dei Ss. Apostoli, anche se da lungo tempo la pietra non era più adoperata a causa della rottura dei canali commerciali con l'Egitto, già ridottissimi verso la seconda metà del sec. 4° (dopo Marciano, m. nel 457, non sono testimoniati più sarcofagi in porfido).
L'interesse per la materia fisica con cui l'opera è eseguita, piuttosto che per la sua qualità estetica, è talvolta considerato una componente specifica della mentalità medievale nell'ambito della cultura artistica. Specialmente l'apprezzamento per le materie che riflettono e dilatano la luce, per l'oro e le gemme, per quanto è manifestazione simbolica della luce divina, sembra essere una costante del pensiero medievale (Eco, 1959; Assunto, 1963; Duby, 1976). Così Venanzio Fortunato descrive lo splendore di luminosi edifici dorati: "Emicat aula potens, solido perfecta metallo, / quo sine nocte manet continuata dies" (Misc., I, 1; PL, LXXXVIII, col. 64C); "Sacra sepulcra tegunt Bibiani argentea tecta / [...] / Quo super effusum rutilans intermicat aurum, / et spargunt radios pura metalla suos. / Ingenio perfecta novo, tabulata coruscant, / artificemque putes hic animasse feras" (Misc., I, 12; ivi, col. 75A).Le meravigliose croci e i messali ricoperti d'oro, di gemme e cammei, entro chiese dove la luce penetra attraverso vetrate policrome, hanno un corrispettivo nei versi di s. Adelmo (sec. 8°): "Haec domus interius resplendet luce serena, / quam sol per vitreas illustrat forte fenestras, / limpida quadrato diffundens lumina templo. / Plurima basilicae sunt ornamenta recentis, / aurea contortis flavescunt pallia filis, / quae sunt altaris sacri velamina pulchra. / Aureus atque calix gemmis fulgescit opertus, / ut coelum rutilat stellis ardentibus aptum, / sic lata argento constat fabricata patena, / [...] / hic crucis ex auro splendescit lamina fulvo, / argentique simul gemmis ornata metalla" (De Basilica aedificata a Bugge; PL, LXXXIX, col. 290C-D).Il bello è concepito come luminoso e brillante, come emanazione della luce che è manifestazione di Dio; e la lucentezza vuol dire anche purezza di animo e di sentimenti, come ricorda l'abate Suger: "Unde, cum ex dilectione decoris domus Dei aliquando multicolor, gemmarum speciositas ab extrinsecis me curis devocaret, sanctarum etiam diversitatem virtutum de materialibus ad immaterialia transferendo, honesta meditatio insistere persuaderet [...]" (De administratione, XXXIII, 198; Panofsky, 19792, p. 62). Nella povertà dominante nei grigi villaggi medievali, la luminosa ricchezza delle chiese, con gli altari addobbati di stoffe preziose e gemme, con il fasto del cerimoniale, aveva la funzione di trasferire i fedeli in un altro mondo, pallida immagine e simbolo del mondo ultraterreno.È indubitabile che il concetto metafisico della luce quale emanazione divina, e quindi espressione di Dio in terra, va considerato uno dei motori portanti della concezione estetica medievale. Ma i precedenti vanno indietro nel tempo, ben oltre Plotino.La filosofia epicurea ha probabilmente offerto strumenti di lettura nuovi dei templa serena e delle sedes quietae degli dei, svelate al perfetto filosofo, come Lucrezio ricorda in versi sublimi: "Apparet divum numen sedes quietae / quas neque concutiunt venti nec nubila nimbis / aspergunt neque nix acri concreta pruina / cana cadens violat semper [que] innubilus aether / integit et large diffuso lumine ridet" (De rerum natura, III, vv. 18-22). Una volta azzurra, non oscurata da nuvole, e la luce che ricade a fiotti: l'immagine potrebbe altrettanto bene prefigurare l'apparato decorativo di una chiesa bizantina.L'immagine del palazzo degli dei si trasmette senza soluzione di continuità fino alle soglie del Tardo Antico, e di qui all'età medievale. E non si tratta di espedienti letterari. Già da tempo i sovrani greci di età ellenistica, e poi gli imperatori romani, nel tentativo di equipararsi agli dei, avevano trasferito concretamente lo sfarzo divino nei loro palazzi e nei padiglioni di piacere (Le tranquille dimore degli dei, 1986). Di questo lusso, molto spesso documentato per costruzioni effimere, restano scarsissime tracce: rapide descrizioni letterarie o riproduzioni pittoriche falsamente considerate inattendibili, per es. le fronti scenografiche della villa di Oplonti, di II stile, con capitelli e basi di bronzo dorato e racemi di acanto dorati che si allacciano alle colonne con pietre preziose inserite negli occhielli. I meravigliosi fondali scenografici su fondo oro di S. Giorgio a Salonicco (probabilmente fine sec. 5°) sono certamente un'immagine del paradiso e dei suoi palazzi dorati, dove i santi si pongono in assorta contemplazione e in atteggiamento di preghiera. Ricostruito mentalmente l'intero ordine della scena, con le tessere musive nella calotta e l'immagine centrale di Cristo in gloria con la croce in mano e circondato da angeli, appare chiaro che il concetto espresso nel mosaico di S. Giorgio deriva da una analoga mentalità, pur se trasferita in una concezione di assoluto rigore metafisico. Nulla di più falso del concetto che i cristiani accettassero queste architetture fantasiose dal mondo antico senza nessuna motivazione ideologica. Le decorazioni pittoriche di II o di IV stile pompeiano (ben note e imitate in tutto il Medioevo; Schwarz, 1989), che vogliono essere una imitazione 'povera' delle lussuose dimore regali, sono uno dei precedenti diretti; ma in realtà analogo è lo spirito che permea queste opere, il lusso come segno del divino.
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La più concreta manifestazione dell'eredità dell'arte classica nel mondo bizantino fu la sopravvivenza di un considerevole numero di statue, dipinti e mosaici antichi. Quando Costantino il Grande fondò la sua nuova capitale sul Bosforo la adornò con statue trasferite da altre città e santuari del suo impero e, almeno fino al regno di Giustiniano I, statue antiche continuarono a essere importate a Costantinopoli; si costituirono così anche importanti collezioni che furono riunite nelle terme di Zeuxippos (descritte da Cristodoro di Copto) e nel palazzo di Lauso. Un considerevole numero di queste sculture sopravvisse fino al tempo della conquista di Costantinopoli da parte dei crociati nel 1204. E se pure è vero che questo numero diminuì durante i secoli, anche a causa di vandalismi o di eventi rovinosi (il palazzo di Lauso fu raso al suolo da un incendio nel 475 e le terme di Zeuxippos andarono distrutte nello stesso modo nel 532), è stato nondimeno stimato che le statue antiche ancora esistenti nel periodo mediobizantino fossero oltre cento. Dal Medioevo queste statue divennero poi fonte di interesse tanto superstizioso quanto estetico: il testo conosciuto come Parastáseis Sýn tomoi Chronikái, che è in gran parte una collazione di scritti della prima metà del sec. 8°, forniva ai lettori una interpretazione delle statue di Costantinopoli non secondo criteri artistici, ma secondo i loro supposti poteri miracolosi. Un più raffinato resoconto sulle varie statue conservate nella città è costituito dal De signis di Niceta Coniate, autore di un lamento su diciotto antiche statue che nel 1204 furono distrutte dai crociati; tra di esse una figura di Ercole, opera di Lisippo, riprodotta su un cofanetto eburneo conservato nella cattedrale di Xanten presso Colonia (Dom-Mus. der Katholischen Kirchengemeinde St. Viktor; Maguire, 1977, pp. 135-136). Quantunque Niceta partecipasse del comune interesse bizantino per i poteri magici delle statue, la sua descrizione delle antiche sculture distrutte assume toni nostalgici ed è ricca di allusioni mitologiche.All'inizio del sec. 15° la statuaria antica era quasi del tutto scomparsa a Costantinopoli: i pochi pezzi superstiti furono descritti da Manuele Crisolora (1350-1415) secondo la prospettiva di uno studioso umanista che aveva soggiornato in Italia (Epistula ad Johannem imperatorem; PG, CLVI, coll. 23-54). Vi è qualche testimonianza che pitture e mosaici antichi fossero sopravvissuti anche durante il periodo mediobizantino, ma si trattava probabilmente di opere di epoca tardoantica, dei secc. 4° e 5° d.C., piuttosto che di età ellenistica. Lo scavo di una casa a Efeso ha rivelato, per es., che una stanza decorata con pitture murali databili tra i secc. 1° e 4° d.C. era ancora in uso nel sec. 7° (Kalavrezou-Maxeiner, 1985, p. 168). Un testo di uno scrittore bizantino del sec. 12°, Costantino Manasse, descrive dettagliatamente un mosaico parietale, databile probabilmente tra il sec. 5° e il 6°, che egli aveva visto in un palazzo imperiale (Maguire, 1987, pp. 74-75).Gli artisti del periodo mediobizantino continuarono a rappresentare soggetti antichi, ovvero i miti e gli eroi dell'Antichità, ma limitandone l'adozione a particolari contesti. Per es., miti pagani furono miniati in un gruppo di quattro manoscritti, databili fra il sec. 11° e il 12°, di commentari alle omelie di Gregorio Nazianzieno, testi attribuiti a Nonno (Gerusalemme, Greek Orthodox Patriarchate, Lib., Hághiu Táfu 14; Roma, BAV, gr. 1947; Athos, S. Pantaleimone, 6; Parigi, BN, Coislin 239); questi commentari furono scritti per spiegare ai lettori cristiani le allusioni di Gregorio ai soggetti dell'Antichità classica (Weitzmann, 1951, pp. 6-92). Le illustrazioni di un manoscritto del sec. 11° dei Cynegetica, un trattato sulla caccia con i cani dello pseudo-Oppiano, conservato a Venezia (Bibl. Naz. Marciana, gr. Z 479), riguardano ugualmente le allusioni mitologiche presenti nel testo (Weitzmann, 1951, pp. 93-151).Soggetti mitologici continuarono a essere inseriti anche nella decorazione di oggetti domestici, in particolare nei tessuti preislamici provenienti dall'Egitto, nell'argenteria dei secc. 6° e 7° (Kitzinger, 1977, pp. 107-109) e negli intagli in avorio e in osso su cassette prodotte a Costantinopoli dal sec. 10° al 12° (Weitzmann, 1951, pp. 152-188; Cutler, 1984-1985). Soggetti mitologici decorano anche una coppa vitrea del sec. 10° (Venezia; Tesoro di S. Marco): essa è ornata con sette medaglioni contenenti figure, dipinte in uno stile classicheggiante, che intendevano evidentemente evocare antiche divinità o eroi (Cutler, 1974; Kalavrezou-Maxeiner, 1985). Un calamaio d'argento, databile al sec. 9°-10° e conservato nel Tesoro del Duomo di Padova, fu ugualmente decorato con motivi classici a rilievo, come una testa di Gorgone finemente eseguita sul coperchio (Kalavrezou-Maxeiner, 1985). Mentre alcune di queste prime illustrazioni a soggetto mitologico, in particolare i rilievi su argenterie del sec. 6°-7°, rivelano di aderire all'arte antica sia nello stile, sia nello spirito, molti degli esempi più tardi, soprattutto gli intagli in avorio e in osso, presentano caratteri più giocosi e perfino grotteschi.Fonti letterarie attestano poi la presenza in larga scala di scene di mitologia classica e di storia antica sulle pareti di case e palazzi. Il poema popolare Digenìs Akrìtas, del sec. 10° o 11°, descriveva (VII, 85-93) un palazzo immaginario, edificato dal protagonista, che conteneva mosaici raffiguranti la guerra di Troia, le peregrinazioni di Odisseo, Bellerofonte che uccide la Chimera e le gesta di Alessandro. Un passo dello storico Giovanni Cinnamo ricorda che un generale del sec. 12° fece decorare la sua casa con pitture delle "antiche gesta degli Elleni" (Epitome, VI, 6).Nell'arte bizantina, sia pure in misura e modi diversi, rimase viva l'eredità ellenistica; essa comportava l'adozione di tecniche illusionistiche, come il modellato a chiaroscuro e le prospettive architettoniche, rappresentazioni di emozioni per mezzo di gesti e di espressioni del volto, nonché la resa di sfondi paesaggistici che creavano spazio e atmosfera intorno alle figure (Kitzinger, 1963). I diversi caratteri di questa eredità acquisirono di volta in volta maggiore o minore importanza: per es., in alcune miniature di manoscritti del sec. 10° è evidente l'interesse per lo studio di ambienti paesaggistici; in molte pitture della fine del sec. 12° vennero enfatizzate le emozioni dei personaggi, accentuando l'espressione del viso, mentre molti dipinti della seconda metà del sec. 13° mostrano un forte interesse per il modellato e la prospettiva.Le antiche tecniche furono impiegate dagli artisti bizantini non soltanto con interesse puramente antiquario; il loro linguaggio formale, infatti, fu finalizzato a trasmettere importanti messaggi ed ebbe, per es., un ruolo nell'esprimere in una sintesi visiva le due nature di Cristo. Nei dipinti raffiguranti il Cristo e la Vergine l'oro del fondo e dei panneggi fu considerato espressione della divinità di Cristo. La descrizione di Giovanni Eugenico (m. dopo il 1453) di un dipinto della Vergine con il Bambino rivelava un contrasto fra la tunica blu, che copriva il petto di Gesù, e il manto sovrapposto i cui riflessi dorati apparivano come raggi di sole: "Tutto questo è bello e non privo di saggezza", diceva l'autore bizantino, "l'unico Logos, Gesù Cristo, è adorno di due nature, come è scritto, la divina e l'umana" (Anecdota nova). Nelle immagini di Cristo e della Vergine, perciò, l'equilibrio di astratti riflessi dorati con panneggi modellati in altri colori poteva essere un modo per esprimere il dogma delle due nature. Lo stesso può dirsi dei gesti e delle espressioni del viso, giacché la presenza o l'assenza di valori emotivi all'interno della figura potrebbero significare l'umanità o la divinità del Cristo. Un'omelia del patriarca Fozio, che molto probabilmente descriveva il mosaico della Vergine posto nell'abside di Santa Sofia a Costantinopoli nell'867, spiegava come Maria fosse stata rappresentata "con lo sguardo di vergine e di madre insieme, distinguendo queste due nature nell'indivisibilità della sua figura [...] E infatti sebbene volga il viso, con tutto l'affetto del suo cuore, verso il fanciullo da lei generato, ella assume, atteggiando lo sguardo, quella disposizione d'animo distaccato e imperturbabile, vicina alla natura di suo figlio, impassibile e miracolosa" (Hom. XVII, II, 299). Questa è una chiara affermazione dell'abilità degli artisti bizantini nell'equilibrare aspetti emozionali e distaccati al fine di comunicare il mistero dell'incarnazione. Una testimonianza ancora più esplicita sulla funzione delle espressioni del volto può essere colta nella descrizione dei mosaici della chiesa dei Ss. Apostoli scritta da Nicola Mesarite fra il 1198 e il 1203. Riferendosi alla scena della Natività, egli descriveva la Vergine "distesa su un giaciglio [...] il volto ancora sofferente (sebbene ella sia sfuggita al dolore del travaglio del parto) proprio perché il dono dell'incarnazione non venga considerato con sospetto, come un artificio" (Ekphrasis; Kitzinger, 1963, p. 104). Anche gli sfondi paesaggistici per le scene religiose furono qualcosa di più di un semplice motivo decorativo. In alcune scene, per es., lo spunto paesaggistico poteva fungere da metafora di rinnovamento - come nei dipinti dell'Annunciazione, dove una natura rigogliosa evocava la rinascita della primavera - oppure di desolazione, come nelle scene del Compianto sul Cristo morto dove, talora, il paesaggio poteva essere del tutto privo di vegetazione o addirittura cosparso di fiori caduti (Maguire, 1981, pp. 42-52, 107-108). In entrambi i casi il dato paesaggistico rifletteva quel tipo di descrizioni consimili che si ritrovano in sermoni e inni. In altre circostanze esso poteva avere funzione celebrativa. Per es., un salterio del sec. 10° (Parigi, BN, gr. 139, c. 1v), quasi certamente di committenza imperiale, mostra re Davide intento a suonare in un paesaggio rigoglioso, ricco di reminescenze classiche, come per es. una fontana in forma di ninfa. Questa miniatura riecheggiava le ricercatezze formali dei panegirici contemporanei, come per es. un poema di Giovanni Ciriote Geometra (sec. 10°) che descriveva un imperatore come novello Orfeo, in un paesaggio ricolmo di suggestioni classiche, comprendente fontane raffiguranti le Grazie (Anecdota graeca). Esempi come questi inducono a concludere che la comparsa di forme antiche nell'arte bizantina denuncia un interesse che non si esaurisce in una dimensione di pura fruizione estetica, ma presenta innegabili raccordi storico-culturali.
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La relazione più ovvia fra l'Islam e l'Antichità, anche ai più semplici livelli delle forme 'fonetiche' (Grabar, 1973, trad. it., p. 258), è documentata dall'architettura. Nella Grande moschea di Damasco non esiste praticamente pietra la cui utilizzazione come materiale da costruzione non sia precedente alla formazione dell'Islam; tutte le colonne, i capitelli e probabilmente gli archi furono direttamente trasferiti dagli edifici antichi alle nuove costruzioni. Esempi di questo tipo sono abbastanza comuni dall'Eufrate fino all'Atlantico, dato che il materiale impiegato nei più antichi monumenti islamici, appartenendo in realtà alla Tarda Antichità o al primo periodo cristiano, non necessitava di alcuna ulteriore elaborazione. Il fenomeno può essere facilmente spiegato per i primi secoli del mondo musulmano; va però rilevato che esso non si esaurì con quest'epoca. Così, per es., in un celebre monumento di Damasco, il māristān di Nūr al-Dīn (sec. 12°), fu utilizzato un architrave classico. Il motivo tipicamente islamico a muqarnas che si trova al di sopra dell'architrave è basato sulle proporzioni di quest'ultimo, che tuttavia non fu riutilizzato allo scopo di farne il modulo della decorazione, ma semplicemente perché di fatto disponibile.Allo stesso modo, per la celebrata Grande moschea di Diyarbakır (Turchia orientale) venne messa in opera quasi una collezione di colonne tardoantiche e capitelli, dando vita a un insieme che per lungo tempo fu erroneamente ritenuto classico e il cui significato, probabilmente, è puramente ornamentale.Una più complessa relazione 'fonetica' si riscontra, durante il Medioevo, nello sviluppo urbano delle città siriane come Aleppo, Damasco, Gerusalemme e Latakia. All'inizio, tutte ebbero un impianto di tipo classico, sostanzialmente canonico, e, dal momento che in epoca medievale non furono apportate modifiche di particolare rilievo, l'assetto urbanistico originario non scomparve mai del tutto. I tracciati delle più importanti vie di Damasco o Gerusalemme ricalcano ancora quelli delle strade ellenistiche o romane, mentre ad Aleppo perfino alcuni aspetti della vita urbana, come l'ubicazione del bazar o dei quartieri, furono condizionati da modelli classici. In parecchie occasioni il mondo musulmano tese addirittura a ristabilire l'aspetto originario di alcuni monumenti che erano stati modificati durante l'epoca bizantina. Così, la forma esterna e le dimensioni della moschea di Damasco sono quelle del tempio romano originario, non alterato dall'impianto della chiesa di S. Giovanni Battista. Allo stesso modo, a Gerusalemme, la forma e l'assetto della spianata dello Ḥaram al-Sharīf sono quelli dell'antica disposizione del sec. 1°, ripristinati e restaurati con una certa consapevolezza dopo parecchi secoli. Tuttavia, l'obiettivo del mondo musulmano non fu quello di ripristinare un monumento classico in quanto tale, ma piuttosto quello di riutilizzare strutture architettoniche praticamente già disponibili. Un esempio calzante di questo processo è costituito dalla fortezza di Bosra, nella Siria meridionale, tipico caso di austera architettura militare medievale. Appena entrati, ci si trova dinanzi a un teatro romano intorno al quale fu costruita la cittadella del sec. 12°; nella fattispecie, il modulo della costruzione musulmana, l'elemento condizionante la sua intera forma, proviene dalla cultura classica, la cui funzione era però limitata nel mondo medievale a quella di 'spazio', piuttosto che di teatro.In tutti gli esempi citati si trovano, perciò, o elementi classici veri e propri o elementi modellati su forme classiche. Non sempre essi persero la loro funzione primitiva, sebbene quasi mai con una cosciente e piena comprensione delle loro origini, tranne che in termini estremamente vaghi di appartenenza a una dimensione appunto genericamente definita come 'vetusta', 'grande' o 'bella'.Tra i due estremi del trasferimento di semplici elementi costruttivi e del mantenimento, sia pure con modifiche, di entità architettoniche complete esiste tutta un'area di contatti diretti fra l'architettura islamica e la passata classicità. Questi consistono in motivi di origine antica che furono copiati in epoca medievale, senza peraltro conservare apparentemente il loro significato originario. È il caso per es. degli ingressi monumentali inquadrati da due torri, adottati nell'antica arte islamica per i palazzi o per i caravanserragli o, ancora, nella sistemazione di una piazza o di un cortile porticato, come elemento centrale dell'impianto architettonico. Per la maggior parte, questi esempi non sono stati ancora adeguatamente studiati ed è piuttosto difficile farlo in quest'ottica, dato che solo in pochi casi è documentabile l'intenzionalità nell'adozione delle forme classiche.Dal momento che l'architettura è strettamente connessa alla vita quotidiana e richiede una vasta conoscenza tecnica, non deve stupire il mero perpetuarsi di certe forme che rimasero pressoché inalterate, pur non essendo pienamente recepite nel loro significato. È forse più interessante notare come tale fenomeno ricorra anche nell'ambito di altre tecniche artistiche. Così, a Quṣayr ῾Amrā, il famoso palazzo eretto dagli Omayyadi nel deserto della Giordania, gli affreschi con le raffigurazioni astronomiche e le personificazioni astrali, ancora indicate con i nomi scritti in greco, sono copie dirette di modelli più antichi, classici o bizantini. Quṣayr ῾Amrā è un monumento del sec. 8°, ma un esemplare, realizzato nel sec. 13°, del De materia medica di Dioscoride, accanto a piante con forme stilizzate tipiche dell'epoca, ne mostra altre che appaiono subito copie superbe derivate dalla tradizione illusionistica classica (Istanbul, Topkapı Sarayı Müz., A. III 2127, cc. 80r, 252v). In un altro manoscritto contenente lo stesso testo e pressoché contemporaneo al primo compare un paesaggio nilotico (Istanbul, Topkapı Sarayı Müz., Ayasofya 3704, c. IV) ed è probabile che anche quest'immagine sia stata ispirata da un prototipo tardoclassico o bizantino.Una prima via attraverso la quale motivi classici penetrarono nel mondo musulmano consistette nel puro trasferimento di questi da un ambiente culturale all'altro. Non sembra che in ambito musulmano sia stato attribuito alcun significato particolare a tali modelli, sebbene essi siano stati impiegati in modi diversi; questa trasmissione di motivi continuò per vari secoli e non è limitata al solo inizio dell'età islamica.Un secondo tipo di relazione può essere definito 'morfemico' (Grabar, 1973, trad. it., pp. 259-260) in quanto è possibile attribuire significati precisi a quegli elementi che sono stati trasmessi e, in un certo numero di esempi, si può addirittura ricostruire il processo attraverso cui la trasmissione è avvenuta. Due tipi di decorazione architettonica, quali il mosaico pavimentale e la scultura monumentale, ampiamente documentati nel primo periodo islamico, possono ben illustrare la questione. Mosaici pavimentali si sono conservati in tre palazzi omayyadi: a Quṣayr ῾Amrā sono rimasti soltanto pochi frammenti, ma a Khirbat al-Minya e Khirbat al-Mafjar le campagne di scavo hanno riportato alla luce alcuni fra i più estesi mosaici di epoca omayyade; inoltre, uno dei due grandi dipinti pavimentali scoperti a Qaṣr al-Ḥayr al-Gharbī imita chiaramente il mosaico. È da notare che essi sono, in gran parte, di altissima qualità tecnica, mentre la maggioranza dei mosaici cristiani prodotti nei decenni che precedettero la conquista musulmana è piuttosto mediocre. Ciò si può facilmente spiegare con la ricchezza di mezzi a disposizione dei prìncipi islamici che potevano permettersi di affidare l'esecuzione delle opere alle migliori maestranze disponibili. Ma il punto nodale del problema sta nelle fonti da cui dipendono i temi iconografici che furono utilizzati nei primi mosaici islamici. Questi non possono essere considerati in alcun modo una commistione dei repertori esistenti nel secolo immediatamente precedente l'Islam, ma la predominanza di motivi geometrici e l'inclusione in uno di essi di una personificazione di stampo strettamente classico suggeriscono l'ipotesi di una scelta fra i modelli disponibili tesa forse a evitare confusione con la contemporanea arte musiva pavimentale cristiana. Inoltre alcuni soggetti a Khirbat al-Mafjar, come il magnifico albero con animali e l'eccezionale pannello che raffigura della frutta e un coltello, sembrano costituire temi nuovi. È possibile che questi fossero simboli del potere regale o si riferissero a cerimonie, per quanto si possa anche supporre che si tratti di 'neologismi', ovvero tentativi di esprimere qualcosa di immediatamente significante senza riscontro nel complesso linguaggio dei mosaici o delle immagini preislamiche in genere. Pertanto, da parte degli artisti omayyadi fu operata una scelta che, in quanto tale, presuppone che si attribuisse comunque un qualche senso sia agli elementi accettati sia a quelli rifiutati.I dati che emergono dall'esame dei mosaici pavimentali non permettono di trarre ulteriori conclusioni, ma la riconsiderazione della scultura, tecnica pressoché scomparsa nei secoli immediatamente precedenti la conquista islamica, offre la possibilità di approfondire il problema.La scultura omayyade è nota soprattutto grazie agli scavi di Qaṣr al-Ḥayr al-Gharbī e di Khirbat al-Mafjar. Si tratta, nella maggioranza dei casi, di sculture in stucco (tecnica non ricollegabile agli ambienti classico e bizantino) le cui tematiche e i cui aspetti stilistici sono solo in piccola parte riferibili all'arte della Siria e dell'area mediterranea. Se si eccettuano quei frammenti ispirati all'arte palmirena, le figure rappresentate come Atlanti, o quelle derivate dalla rappresentazione imperiale bizantina, la maggioranza delle sculture omayyadi si ispira, per stile e soggetto, a modelli di origine sasanide o centroasiatica.Al di là delle questioni specifiche poste dai singoli soggetti, il problema di fondo della scultura omayyade nel suo insieme sta nella ragione stessa del suo sviluppo complessivo. La spiegazione migliore è che essa attinse le proprie fonti d'ispirazione dall'esistenza, all'interno dell'impero musulmano, di ampi complessi monumentali di epoca classica. Sebbene i soggetti e perfino lo stile della scultura omayyade non fossero affatto classici, lo era di sicuro l'idea a essa sottesa. Nei secc. 12° e 13° si assistette a un risveglio della scultura in Iran, oltreché in Anatolia, e non sembra un caso che la scultura monumentale iranica sia riapparsa nel momento in cui il mondo musulmano conquistò un'altra provincia ricca di sculture classiche e di complessi architettonico-monumentali. Ancora una volta i temi classici rimangono rari, per quanto la monetazione dell'epoca riveli l'impatto con i modelli ellenistici; ma l'idea di una scultura monumentale può essere stata davvero l'esito della presenza di vasti complessi scultorei preislamici, sebbene in quest'epoca tarda altri fattori siano da prendere in considerazione, come l'arte della Georgia e quella della Armenia, nonché alcuni nuovi sviluppi nell'arte iranica.Il mondo musulmano si comportò in maniera opposta a quello bizantino, rispetto alla tradizione classica, raccogliendo proprio quelle tecniche e quei motivi che Bisanzio aveva rifiutato perché il loro significato era troppo esplicito. Anzi, la ragione specifica della loro adozione da parte della cultura islamica risiede proprio nel fatto che essi erano stati accantonati da Bisanzio e non erano entrati a far parte della sua cultura artistica. Del resto, i dati offerti dall'esame di mosaici e sculture risultano complementari; i mosaici pavimentali hanno avuto infatti una storia ininterrotta per secoli, ma quelli musulmani sul volgere del sec. 8° tendevano verso motivi anticheggianti più che nel periodo precedente, o, almeno, la scelta operata appare assai più intenzionale. La scultura, d'altro canto, riappare di fatto sotto l'influsso di quella antica, ma con forme e stile nuovi. Si può supporre dunque che l'obiettivo principale dell'arte voluta dai nuovi prìncipi musulmani fosse quello di rendere immediatamente visibili e comprensibili alle popolazioni conquistate il potere e la ricchezza raggiunti. A questo fine gli stessi prìncipi, che ancora non potevano vantare una cultura artistica propria, cercarono i loro modelli nelle tradizioni delle terre conquistate. In ogni caso, per quanto fosse comprensibile l'origine di queste loro creazioni, esse non dovevano essere confuse in nessun modo con le tradizioni artistiche o simboliche dell'ambiente cristiano di Bisanzio. Questo è il punto in cui entra in gioco il mondo classico. Il 'linguaggio' apparteneva all'intera area dell'impero a O dell'Eufrate, ma i suoi temi non erano più quelli comuni a quest'epoca. La scultura, dunque, riapparve perché si identificava con l'arte dei Cesari, ma i suoi temi furono completamente nuovi, dal momento che quelli antichi potevano solo occasionalmente adattarsi alle necessità iconografiche dei prìncipi musulmani. I mosaici pavimentali trovarono una continuità dal punto di vista tecnico, ma gli stili e i motivi risalenti al periodo immediatamente precedente all'islamizzazione furono in gran parte abbandonati perché erano troppo spesso legati alle ambizioni, al gusto e alle ideologie degli imperatori bizantini e della Chiesa. Pertanto, sarebbe assolutamente impossibile spiegare simili fenomeni come una forma di renovatio, alla maniera di quella carolingia, con il suo corredo ideologico di rinascita dell'impero dei Cesari. Al contrario di quanto avveniva per la trasmissione per così dire 'automatica' di certi temi, in questo caso ci si trova piuttosto dinanzi alla scelta cosciente in un vasto vocabolario di forme, una scelta che utilizza tecniche e motivi specifici e concreti trasformando il tutto al fine di esprimere qualcosa di nuovo.Con gli esempi della scultura e del mosaico pavimentale si sono evidenziate soltanto due tecniche in quanto tali. Tuttavia, la relazione intercorrente fra l'a. e l'Islam può anche essere illustrata a livello di 'morfemi', grazie ai temi di origine non islamica divenuti significanti in ambito musulmano, come dimostra chiaramente una serie di dettagli stilistici e iconografici. Per es., le quattro raffigurazioni pervenute di prìncipi omayyadi (Grabar, 1964, pp. 83-85, figg. 19-23) sono copie dirette di immagini cristiane o sasanidi: soltanto l'arte classica o quella della Tarda Antichità potevano significare autorità e potenza. Un altro esempio è costituito dai mosaici della Cupola della Roccia a Gerusalemme o da quelli della Grande moschea di Damasco. In quest'ultimo caso, l'ambiente stilistico cui attinsero queste immagini è sufficientemente chiaro: tanto la tradizione illusionistica di origine pompeiana quanto i più articolati e decorativi insiemi dell'arte bizantina del sec. 6° furono utilizzati per creare un elaborato panorama di alberi, edifici e diversi generi di paesaggio. Recenti studi (Brisch, 1988) hanno dimostrato che queste immagini illustrano una sorta di visione paradisiaca di un mondo perfetto, regolato dalla nuova fede. Sebbene non del tutto assente in certune rappresentazioni di architettura e di paesaggio antiche e cristiane, questo significato particolare risultava comunque secondario in quegli ambiti e gli stessi motivi erano visibili, in genere, solo sullo sfondo, non costituendosi certo come soggetto principale dell'opera. In altre parole, se in questo caso la forma risulta ancora classica, i significati però sono già completamente islamici.Un ulteriore aspetto di questo stesso fenomeno ricorre, in maniera ancora più semplice, nei frontespizi o nei colophon dei codici del 13° secolo. Il motivo pienamente classico o bizantino del ritratto dell'autore ritorna piuttosto di frequente, ma nella quasi totalità dei casi è stato aggiunto qualche elemento per differenziare la versione musulmana. Così un turbante o vesti adatte bastano a trasformare Dioscoride in un 'borghese' arabo del tempo, oppure è l'intera composizione a riflettere le nuove regole dell'arte ornamentale musulmana.Un ultimo gruppo di esempi documenta un altro aspetto di questo problema. Uno degli avvenimenti più interessanti della seconda metà del sec. 11° fu la nascita, in Egitto, della ceramica a lustro, che presenta un gran numero di soggetti a carattere figurativo. Gran parte di questi non sono che varianti di un vocabolario di motivi puramente islamici, anche se una delle loro caratteristiche è la comparsa di soggetti di carattere folclorico, piuttosto rari a quell'epoca. Ma l'elemento particolare di queste ceramiche è che alcune di esse presentano stilemi fino ad allora del tutto sconosciuti: si manifesta interesse per la rappresentazione del corpo, anche nudo, si escogitano sistemi per dare il senso del volume sia attraverso variazioni nella tonalità dei colori sia con l'espediente di lumeggiare maggiormente certe parti del corpo, come il petto, il ventre, i fianchi, le ginocchia. Nello stesso tempo, un altro gruppo di ceramiche mostra uno stile lineare, paragonabile a quello delle ceramiche antiche, che si basa sul contrasto fra la linea di contorno e il fondo. La tecnica delle lumeggiature, d'altra parte, è tipica di certi manoscritti bizantini del sec. 10° e dei successivi.Per spiegare questo fenomeno non è sufficiente ipotizzare una preminenza della comunità cristiana d'Egitto, in quanto simili caratteristiche non appartengono all'arte copta. Si possono piuttosto supporre altri due motivi: uno è che durante il periodo fatimide l'Egitto era il centro di un movimento commerciale estremamente attivo esteso all'intero Mediterraneo e talvolta anche oltre, mentre i contatti con culture più antiche, forse attraverso Bisanzio, furono particolarmente numerosi; l'altro motivo risiede in un avvenimento specifico che ebbe luogo intorno alla metà del sec. 11°, il famoso saccheggio dei palazzi fatimidi della Siria da parte delle truppe turche. Fortunatamente l'elenco degli oggetti saccheggiati si è conservato e quando lo si confronta con quello dei doni ricevuti dai califfi fatimidi nel corso del primo secolo del loro regno (969-1171) il paragone conduce a risultati piuttosto interessanti: la maggior parte degli oggetti più importanti e preziosi in possesso dei califfi fatimidi era di origine o di manifattura bizantina o antica. Un elenco parziale di questi oggetti include frecce d'oro tempestate di pietre preziose, bottiglie di cristallo incrostate d'argento con alla sommità un leone di cristallo, un ramo di palma in argento dorato con figure incise di passeri, un altro con i manici in forma di pavone, broccati di ogni specie, perfino un abito di seta con l'immagine di un re persiano che tiene in mano uno stendardo e infine una sella che, almeno secondo il messo bizantino che la portò, doveva essere appartenuta ad Alessandro Magno.Questo elenco mostra prima di tutto che, a quel tempo, come probabilmente in tutte le epoche, l'arte della famiglia dei prìncipi era condivisa e accettata da tutte le più importanti dinastie regnanti del tempo. Sono forse questi oggetti provenienti da saccheggi che spiegano come l'arte bizantina, che continuava antiche tradizioni e probabilmente conservava oggetti antichi, influenzasse l'arte ceramica della 'borghesia' egiziana. Molti altri esempi si potrebbero addurre per illustrare quest'interesse specificamente fatimide per le forme bizantine e antiche. È perfino possibile sostenere che parecchi degli aspetti classici e orientalizzanti dell'arte dell'Italia meridionale della seconda metà del sec. 11° sarebbero derivati da questa realtà islamica, piuttosto che dall'immediato contatto dell'Italia con il proprio passato. Gli esempi riportati presentano caratteristiche diverse. Sebbene vadano dal tardo sec. 7° fino al 13°, tutti testimoniano relazioni con l'arte classica, anche se in ognuno di essi la relazione riguarda solo un singolo aspetto, che può consistere nell'utilizzazione di una tecnica, in un motivo iconografico o in un espediente stilistico. In tutti gli esempi al tema viene conferito un intendimento coerentemente e completamente islamico e in quasi tutti i casi si può fornire una spiegazione per l'aspetto classicheggiante del monumento. Questa scelta cosciente e determinata caratterizzò tali forme che a causa del significato connesso con ciascuna di esse si possono chiamare 'morfemiche' (Grabar, 1973). Il processo continuò per secoli ed è assai singolare, ma indicativo, che quel superbo cammeo noto come Tazza Farnese venga riprodotto per la prima volta in un disegno persiano dell'inizio del 15° secolo.La maggior parte degli esempi è relativa alle tecniche di decorazione o di rappresentazione e non riguarda l'architettura poiché è assai più difficile individuare tali 'morfemi' negli edifici. Nella Grande moschea di Damasco l'originalità 'significante' o 'morfemica' della costruzione risiede nella struttura stessa della moschea, ossia nella connessione reciproca fra le parti, e non nei suoi elementi costruttivi. Lo sviluppo della sala basilicale, da Khirbat al-Minya in Palestina (primi del sec. 8°) a Madīnat al-Zahrā' in Spagna (sec. 10°) o ai vari palazzi del sec. 11° nell'Africa settentrionale, mostra che l'Islam assunse certe unità 'significanti' dall'architettura tardoantica quasi senza modificarle per forma o significato e poi le sviluppò coerentemente. Tuttavia, il grado di consapevolezza di certe trasposizioni è a volte incerto. Da un punto di vista formale, la sala termale di Khirbat al-Mafjar, quasi unica nel suo genere, con la cupola centrale circondata da due ambulacri a volta, deve essere considerata come una forma di tipo tardoclassico che sarebbe stata adottata dalla nuova cultura; l'architettura civile musulmana può dunque servire a illustrare tipologie architettoniche classiche oggi perdute, sebbene ci siano non pochi problemi per ogni singolo esempio, come nel caso del triconco.Il terzo tipo di rapporto fra la cultura islamica e quella classica è quello 'semantico' o simbolico. In questo caso si supera il livello puramente formale per entrare nel merito del significato. Lo studio del significato delle forme è ancora agli albori per l'arte islamica e concerne generalmente la relazione tra l'evidenza monumentale e altri documenti, che possono andare da elementi strettamente formali fino al complicato folclore delle idee prevalenti di ogni epoca.Ci si limiterà a un solo esempio: l'Alhambra di Granada. Due caratteristiche del palazzo sono particolarmente significative. Una è la celebrata fontana dei Leoni: qui tanto l'elemento formale dei leoni che sostengono una fontana, quanto quello della divisione dell'acqua in quattro canali, con implicazione 'paradisiaca' consueta nei tappeti e nelle miniature, sono 'tipi', cioè elementi formali consolidati ai quali, a priori, non è necessario attribuire alcun significato profondo. L'iscrizione della fontana, comunque, enfatizza un tema particolare: "la fontana assomiglia alla mano del califfo quando profonde sostegno ai leoni della guerra santa". Grazie all'iscrizione, a un 'tipo' formale è attribuito un concreto significato di vittoria ed è possibile collegare la costruzione della fontana a uno dei rari episodi di vittoria dell'Islam sulla cristianità nel sec. 14° in Spagna. Ma è possibile fare ancora un altro passo avanti: i leoni della fontana dell'Alhambra possono essere connessi a un poema scritto dal poeta ebreo Ibn Gabirol. In quest'opera si trova la descrizione di una fontana: "E c'è nel palazzo il mare intero che somiglia al mare di Salomone, pur non riposando su buoi. Ma ci son leoni schierati in falange alla sua riva che sembrano ruggire alla preda [...] i loro petti son simili alle fonti che sprizzan fuori dalle loro bocche e le loro terga poggiano nei solchi scavati dall'acqua che sgorga" (Grabar, 1978, pp. 147-148). Questa fontana appare dunque come un'illustrazione del mito medievale, assai diffuso, del palazzo di Salomone, la cui presenza può essere dimostrata nelle costruzioni giustinianee, in quelle di Hārūn al-Rashīd o nella descrizione redatta da Desiderio dell'edificio da lui fatto costruire a Montecassino.Ciascuno dei cortili dell'Alhambra conduce a uno o più ambienti cupolati. Subito fuori del cortile dei Mirti si trova la grande cupola lignea degli Ambasciatori con i suoi motivi a stella che ruotano intorno al centro a forma di piccola stalattite. Accanto al cortile dei Leoni sono due cupole: quella della sala delle Due sorelle, una magnifica costruzione a pianta ottagonale a stalattiti con un anello di luce sotto la cupola, e poi una complessa composizione di unità poliedriche, sistemate in maniera quasi perfettamente simmetrica nella loro composizione globale, ma così numerose e a livelli di profondità così diversi che la simmetria tende a perdersi in un gioco senza fine di luce e ombra, di superfici e forme curve e piane. Parallelamente la cupola della sala degli Abencerrajes presenta il medesimo tipo di costruzione o modulo stellare. Dal punto di vista tecnico, qui ci si trova dinanzi a un tour de force, dove una massa apparentemente enorme sembra non essere tenuta da alcun sostegno. Quest'effetto si ottiene con un uso assai sofisticato della singola unità tridimensionale conosciuta come muqarnas, la cui storia, d'altra parte, può essere tracciata a partire dal sec. 9° o 10° e la cui origine islamica è indubbia. Eppure, anche qui c'è un ulteriore livello interpretativo. Tutte le cupole dell'Alhambra presentano iscrizioni tratte dai poemi di Ibn Zamrak composti specificamente per queste. Nella cupola degli Ambasciatori è la cupola a dire di se stessa: "[...] se i miei simboli rappresentano le costellazioni del suo [della sala] cielo, allora in me è la grandezza del sole, perché il re mio signore mi ha coperto con vesti di orgoglio e di perfettissima arte, egli fece di me la sede del suo trono e del suo impero". Troviamo poi una citazione dal Corano (LXVII, 1-3): "Sia benedetto Colui nelle cui mani è il Regno, ed Egli è sovra a tutte le cose potente! [...] Colui che creò sette cieli l'uno sull'altro, e tu [indirizzato qui al Profeta Maometto omonimo di uno dei costruttori dell'Alhambra] non puoi scorgere nella creazione del Misericordioso ineguaglianza alcuna. Volgi in alto la vista: vedi tu fenditure?". Abbiamo qui la visione di un microcosmo, quasi di una creazione divina, i cui cieli prendono il posto dei cieli reali.Nella sala delle Due sorelle, si trovano altri frammenti poetici: "Le Pleiadi la servono [la cupola] come amuleti; / la brezza la difende con la sua magia; / di notte la cupola è brillante [...] / la Luna conversa con lei; / le stelle vi sono incastonate, servendola / come schiave [...]".Nel poema di Ibn Gabirol c'era il seguente passo: "La cupola è come il Palanchino di Salomone / sospeso sugli splendori della stanza / che ruota nella sua circonferenza / splendendo come rubino e zaffiro e perla. / Così è di giorno, mentre al crepuscolo assomiglia / al cielo le cui stelle formano costellazioni".Queste cupole sono, di tutta l'architettura del Tardo Medioevo, quelle che più chiaramente e nel modo più palese si identificano con le cupole del cielo. Nelle cupole a stalattiti, poi, non soltanto la superficie è frammentata e la sua ulteriore suddivisione in parte nascosta o almeno non sempre interamente visibile da un unico punto di vista, ma l'intera cupola fu progettata per essere percepita come rotante; con il mutare dell'inclinazione dei raggi solari ne viene infatti illuminata sempre una nuova parte. Come accade nella cosmografia medievale, la configurazione dei cieli rimane la stessa, mentre varia la visione; la rotazione non è ottenuta attraverso mezzi meccanici, ma grazie all'utilizzo della luce in un originale sistema decorativo.Questo particolare espendiente poté essere davvero nuovo nell'Alhambra, ma l'idea che gli è sottesa e l'interpretazione che ne è data risalgono fino alla Domus Aurea di Nerone o ai troni sasanidi e appartengono a quella koinè di immagini e di idee che permeava i palazzi fin dall'Antichità. Se l'Alhambra sia un caso unico o se esistano ancora altri esempi di continuità semantica è questione ancora da approfondire.
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