HLA, antigene
Insieme di proteine di membrana (sigla di Human Leukocyte Antigens, antigeni umani leucocitari) che consente ai linfociti di riconoscere le cellule come proprie (self) oppure come estranee o modificate dalla presenza di antigeni estranei legati allo HLA stesso. È anche denominato MHC.
I geni che codificano la sintesi degli HLA sono localizzati sul braccio corto del cromosoma 6 e sono suddivisi in due classi principali: la I (MHC-I) che comprende 3 loci A, B, C e la II o (MHC-II o HLA-D), che comprende i geni DP, DQ, DR. Gli antigeni di classe I si trovano sulla superficie di tutte le cellule nucleate, mentre quelli di classe II si trovano sulle cellule APC, sui macrofagi e sui linfociti T e B. La struttura degli HLA è tetramerica, simile a quella delle immunoglobuline, con peso molecolare complessivo di circa 150 kDa. Due domini sono esposti all’esterno, mentre gli altri consentono l’ancoraggio alla membrana cellulare.
Gli HLA hanno l’attitudine a legare in maniera stabile, nella tasca formata dall’affiancamentodi due domini esterni, frammenti proteici (antigeni) lunghi tra 8 e 13 amminoacidi, provenienti dall’attività di digestione endosomica, o di proteine virali prodotte all’interno della cellula infettata, esponendoli complessati sulla superficie cellulare. D’altra parte i linfociti T, grazie alla selezione clonale, sono stati condizionati a riconoscere come non self strutture HLA-I diverse da quelle del proprio organismo. Molecole HLA-I non modificate da legame con antigeni identificano la cellula come self per i linfociti. Le cellule con HLA-I che portano antigeni o, come nel caso dei trapianti, con HLA diversi, sono riconosciute come non self e quindi aggredite dai linfociti T e NK. Questo rende gli HLA-I fondamentali nei trapianti. La compatibilità di un trapianto, e quindi il non rigetto, dipende fortemente da quanto siano simili gli HLA del donatore a quelli del ricevente. Gli HLA di classe II svolgono invece un ruolo chiave nella risposta immune. Il processo di espressione sulla superficie delle APC di antigeni legati saldamente all’MHC-II è il punto cardine del riconoscimento da parte dei linfociti T dell’antigene e quindi della loro attivazione, con innesco della risposta immunitaria specifica.
MHC, HLA e trapianti
L’identificazione nell’uomo e in altri mammiferi (primati, maiali, polli, ratti) delle molecole codificate dai geni del sistema maggiore di istocompatibilità (MHC), rappresentate nell’uomo dagli antigeni HLA, ha permesso di stabilire, tramite evidenze sperimentali, che tali molecole svolgono un ruolo centrale nei trapianti di cellule, tessuti ed organi.
Nell’uomo, il successo degli allotrapianti (trapianti tra individui diversi della stessa specie), che rappresentano nella pratica clinica la quasi totalità dei trapianti, è legato da un lato alle reazioni immunologiche del ricevente nei confronti degli antigeni HLA di classe I (A, B, C) e di classe II (DR, DQ, DP) riconosciuti non-self, e dall’altro alla possibilità di modificare, con terapie immunosoppressive, tali risposte allo scopo di prevenire il rigetto. Il tipo e l’intensità di una risposta nei confronti di un organo trapiantato sono regolati da meccanismi effettori mediati da cellule o da anticorpi, responsabili di reazioni di rigetto acute o croniche. L’introduzione in un ricevente, attraverso il trapianto, di uno o più antigeni HLA non-self rappresenta lo stimolo primario per l’attivazione, da parte dell’organismo che ha ricevuto il trapianto, di linfociti T helper, i quali esprimono in membrana la molecola CD4 (T CD4+) in grado di interagire con molecole HLA di classe II (DR, DQ ,DP), non condivise con il donatore, tramite un recettore specifico (T cell receptor). Tali molecole sono espresse da cellule ematiche interstiziali, con capacità di presentazione antigenica, o da cellule APC (cellule dendritiche, macrofagi, monociti e linfociti B) e da cellule endoteliali vascolari. I linfociti T CD4+ dell’ospite, così stimolati, si trasformano in cellule attivate, secernenti svariate linfochine (tra cui le interleuchine IL-2, IL-4 e IL-5), responsabili della proliferazione ed espansione clonale di altri linfociti T. Da questi eventi conseguono meccanismi effettori mediatori del danno parenchimale nel trapianto. Tali meccanismi sono determinati principalmente da linfociti citotossici T CD8+ e da anticorpi con specificità anti-HLA. La ricchezza in APC rappresenta un fattore importante per la suscettibilità al rigetto dei vari organi; il midollo osseo e la cute risultano i più immunogenici, seguono isole pancreatiche, cuore, rene e per ultimo fegato.
Gli allotrapianti, a causa di differenze immunologiche dovute ad antigeni HLA non condivisi tra donatore e ricevente, provocano nel ricevente risposte immunitarie che, se non controllate da un’adeguata terapia immunosoppressiva, portano al rigetto con riduzione o perdita acuta o cronica della funzione del tessuto o dell’organo trapiantato. In assenza di tali differenze, come per i trapianti eseguiti tra gemelli monozigoti o fratelli HLA identici, le riposte immunitarie del ricevente hanno un effetto trascurabile sulla sopravvivenza del trapianto. I rigetti, con reattività ricevente contro donatore, costituiscono la complicanza immunologica per eccellenza dei trapianti di organi solidi. Nella forme di rigetto acuto, soprattutto nel trapianto renale (il più eseguito nella pratica clinica), le reazioni immunitarie mediate principalmente da cellule T citotossiche CD8+, costituiscono il principale meccanismo effettore, sebbene possano essere coinvolti (in circa il 20% dei casi) anticorpi con specificità anti-HLA. Nelle forme di rigetto cronico (causa principale di perdita dell’organo nel lungo termine) il danno mediato da anticorpi riveste invece un ruolo predominante. La presenza di anticorpi anti-HLA nei sieri dei pazienti prima del trapianto ne condiziona inoltre in maniera negativa l’esito, per una maggiore incidenza di rigetti acuti e cronici da essi indotti. Il trapianto di cellule staminali emopoietiche (TCSE) derivate dal midollo osseo, dal sangue di cordone ombelicale o dal sangue periferico, attualmente trattamento di scelta per numerosi disordini ematologici (per es., leucemie), sebbene soggetto agli stessi principi che governano il trapianto di organi solidi, presenta problematiche immunologiche peculiari. Infatti con il TCSE sono trasferite dal donatore all’ospite, reso totalmente immunoincompetente mediante immunosoppressione ablativa pretrapianto, anche cellule linfocitarie mature e loro precursori, in grado di reagire contro gli antigeni HLA del ricevente non condivisi. Tali reazioni sono alla base di sindromi gravi acute e croniche indicate come GVHD (Graft Versus Host Disease, malattie da reazione del trapianto verso l’ospite), che rappresentano la causa principale, se non controllate, di insuccesso del trapianto. La severità delle GVHD, nei casi di non perfetta compatibilità HLA, richiede che i TCSE vengano sempre eseguiti, quando possibile, da donatori consanguinei HLA identici (esiste una probabilità del 25% di trovare fratelli o sorelle compatibili); negli altri casi si può ricorrere, mediante strategie immunomodulatorie, a: donatori consanguinei ma identici per un solo aplotipo HLA e con una sola incompatibilità; donatori non consanguinei, selezionati da registri nazionali e internazionali, fenotipicamente HLA identici o con non più di una incompatibilità. Nel caso di trapianti di organi solidi (rene, pancreas, cuore, fegato, polmoni, intestino), che rappresentano il trattamento d’elezione per le rispettive insufficienze d’organo, la terapia immunosoppressiva permette di utilizzare, tranne che in riceventi con anticorpi anti-HLA preformati, anche donatori con bassa compatibilità. Tuttavia per i trapianti renali il grado di compatibilità HLA viene sempre utilizzato tra i criteri di scelta dei riceventi, inclusi quelli non immunizzati, in quanto garantisce maggiori sopravvivenze del trapiantato nel medio e lungo termine. La compatibilità HLA sembra non avere alcuna rilevanza clinica nei trapianti di fegato.