antifrasi
L’antifrasi (lat. contrarium e, in senso allargato alle figure di pensiero, ironia) è nella tradizione retorica l’uso di una parola o un’espressione con l’intento di negarne il significato, sia per riprendere le parole di un avversario e mutarle a proprio favore in vari modi, sia per ottenere un effetto emotivo o comico sull’uditorio (Lausberg 1960: § 585; Lausberg 1969: 127, 129, 239; Mortara Garavelli 1997: 168-169). In questo senso, essa appartiene alle figure di parola e consiste nel far intendere l’opposto di ciò che si dice. Rientra dunque nelle figure dette per permutazione o inversione degli elementi e riguarda specificamente la trasformazione contestuale del significato di una parola.
La Retorica a Gaio Erennio (opera del I secolo a.C. per tradizione attribuita a Cicerone ma in realtà di autore ignoto, il cosiddetto Pseudo-Cicerone) fissa la tradizione dell’antifrasi (contrarium) riportandola alla tecnica del permutare il significato delle parole, quando si usa un’espressione che indica una cosa con le parole e un’altra con il pensiero; così chiamare parco o parsimonioso un uomo spendaccione e incline al lusso è agire per antifrasi (IV, 46). Anche Quintiliano, nella sua Institutio oratoria (IX, 44-48), accoglie questa definizione e osserva che la figura deriva la denominazione dalla negazione e, dato che può estendersi a intere questioni, diventa a tutti gli effetti una variante dell’ironia e soprattutto dell’allegoria (dire le cose facendone intendere altre).
Nel VII secolo, Isidoro di Siviglia restringe l’antifrasi a un fatto puramente lessicale, quando cioè di una parola si intende il significato contrario normalmente usato («antifrasi è un discorso [sermo] che si capisce al contrario [e contrario]») e la collega al problema dell’origine delle parole (etimologia), portando l’esempio di bellum di cui si contrappone fantasiosamente il significato negativo a quello positivo di «piacevole, grazioso». In più, egli sottolinea come l’antifrasi si produca soprattutto ricorrendo a una differenza nel tono della voce (pronuntiatione).
Il Venerabile Beda nel VII secolo fa notare, in modo lapidario, che l’antifrasi riguarda solo la singola parola (unius verbi ironia) e, in questo senso, distingue la figura dal tropo. Il medioevo più tardo fisserà questa concezione, ad esempio con Matteo di Vendôme e Gervasio di Melkley, portando l’esempio del padre crudele che lascia il figlio privo del necessario e può chiamarsi così solo per antifrasi (in una chiara variante dell’eufemismo, come il classico esempio delle Eumenidi, o dee della vendetta, che hanno nel loro nome il significato di «dee benevole»).
Dante conosce bene l’uso dell’antifrasi che applica fin dalla Vita Nuova quando, nel commento a un sonetto in cui rimprovera alla Pietà di rivolgersi contro di lui, usa per antifrasi il termine madonna ma definisce questa scelta disdegnoso modo di parlare:
(1) convene che io chiami la mia inimica, madonna la Pietade; e dico ‘madonna’ quasi per disdegnoso modo di parlare (Vita Nuova XIII, 10)
Ma è nella Commedia che Dante impiega questo disdegnoso modo di parlare come strumento per caratterizzare i peccatori o per lanciare invettive. Nel primo caso, i toni variano a seconda degli interlocutori, ma possono a volte segnalare anche uno scambio colloquiale a botta e risposta, come nell’incontro con il liutaio fiorentino Belacqua che nel rispondergli gli rivolge l’accusa di negligenza:
(2) e disse: «Or va tu sù, che se’ valente!» (Purg. IV, 114)
che si può rendere con e disse: «E allora va su tu che sei così bravo!». Nel secondo, l’invettiva più famosa è l’apostrofe con cui si riferisce a Firenze:
(3) Godi, Fiorenza, poi che se’ sì grande che per mare e per terra batti l’ali, e per lo ’nferno tuo nome si spande! (Inf. XXVI, 1-3)
che acquista il senso pieno di un’antifrasi in un disegno ironico, pungente e acre.
Francesco Petrarca fa dell’antifrasi un progetto compositivo globale, secondo un modulo già presente nella letteratura occitanica e in Dante, ma che nel Canzoniere diventa cifra di modernità. Un esempio ne è il celeberrimo sonetto 310, dove il contrario si sviluppa variando il tema del sospiro primaverile della rinascita (le due quartine iniziali) che viene confrontato con il sospiro grave del poeta (le due terzine). È la presa d’atto provocata dal deserto di quella che al ciel se ne portò le chiavi (Canz., sonetto 310, Zephiro torna e ’l bel tempo rimena, v. 1 e v. 11) e affidata allo stacco reso possibile dalla più antifrastica delle congiunzioni (Ma per me lasso tornano i più gravi / sospiri, v. 9).
La lezione di Petrarca fu accolta dalla nostra tradizione poetica. Giacomo Leopardi utilizza spesso l’antifrasi sia in senso locale, sia in senso discorsivo più globale assicurando in questo senso al tema della giovinezza le due valenze (positiva / negativa) contrapposte:
(4) O natura cortese
Son questi i doni tuoi,
Questi i diletti sono
Che tu porgi ai mortali. Uscir di pena
È diletto fra noi
(“La quiete dopo la tempesta”, vv. 42-46)
(5) … A queste piagge
Venga colui che d’esaltar con lode
Il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
È il gener nostro in cura
All’amante natura …
(“La ginestra”, vv. 37-41)
Nel Novecento, la disponibilità a far variare un tema in senso antifrastico (a partire da una specifica espressione) diventa ancora più rilevante. Così Eugenio Montale scrive la sua Non chiederci la parola che squadri da ogni lato in cui l’antifrasi stessa diventa oggetto di poesia (Ossi di seppia, 1925, Anepigrafe: Codesto solo oggi possiamo dirti: ciò che non siamo, ciò che non vogliamo, vv. 11-12). Nella seconda parte del secolo, l’antifrasi resta uno dei meccanismi più confacenti all’italiano: Montale ne dà prova anche nelle sue ultime composizioni:
(6) … Abbiamo
fatto del nostro meglio per peggiorare il mondo
(Quaderno di quattro anni, 1977, Anepigrafe, v. 11)
(7) Siamo alla solitudine di gruppo,
un fatto nuovo nella storia e certo
non il migliore a detta
di qualche Zebedeo che sta da solo
(Quaderno di quattro anni, 1977, Anepigrafe, vv. 1-4)
L’antifrasi è grammaticalizzata nella lingua italiana che prevede parole che possono essere di per sé portatrici di significato contrario, in base a una relazione che viene detta di enantiosemia. Espressioni e parole trasmettono significati tra loro contrari, contraddittori o inversi (Mortara Garavelli 1997: 169): tra i primi (contrarietà per negazione) vanno annoverati avanti (il giorno avanti / d’ora in avanti), caro, feriale, o storia (racconto vero / menzogna); tra i secondi (contraddittorietà) si possono accludere sbarrare o sbavare; tra gli inversi, affittare (dare / prendere in affitto), critica (valutazione / biasimo), ospite (ospitare / essere ospitato) o pauroso (che ha / incute paura).
Cicerone, Marco Tullio (1992), La retorica a Gaio Erennio, a cura di F. Cancelli, Milano, Arnoldo Mondadori.
Montale, Eugenio (1980), L’opera in versi, edizione critica a cura di R. Bettarini & G. Contini, Torino, Einaudi.
Quintiliano, Marco Fabio (2001), Institutio oratoria, a cura di A. Pennacini, Torino, Einaudi, 2 voll.
Rhetores latini minores, ex codicibus maximam partem primum adhibiti, Lipsiae 1863.
Lausberg, Heinrich (1960), Handbuch der Literarischen Rhetorik. Eine Grundlegung Litteraturwissenschaft, München, Max Hueber Verlag.
Lausberg, Heinrich (1969), Elementi di retorica, Bologna, il Mulino (ed orig. Elemente der literarischen Rhetorik, München, Hueber 1949; 19632).
Mortara Garavelli, Bice (1997), Manuale di retorica, Milano, Bompiani.