ANTIFONARIO
Il sostantivo lat. antiphonarius (maschile) o antiphonale (neutro), deriva da antiphona e designa la raccolta di antifone dell'ufficio e a volte anche - con una specificazione, per es. antiphonale missarum - la raccolta di canti della messa o graduale. Il termine antiphonarius comparve alla fine del sec. 8° (mentre il vocabolo antiphona è già presente cinque secoli prima nella letteratura latina) e si trova nei cataloghi delle biblioteche carolinge, a Reichenau e a Saint-Wandrille; poi, nel sec. 9°, a Saint-Riquier in Piccardia, a Colonia e a San Gallo. A Corbie, Amalario poté consultare gli a. romani offerti all'abate Wala (822-835), che risalivano a papa Adriano I (772-795). Secondo il diacono Giovanni, biografo di s. Gregorio Magno, nella casa del papa al clivus Scauri si conservava l'a. scritto e annotato di suo pugno (Vita Gregorii, II, 6; PL, LXXV, col. 90).L'a. è un libro liturgico 'ufficiale', il tertius officialis liber secondo l'espressione di Agobardo di Lione (830 ca.); esso era quindi affidato all'attenta sorveglianza del vescovo. In un Ordo synodi del sec. 10° si prescrive al pastore della diocesi di controllare che i sacerdoti conoscano a memoria il salterio e soprattutto che sappiano eseguire i canti dell'antifonario. Nel sec. 12° il Decretum Gratiani enumera i libri necessari al ministero pastorale, il sacramentario, il lezionario, l'a., il rituale e altri. Secondo Amalario (De ordine antiphonarii; PL, CV, col. 1245) l'a. un tempo avrebbe contenuto non solo le antifone dell'ufficio, ma anche quelle della messa, vale a dire introito e comunione, mentre i responsori sarebbero stati raccolti nel responsoriale. Questa indicazione, abbastanza sorprendente, per quanto confermata da un lettera del 760 ca. di papa Paolo I (Ep. 24; MGH. Epist., III, 1892, p. 529), va forse interpretata come una soluzione di transizione fra il più antico sistema romano, osservato anche nelle liturgie ambrosiane e ispaniche, e il sistema che è prevalso in seguito per i componimenti del canto gregoriano: separazione dei canti della messa - riportati nel graduale - da quelli dell'ufficio divino, trascritti nell'antifonario.La tradizionale attribuzione dell'a. a Gregorio Magno, dovuta al diacono Giovanni, trovò eco nel prologo in versi che precede gli a., come quello di Lucca (Lucca, Bibl. Capitolare, 601) o nelle miniature che rappresentano s. Gregorio mentre trascrive, sotto l'ispirazione dello Spirito Santo, le melodie liturgiche, come nell'A. di Hartker di San Gallo (Stiftsbibl., 390-391, fine del sec. 10°). Il cambiamento di terminologia constatato alla fine del sec. 8°, quando l'espressione cantus sancti Gregorii sostituì a poco a poco quella di cantus romanus, corrispose senza dubbio a un mutamento del canto stesso, vale a dire al passaggio dal canto detto vetus romanus o basilicale al canto gregoriano così come è arrivato fino a oggi. Questo mutamento dovrebbe collocarsi intorno al 780, all'epoca in cui comparvero i primi tonari che classificavano le antifone dell'ufficio e della messa secondo otto toni. L'attribuzione del nuovo tipo di canto a s. Gregorio era necessaria per accreditarlo; nel Medioevo, infatti, nella liturgia, nel diritto canonico e in teologia era necessaria una auctoritas per dare valore giuridico e autenticità a usanze e opinioni.Nel sec. 9° l'a. conteneva generalmente tutti i canti dell'anno liturgico ordinati in uffici secondo il calendario ecclesiastico: Avvento, Natale, Epifania, Settuagesima, Quaresima, Tempo pasquale. Per le domeniche del tempo ordinario fu necessario separare, da un lato, i responsori - elencati secondo i mesi (da luglio a novembre) in concordanza con i libri della Bibbia letti in estate e in autunno nell'ufficio notturno - e, dall'altro, le antifone del Benedictus e del Magnificat, tratte dai Vangeli delle ventitré domeniche dopo la Pentecoste. I canti scelti per le feste dei santi sono in parte mescolati con quelli delle feste di Cristo che appartengono al temporale. Alla fine dell'a. è generalmente trascritto il commune sanctorum. Secondo la destinazione, gli a. si dividono in due grandi categorie: gli a. secolari e gli a. monastici. La distinzione è basata sul numero dei componimenti negli uffici notturni, nelle ore minori (prima, terza, sesta e nona) e infine nei vespri. Gli a. secolari a uso dei chierici, dei canonici o dei frati degli Ordini mendicanti del sec. 13° contengono nove antifone e nove responsori notturni (tre gruppi di tre), un responsorio breve nelle ore minori e cinque salmi per i vespri. Gli a. monastici a uso dei Benedettini, dei Cistercensi o dei Certosini constano di dodici antifone notturne e di dodici responsori (tre gruppi di quattro), nessun responsorio breve per le ore minori e solo quattro salmi per i vespri.Nessuno dei testi dei canti trascritti nell'a. comporta notazioni musicali; solo nel sec. 10° si cominciarono a usare sistematicamente gli accenti e i segni prosodici raggruppati in neumi per tentare di fissare sulla pergamena la melodia e il ritmo del canto gregoriano. Questo sistema di notazione facilitava lo sforzo di memorizzazione delle melodie, senza peraltro sopprimerlo del tutto. Più tardi, verso il 1030, grazie alla geniale invenzione del tetragramma colorato dovuta al camaldolese Guido d'Arezzo, la notazione musicale precisa permise ai cantori di completare la preparazione in tre mesi invece che in dieci anni. Tuttavia, la questione più importante nel campo della melodia non è la notazione, ma la distinzione in due grandi gruppi, quello dei paesi di lingua germanica e quello dei paesi di lingua latina, che emerge prendendo in considerazione sia le varianti melodiche dell'a. sia le liste dei versetti dei responsori notturni, sia ancora la serie dei versetti dell'Alleluia del graduale. L'Italia del Nord e l'Inghilterra si riconducevano spesso ora all'uno ora all'altro dei due gruppi.Fin dal sec. 9°, l'a. ricevette delle aggiunte sotto forma di uffici specifici composti in onore dei santi patroni di diocesi o di abbazie (ufficio di s. Benedetto, ufficio di s. Remigio, ufficio di s. Dionigi, ecc.). Ubaldo di Saint-Amand e Stefano di Liegi misero a punto un procedimento di composizione musicale che teneva curiosamente conto dell'ordine numerico dei componimenti di questi nuovi uffici: prima antifona e primo responsorio della prima tonalità, seconda antifona e secondo responsorio della seconda tonalità e così via. È facile capire il disordine che un tale modo di procedere comportava quando un ufficio secolare a nove responsori veniva adattato all'uso monastico che ne prevedeva dodici.Le differenze nella scelta dei versetti dei responsori delle chiese di Francia avevano preoccupato Elisachar e Amalario; intorno alla metà del sec. 9° entrambi tentarono di apportare all'a. delle modifiche, le cui tracce possono ancora essere scoperte nella tradizione manoscritta attuale. A Lione Agobardo e il diacono Floro eliminarono dall'a. le parti che non erano tratte dalle Scritture: questa riforma è ancora ben visibile nell'a. di Lione e in quello dei Certosini, dove non è contenuto nessun testo derivato dagli Inni o da composizioni ecclesiastiche anonime. A Cluny si tenne conto solo in parte delle critiche di Agobardo ad alcune parti dell'a., come per es. il responsorio Descendit di Natale, che venne emendato nei punti da lui discussi; tali ritocchi vennero diffusi per tutti i monasteri della congregazione. Infine, per la domenica di Pasqua, i Cluniacensi ripresero l'uso monastico delle veglie notturne a dodici responsori per conformarsi alla regola dei Benedettini, mentre questi, già dopo il Capitulare monasticum di Aquisgrana dell'817, seguivano l'uso secolare di un solo notturno a tre responsori. In ogni caso, i monasteri benedettini, benché affiliati a Cluny, mantenevano spesso i loro usi liturgici specifici. All'uniformità totale nell'uso dell'a. in campo monastico si giunse solo dopo il sec. 12°, quando i Cistercensi crearono il sistema di copie da un esemplare unico, conservato a Cîteaux, normativo per la correzione di tutti i libri liturgici. Questo codice sussiste ancora oggi conservato a Digione (Bibl. Mun.), mancante tuttavia dei due libri con le notazioni, il graduale e l'a., probabilmente utilizzati per la stampa di questi testi nel 16° secolo.Dalla metà del sec. 12° i graduali e gli a. del Sud della Francia, con la notazione a punti sovrapposti secondo il sistema aquitano, avevano già acquisito le dimensioni del libro da leggìo, anche se la scrittura microscopica del testo e la notazione per punti su una sola linea tracciata a punta secca ne rendevano assolutamente impossibile la lettura a distanza. Si tratta di libri di grande formato (cm. 4027 ca.) sicuramente collocati nel coro, a uso del cantore. Nel sec. 13° nei libri con la notazione musicale delle cattedrali e in quelli degli Ordini mendicanti è evidente l'evoluzione dell'a., da 'manuale', a libro da leggìo. Si continuava certo a cantare interamente a memoria, ma sul leggìo che poggiava sopra il dossale degli stalli bassi ai due lati del coro era aperto un a. davanti al cantore ebdomadario: così ad Aquileia, nell'antica basilica patriarcale, o nel duomo di Aquisgrana e nella maggior parte delle grandi cattedrali, come pure nelle chiese degli Ordini religiosi. Nei grandi libri del coro del sec. 15°, o corali, di formato in folio, le dimensioni del tetragramma di quattro linee rosse su cui l'amanuense tracciava le note quadrate giunsero a superare 7ampiamente i cm. 3.I libri dei Canonici agostiniani di Roma, in particolare quelli del Laterano, contribuirono all'elaborazione dell'a. e, in seguito, del breviario della Curia romana sotto Innocenzo III (1198-1216); quest'ultimo fu adottato fin dagli inizi, nel 1223, dai Frati Minori. Con il papa Nicolò III, eletto nel 1277, il breviario dei Frati Minori diventò quello ufficiale della Chiesa romana. Non si conosce l'a. dei Frati Minori, unificato nel 1254, se non da fonti indirette quali il trattato di canto di Amero, prete inglese della legazione del cardinale Ottoboni nel 1271, e l'a. stampato a Venezia nel 1500, la cui prefazione fu scritta dal francescano Francesco da Bruges. La storia dell'a. romano si conclude con la restituzione della lezione originale, effettuata da una commissione internazionale di specialisti nominata da Pio X e pubblicata nel 1912, mentre l'a. monastico venne ristampato nel 1934.
Bibl.:
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Nel periodo altomedievale, l'a., privo ancora di notazione o fornito di scarse indicazioni neumatiche, non risulta tra i libri privilegiati per l'illustrazione avvalendosi semplicemente dell'ornato litterale usato per gli altri libri liturgici. Ma non mancano illustrazioni più complesse, come per es. nell'a. di Hartker (San Gallo, Stiftsbibl., 390-391, c. 13r, sec. 10°) dove una miniatura a piena pagina rappresenta s. Gregorio Magno ispirato dallo Spirito Santo per comporre le melodie dell'a.; una seconda pagina mostra Hartker, mentre recluso copia l'a. che porta il suo nome.Nel periodo romanico si inizia, seppur raramente, a rappresentare nelle iniziali i santi di cui si celebra la festa (Lucca, Bibl. Capitolare, 601 e 602, sec. 12°) o a esibire le feste cristiane e gli episodi delle vite dei santi in spazi lasciati appositamente vuoti tra i singoli uffici (Piacenza, Bibl. Capitolare, Codice Magno, metà sec. 12°).Il grande a., completamente corredato da notazione quadrata su tetragrammi e ampiamente miniato, fu realizzato soprattutto in Italia nella seconda metà del Duecento ed è sostanzialmente riconducibile all'espansione degli Ordini mendicanti. Francescani e Domenicani infatti, dopo aver stabilito, nei rispettivi capitoli generali del 1254 e del 1256, l'ordo del loro breviario, esemplato su quello della Curia romana, si trovarono nella necessità di dotare le loro comunità di corretti libri di coro. Contemporaneamente, l'assunzione da parte delle chiese diocesane del breviario romano, nella forma codificata dall'Ordine francescano, indusse analoga esigenza presso cattedrali e collegiate. L'adozione del grande formato si deve probabilmente a una imitazione delle bibbie e dei lezionari atlantici, ampiamente in uso durante il periodo romanico per la lettura comunitaria, in ordine all'opportunità di fornire, con una, ben spaziata notazione e con parole di grandi dimensioni, una facile lettura a cantores ormai non più avvezzi al faticoso e diuturno esercizio necessario a una completa ritenzione mnemonica dei testi. L'ampia spaziatura dello scritto e della musica fece sì che non fosse più sufficiente un solo a. per tutto l'anno e per tutti gli uffici, ma che se ne dovessero realizzare due o più destinati ai diversi periodi liturgici e agli uffici del tempo (temporale), dei santi (santorale), del comune.Comunemente il corale veniva notato e scritto presso lo scriptorium del convento o della chiesa dove soprattutto operatori laici venivano chiamati a eseguire le miniature. Il sistema illustrativo fin dall'inizio prevedeva che nelle iniziali maggiori, poste a capo dell'antifona delle lodi nel diurno e del responsorio del mattutino nel notturno, venissero rappresentate le feste cristiane corrispondenti al testo oppure, per il santorale, figure di santi o episodi della loro vita. Le lettere vennero corredate da un ornato fogliaceo, più o meno stilizzato, proteso spesso nei margini in fregi più o meno lunghi. Una precisa gerarchia stabiliva, a seconda dell'importanza delle feste, la maggiore o minore ampiezza decorativa delle singole iniziali. Le lettere minori, a capo di ciascuna parte dell'officio, erano solitamente miniate de penna, in inchiostri, con filigrane a mano libera o a stampo.La ricchezza dell'illustrazione va riconnessa da un lato alla lezione variata e monumentale della contemporanea pittura italiana e dall'altro, in parte, anche alla spiritualità stessa degli Ordini mendicanti. A parte la crisi trecentesca dell'Ordine, non fu un caso che la spiritualità benedettina, fondata sulla lettura biblica, non provocasse in periodo medievale una committenza di corali miniati degna di rilievo, se non dalla seconda metà del sec. 14° e a opera di congregazioni precocemente riformate come gli Olivetani e i Camaldolesi. La facies primitiva degli a. miniati italiani, in senso soprattutto stilistico e cronologico, è costituita da un nutrito gruppo di esemplari che esibisce iniziali sobriamente narrative, ancora assai radicate nella tradizione romanico-bizantina, ma percorse ormai da umori gotici, con figure di scarsa valenza plastica e a colori smorzati. Tale linguaggio mostra di trovare origini a Bologna ancora negli anni sessanta del sec. 13°, interpretando in chiave più corsiva quello delle bibbie contemporanee (Bologna, Mus. Civ. Medievale, prima serie di S. Domenico e A. delle Domenicane di S. Maria di Valdipietra, 1260-1270), diffondendosi poi in Toscana e in Umbria ove si colorò di una severità più austera, indotta dalle esperienze pittoriche locali, negli esemplari di S. Francesco a Cortona (Bibl. Com., 1270 ca.), di S. Maria dei Servi a Siena (1271), di S. Maria Novella a Firenze (1280 ca.), del duomo di Grosseto (1280 ca.), di S. Domenico a Gubbio (Arch. di Stato, 1285-1290), di S. Romano a Lucca (Bibl. Statale, 1290 ca.).In posizione isolata Venezia esprime, in un a. di S. Marco (coll. privata), un linguaggio legato al substrato romanico-padano e d'altra parte intriso di spiriti mediterranei. Quasi contemporaneamente tuttavia cominciarono a configurarsi manifestazioni più moderne. Mentre a Bologna la fervida stagione di aulico ma pur veemente recupero neoellenizzante espresse i vigorosi a. di S. Francesco attribuiti al 'miniatore di Gerona' (Bologna, Mus. Civ. Medievale, 1275-1280) e quelli più pacati di S. Maria dei Servi (1280 ca.), in Umbria l'esperienza assisiate di Cimabue e dei maestri romani intervenne a conferire nuovo nerbo e più sostenuta espressività formale agli a. di S. Domenico di Spoleto (Perugia, Bibl. Augusta, 1280-1290), di S. Pietro di Gubbio (Arch. di Stato, 1290 ca.), del primo S. Domenico di Perugia (Bibl. Augusta, 1290 ca.) e, con cadenze più gotiche, di S. Francesco ad Assisi (Bibl. Com., 1290 ca.).Una nobile cultura coppiano-guidesca, qua e là intrisa di umori cimabueschi, si legge negli a. notturni del duomo di Siena (Mus. dell'Opera della Metropolitana) e nell'a. della Pieve d'Arezzo (1285-1290), mentre la lezione giottesco-assisiate già precorre, con una nuova misura umana e schiarita pienezza plastica, gli a. del convento di S. Nicola a Pisa di mano certo senese per la squisita raffinatezza, forse di Memmo di Filippuccio (Pisa, Mus. Naz. e Civ. di S. Matteo, 1290-1300). Già dal primo quarto del Trecento senese, la lezione di Giotto e dei suoi interpreti divenne il punto di riferimento per il configurarsi della miniatura italiana e quindi anche quella 'a misura grande' dei corali. La cappella degli Scrovegni dettò iconografia e stile, in chiave bolognesizzante, agli a. della cattedrale di Padova (Bibl. Capitolare, primo o secondo decennio del sec. 14°). In quelli del duomo di Faenza (1309) e nel più tardo di S. Francesco a Bologna (Mus. Civ. Medievale, 1314), Neri da Rimini interpreta con nobile misura il plasticismo e l'umanità di Giotto, alla luce del neoellenismo bolognese; a Bologna, la grande serie degli a. di S. Domenico (secondo decennio del sec. 14°) denuncia, con inflessioni diverse nei singoli maestri (Maestro del Graziano di Napoli, Terzo maestro di S. Domenico, Maestro del 1328), un accoglimento della plastica giottesca filtrato attraverso la passionale veemenza della tradizione neobizantina locale. A Perugia, invece, nei corali del nuovo S. Domenico (Bibl. Augusta, primo decennio del sec. 14°) e del duomo di S. Lorenzo (Mus. Capitolare, 1320 o ante) un gruppo di straordinaria personalità - Primo, Secondo e Terzo miniatore perugino (supposto Marino da Perugia) - declina il giottismo assisiate alla luce di forti persistenze espressive cimabuesche e di nuove valenze gotiche, con un raffinatissimo ed esuberante codice decorativo di radice classicheggiante. A Firenze un miniatore impropriamente chiamato Maestro daddesco - ma in realtà molto affine al Maestro del codice di S. Giorgio con cui effettivamente collaborò nel graduale datato 1315 già nella badia di S. Salvatore a Settimo, presso Firenze, e ora a Santa Croce in Gerusalemme a Roma - interpreta i chiari volumi dell'ultimo Giotto con vivida sensibilità lineare, con delicata animazione e con elegante naturalismo (a. della badia di S. Salvatore a Settimo, ora a Firenze, Spedale degli Innocenti, 1320 ca.). Attivo fin dall'inizio del secolo, Pacino da Buonaguida, fiancheggiato da una larga bottega, adottò un linguaggio più arcaizzante, essenziale nel taglio e sobriamente decorativo, per quanto un poco atticciato (Empoli, collegiata, 1310 ca.; S. Maria dell'Impruneta, 1320-1330). Il Maestro delle Effigi domenicane si espresse, a sua volta, con effetti ibridi tra i due più grandi miniatori. Nell'avanzato secondo quarto del secolo emerse l'esperienza senese improntata, nel fulgore del colore e nella duttilità gotica della linea, allo squisito realismo lorenzettiano e alle eleganze di Simone Martini. Nicolò di ser Sozzo Tegliacci (Siena, Bibl. Com. degli Intronati, 1335-1340 ca.), il Secondo maestro di S. Eugenio e Lippo di Vanni (Siena, Mus. dell'Opera della Metropolitana, a. del Seminario, 1340-1342) collaborarono nella serie dei corali della collegiata di San Gimignano (San Gimignano, Mus. d'Arte Sacra, 1340-1342). Circa nello stesso tempo a Pisa gli a. di S. Nicola (Mus. Naz. e Civ. di S. Matteo, 1340-1350) esibirono uno stile espressivo affine al Traini.Nell'Italia padana il linguaggio bolognese del Maestro Illustratore informò, con ibridismi locali, gli a. di S. Antonio a Padova (S. Antonio, Bibl. Antoniana, 1340-1345 ca.), mentre più tardi Nicolò da Bologna si espresse con irruente goticismo espressionistico nella grande serie olivetana (Modena, Bibl. Estense, 1365 ca.). Gotici anche gli a. del duomo di Verona, riferibili a Turone e alla sua cerchia (Bibl. Capitolare, 1379-1380 ca.).L'ultimo quarto del Trecento vide a Firenze la fioritura dell'officina del monastero camaldolese di S. Maria degli Angeli, soprattutto grazie ai monaci miniatori dom Silvestro dei Gherarducci e dom Simone camaldolese operanti con accenti fortemente gotici e con ascetica intensità di espressioni, su matrici senesi e fiorentine insieme. I due collaborarono negli a. di S. Maria degli Angeli (Firenze, Laur., 1370, 1385 e post) e in quelli di S. Maria Nuova (1380 e post). A dom Simone spettano gli altri a. di S. Pancrazio (Firenze, Laur., 1381), di Santa Croce (1380 e post), di S. Maria del Carmine (Firenze, Mus. di S. Marco, 1390 ca.). Ormai decisamente tardogotico e tutto pregno di squisiti spiriti senesi è il linguaggio ardentemente visionario di Lorenzo Monaco, pure camaldolese (a. di S. Maria degli Angeli, Firenze, Laur., 1390 e post; a. di S. Maria Nuova). Con il Quattrocento, il Tardo Gotico si espresse splendidamente a Siena con Giovanni di Paolo, come dimostra un a. di S. Salvatore in Lecceto (Siena, Bibl. Com. degli Intronati, 1445-1450), ma è l'Italia padana a diventare protagonista della produzione di libri corali, soprattutto per opera delle fervidissime comunità olivetane e camaldolesi. Purtroppo i prestigiosi esemplari di tale fioritura furono particolare oggetto di collezionistica cupidigia, cosicché oggi sussistono solo per fogli e iniziali presso biblioteche e musei di tutto il mondo. A Venezia il Maestro di S. Michele di Murano, legato alle esperienze emiliane del Maestro degli affreschi di Vignola e singolarmente 'consanguineo' di Belbello da Pavia, giunse a eseguire per la comunità olivetana muranese un a. di straordinaria veemenza formale (Berlino, Staatl. Mus., Pr. Kulturbesitz, Kupferstichkab., 1420-1430) e forse altri corali conservati per frammenti. In Lombardia si segnalano attivi nei libri di coro, tra il 1430 e il 1450 ca., soprattutto il Maestro del breviario francescano e il Maestro dell'a. francescano (Budapest, Országos Szećhényi Könyvtár), ambedue radicati sulla lezione di Michelino da Besozzo, mentre il Maestro delle Vitae Imperatorum e il suo creato Maestro olivetano risentono anche della lezione emiliana. Le diverse esperienze della miniatura tardogotica padana trovarono espressione nei corali donati verso il 1450 dal Bessarione all'Annunziata di Cesena e oggi alla Bibl. Com. Malatestiana. A Venezia Cristoforo Cortese, con linguaggio intriso di cadenze venete, lombarde, emiliane, si dedicò ampiamente alla realizzazione di libri corali (Venezia, Mus. Diocesano d'Arte Sacra, 1425-1435 ca.) e, nel monastero di S. Giorgio, Belbello da Pavia, con alcuni collaboratori, eseguì verso il 1465-1470 una serie di a. ancora in loco, che si collocano tra le ultime prestigiose testimonianze del Tardo Gotico italiano.
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