ANTIOCHIA di Siria (A. T., 153-154; ar. Anṭākiyah)
Città della Siria settentrionale, a 36°10′ di latitudine N. e 36°6′ di longitudine E., sulla sponda sinistra dell'Oronte (Nahr el-‛Āṣī), a 22 km. dalla foce; si estende fino alle pendici del monte Silpio (Ḥabīb en-Naggiār).
Posta in una valle fertilissima, larga 38 km., assai ricca di sorgenti ed esposta a piogge abbondanti, circondata ad E. da grandi orti e giardini, è considerata dagli Arabi, per bellezza naturale, la seconda città della Siria dopo Damasco.
La sua popolazione, assai numerosa nei tempi classici (300.000 sotto i Romani) e nel Medioevo, era discesa a 5000 ab. nel 1835, al disotto di 20.000 alla metà del sec. XIX, e nel 1900 contava press'a poco 28.000 ab. (di cui 4000 cristiani e pochi ebrei). Il censimento del 1921-22 dava 30.000 abitanti.
Antiochia è con Idlib il maggiore centro siriano per la produzione della seta; nel 1919 la sericoltura fruttò 2.800.000 piastre siriane, nel 1924 oltre 33 milioni di piastre. Nei dintorni si coltivano specialmente gelsi e albicocchi, irrigati per mezzo di norie. Si esportano albicocche secche o in pasta (qamar ed-dīn), bozzoli, tabacco, cereali, cotone, liquerizia, sapone, scarpe, coltelli, anguille pescate nell'Oronte. Furono segnalati nei dintorni giacimenti di antimonio.
È allo studio dal 1925 un progetto di prosciugamento del lago di Antiochia e delle paludi circostanti, che permetterebbe di coltivare a cotone circa 30.000 ettari, e varî lavori stradali, fra cui la via da Antiochia ad el-Lādhiqiyyah.
L'importanza commerciale che ebbe Antiochia nell'antichità e nel Medioevo, dovuta alla sua posizione all'incrocio delle strade dall'Eufrate al Mediterraneo e dalla Siria all'Asia Minore, è finita in seguito all'interramento dei suoi porti di Seleucia Pieria e poi di es-Suweidiyyah; l'Oronte non è navigabile fino alla città, alla cui decadenza contribuirono anche i gravi terremoti che hanno devastato quella regione fin dall'antichità, l'ultimo nel 1872.
La città moderna (case basse, vie anguste, quattordici moschee senza interesse) si trova nell'angolo NE. delle grandiose mura giustinianee, che misurano 30 km. di circuito e avevano 360 colossali torri a tre piani, ma, specialmente nel secolo scorso, sono state gravemente danneggiate ed utilizzate per fornir materiale a costruzioni moderne. Fra i numerosi monumenti dell'età classica vanno ricordati il ponte romano a quattro archi sull'Oronte, e, sulle pendici del Silpio, resti di grandi acquedotti, dell'anfiteatro, delle terme costruite dall'imperatore Valente (364-378 d. C.). Una testa femminile e una cariatide, alte oltre 4 metri, scolpite nella roccia a poca distanza dalla città, furono fatte eseguire da Antioco Epifane per allontanare una pestilenza.
Alcune delle antiche porte della città sono discretamente conservate. Sulla cittadella, costruita da Niceforo Foca, sorgeva un castello dei Crociati, distrutto dal sultano d'Egitto Baibars (1260-1277). La tomba del profeta Habīb en-Naggiār (l'Agabo degli Atti degli Apostoli, XI, 28, primo cristiano di Antiochia, su cui si veda anche il Corano, XXXVI, 19) sul monte Silpio che ha preso il suo nome, è luogo di pellegrinaggio venerato dai musulmani.
Storia.
Fondazione. - Nella protostoria della città ebbero parte, secondo la tradizione, elementi varî, Argivi, Cretesi, Ciprioti, Ateniesi. Non ci è noto il nome della località indigena che qui si trovava prima di Antiochia; i nomi che ci sono riferiti, Iopoli, Bottia, Casiotide, non sono nomi indigeni ma macedonici, e questa molteplicità di nomi ci mostra che si deve trattare del sinecismo di parecchi villaggi. Gli Antiocheni affermavano la loro parentela con Atene ed Argo; ad Antiochia sono frequenti i ricordi e i nomi greci, come Pieria, Peneo, Tempe, Castalia; la città attribuiva la sua celebrità a Inaco, a Oreste, a Dafne; il nome di Iopoli ci riporta all'argiva Io, figlia di Inaco, alla ricerca della quale fu mandato Trittolemo, che si fermò sul monte Silpio (sul quale ebbe culto eroico) e i cui discendenti furono trasferiti da Seleuco I nella nuova città. In conformità della tradizione Antiochia ha coniato anche monete simili a quelle ateniesi con la testa di Pallade e la civetta.
Gia Alessandro avrebbe avuto l'idea di fondare una città dove sorse Antiochia; la storia di essa incomincia propriamente con la fondazione di Antigonia (nome dovuto ad Antigono Monoftalmo) verso il 306 a. C., con gli abitanti della quale venne popolata Antiochia, fondata dopo la vittoria di Ipso (301 a. C.) da Seleuco I Nicatore e così denominata da suo padre Antioco. Seleuco volle subito affermare il suo possesso nella Siria settentrionale fondandovi la sua capitale col suo porto. Che Seleuco per la fondazione di Antiochia abbia distrutto interamente Antigonia non è sicuro; forse il racconto di Malala va inteso nel senso che ad Antigonia furono tolti i diritti cittadini, riducendola alla condizione di una κώμη e trasferendone la maggior parte degli abitanti nella nuova città. La leggenda narra che Seleuco, in cerca di un luogo dove fondare la città di cui avrebbe fatta la sua residenza e la cui Fortuna (Τύχη) avrebbe protetto la sua stirpe, si rivolse a Zeus sul monte Casio, a Zeus Ceraunio sul monte Silpio e ad Antigonia, offrendogli sacrifizî; un'aquila rapì una parte delle carni delle vittime e ne lasciò cadere presso la foce dell'Oronte, ove fu fondata Seleucia, e sul monte Silpio ai cui piedi Seleuco fondò la capitale del nuovo regno di Siria. L'aquila della leggenda si trova sulle monete di Antiochia nell'età dei Seleucidi e nell'età romana. Così Antiochia sorse a 19 km. dal mare, sulla riva sinistra dell'Oronte, in eccellente posizione, con rito solenne e crudele, poiché sarebbe stata immolata una donzella Aimatea per mano del sacerdote Anfione.
La città e la popolazione. - Per distinguerla dalle numerose Antiochie dell'Asia, essa fu detta Antiochia di Siria, o "presso Dafne", o "dell'Oronte". Secondo Strabone, per la cresciuta popolazione venne costruito ancora dallo stesso fondatore un secondo quartiere; quindi Seleuco II Callinico (246-225 a. C.) ne aggiunse un terzo, e Antioco IV Epifane (174-164 a. C.) un quarto. Il quartiere di Seleuco II sorse sull'isola formata dall'Oronte e fu chiamato Città Nuova. Il primo ampliamento della città, secondo altre fonti, sarebbe dovuto ad Antioco il Grande, il quale avrebbe costruita la parte della città situata nell'isola dell'Oronte, che venne collegata con la vecchia città mediante cinque ponti e fu anche fortificata. Può darsi che l'opera iniziata dal Callinico sia stata compiuta da Antioco III. Questo quartiere fu popolato di Macedoni, Cretesi, Eubei, ed Etoli. Il quartiere di Antioco IV costituì la parte meridionale della città sulle pendici del Silpio, e dal titolo che portava il suo fondatore fu detto Epifania. Antiochia, formata così di quattro quartieri, era detta tetrapoli; e ciascuna parte era cinta di mura proprie, sì da formare una città a sé; ma Antioco IV provvide a costruire una grande cerchia comune di mura che racchiudeva tutta la città. Un quartiere eccentrico di essa era il Cerataeum, alquanto discosto dall'agglomerato cittadino, in posizione vantaggiosa dalla parte orientale, sulle pendici dello Stauris. Questa la città che si conservò sostanzialmente sino al tempo in cui fu presa e distrutta dai Persiani (540 d. C.). Giustiniano la ricostruì e cominciò col restaurare le mura correggendone il tracciato dalla parte dell'Oronte e da quella del Silpio; poi provvide alla città. Sgombrò il terreno dalle macerie degli edifizî distrutti; tracciò un nuovo piano della città a larghe vie pavimentate, provvide alla costruzione di acquedotti e fontane, serbatoi e bagni; il palazzo imperiale, che prima era nell'isola dell'Oronte, fu allora costruito nella città; sorsero chiese, ospedali e xenodochia, partecipando a quest'attività riedificatrice anche Teodora.
Antiochia, la metropoli dell'Oriente, la grande, la bella, aveva l'aspetto generale delle città ellenistiche con lunghe vie diritte e incrociantisi ad angolo retto, fiancheggiate da porticati ornati di colonne; una di tali vie attraversava la città in tutta la sua lunghezza. La città si allargava in tutte le direzioni con ampî sobborghi, a notevoli distanze anche al di fuori della cerchia di mura che Teodosio aveva fatto costruire dalla porta Filonuto fino al quartiere dei Rodî, abbracciando la porta di Dafne. I nomi per lo più siriaci di questi sobborghi, Charandama, Ghisira, Gandigora, ci mostrano che, se la città era popolata prevalentemente da Greci, i sobborghi e le campagne vicine erano abitati dalla popolazione indigena non ellenizzata, la quale conservava tuttavia l'uso della sua lingua. Il più celebre dei sobborghi era quello di Dafne ad occidente della città, descritto come luogo splendido ed incantevole, famoso per il tempio e il culto di Apollo, per il santuario delle Ninfe, per le fontane, per il suo bosco di cipressi che la legge vietava di abbattere. I pubblici edifizî e i monumenti corrispondevano alla magnificenza della città. Monumenti insigni furono innalzati dai Seleucidi e poi dagl'imperatori. Ricordiamo la mirabile cerchia di mura ellenistica e giustinianea, un foro, un teatro, un circo, il palazzo imperiale detto Tetrapylon nell'isola dell'Oronte; Seleuco II dedicò un tempio ad Iside. Antioco IV fece costruire il Buleuterio o palazzo del senato, ed una via grandiosa che attraversava tutta la città; né mancò un tempio al Fuoco Eterno sul monte Silpio. Cesare costruì un teatro addossato al Silpio, un anfiteatro, dei bagni, un acquedotto, e una basilica detta Cesareo. Ad abbellimenti delle vie provvide Erode il Grande, e così varî imperatori; a Commodo si deve una pubblica passeggiata, il xystus. Inoltre un numero straordinario di statue, capolavori dell'arte greca, dei periodi felici del genio ellenico, di cui troviamo talvolta dei particolari sulle monete. Celebre fra tutte fu la personificazione della Tyche di Antiochia, famosa statua di Eutichide di Sicione, scolaro di Lisippo. La dea è rappresentata su una rupe che rappresenta il Silpio, ed ai suoi piedi appare in mezza figura portato sulle onde il dio del fiume Oronte in forma di giovinetto. Dal tempo di Costantino in poi cominciarono a sorgere le chiese cristiane, e in chiese cristiane furono trasformati anche i templi pagani.
Poche città suscitarono come Antiochia l'ammirazione dei visitatori per i suoi monumenti, per la bellezza della sua posizione, per la ricchezza dei giardini, per l'effetto meraviglioso della sua cerchia di mura che s'arrampicava sul Silpio per uno sforzo geniale dell'architettura militare; e però si comprende l'esaltazione di Giovanni Crisostomo e di Giuliano, e l'encomio entusiastico che della sua patria scrisse Libanio. Per la sua ampiezza e la sua popolazione Antiochia era considerata come la maggiore città dell'oriente, accanto a Seleucia sul Tigri, e come una delle maggiori del mondo antico, accanto a Roma, ad Alessandria, a Bisanzio, a Milano. Centro naturale della Siria propria, Antiochia fu anche un grande centro commerciale, favorita dalla posizione geografica, su un fiume navigabile, abbastanza vicina al mare, cui era unita da una via che metteva a Seleucia, mentre ad essa convergevano le vie carovaniere che attraverso l'Asia e la Persia portavano le merci dell'India e della Cina; una via per il monte Amano conduceva alla Commagene occidentale, e un'altra per Apamea, Zeugma e Samosata alla Commagene orientale; una via per Berea e Ierapoli metteva a Carre, e per Calcide a Niceforio, ossia all'Eufrate e alla Mesopotamia; sicché per l'attività mercantile e industriale di Antiochia anche la sua ricchezza era prodigiosa.
Antiochia fu sotto i Seleucidi una città cosmopolita, la cui popolazione libera al principio dell'era volgare era di circa 300.000 abitanti, e compresi gli schiavi poteva toccare il mezzo milione. Abbiamo notizie riguardanti gli elementi costitutivi della popolazione, la sua fisionomia, il suo carattere. Essa aveva una popolazione greca assai densa, in mezzo alla quale si trovavano pure in quantità notevole i Giudei con altri elementi orientali e i Siri che costituivano il ceto inferiore della popolazione. Del resto come città commerciante doveva avere una miscela di popoli diversi e grandi ricchezze, che diedero alla popolazione di Antiochia l'amore del lusso e dei piaceri e quel suo carattere voluttuoso e leggiero. Cicerone ci parla con esagerazione di Antiochia come di un gran centro di vita intellettuale. Essa fu come Nicomedia uno dei centri della sofistica; ma soprattutto era una città festosa, in cui corse e danze, feste e baccanali erano frequenti. Come a Costantinopoli, anche qui non mancarono le rivalità del teatro e del circo, e gli Azzurri e i Verdi costituirono due fazioni che turbarono con le loro violenze la tranquillità cittadina, tanto che Giustiniano dovette sospendere i giuochi.
La città ebbe un'amministrazione municipale autonoma. La cittadinanza si divideva in 18 demi; ebbe un corpo decurionale in origine di 1200 membri, ridotti successivamente di numero; 200 membri al tempo dell'imperatore Giuliano, soli 60 secondo una testimonianza di Libanio. Troviamo anche menzionati i duumviri come funzionarî amministrativi. Una particolarità della sua legislazione municipale, prima che fosse colonia, ci è tramandata da Papiniano. Al tempo di Marco Aurelio fu elevata a colonia romana e ascritta alla tribù Collina, come appare da alcune iscrizioni di soldati; solo da un'epigrafe greca è data la tribù Quirina. Fu privata dei suoi privilegi municipali per aver parteggiato per Pescennio Nigro, proclamato imperatore contro Settimio Severo, e fu posta sotto la dipendenza di Laodicea fino all'anno 201, in cui Caracalla intercedette per essa e le ottenne grazia.
A. sino alla conquista musulmana. - Sin dalla sua fondazione, Antiochia fu normale residenza dei re di Siria. Al principio della guerra di Laodice fu temporaneamente occupata dalle truppe di Tolomeo III Evergete re d'Egitto (246 a. C.), ma tosto ritornò nelle mani di Seleuco II, e fu anche residenza di Antioco III, benché l'Egitto si fosse temporaneamente impadronito del suo porto, Seleucia. Antioco IV risiedette ad Antiochia e v'introdusse anche usanze romane; egli stesso vi apparve vestito della toga e usò la sedia curule. Ribelli a Demetrio I, gli Antiocheni accolsero il pretendente Alessandro Bala, contro cui poi insorsero cacciandolo dalla città e uccidendo il suo ministro Ammonio. Da Tolomeo VI Filopatore fu stabilito come re in Antiochia Demetrio II (148 a. C.); ma la città gli si ribellò una prima volta accogliendo Antioco VI proclamato re da Diodoto Trifone, e una seconda volta quando Demetrio, liberato dalla prigionia dei Parti, ritornò ad Antiochia (127 a. C.). Nel periodo della spartizione del regno e della decadenza della dinastia seleucide, Antiochia accolse ed espulse successivamente i varî contendenti: Alessandro II Zebina, Antioco IX, che le accordò l'autonomia, Antioco VIII, che la prese dopo breve assedio. Passata la Siria sotto Tigrane, ad Antiochia risiedette, come suo rappresentante e governatore della Siria, Magadate. Dal 92 al 69 Antiochia coniò monete autonome, e si proclamò metropoli sacra ed inviolabile, ma la sua asilia non fu sempre rispettata.
Pompeo nel 64 a. C. ridusse la Siria a provincia romana con capitale Antiochia, a cui egli conservò l'autonomia per onorare negli abitanti i discendenti degli Ateniesi; ad Antiochia risiedettero i governatori romani della Siria (legati) ed essa fu il centro dell'amministrazione civile e militare. La città usò accanto all'era dei Seleucidi (che partiva dal 312 a. C.) anche la nuova era Pompeiana (che partiva dal 64). Cesare, vinto Farnace, visitò Antiochia, le lasciò i suoi privilegi e l'abbellì di pubblici edifici; perciò la città adottò anche un'era cesariana che cominciava col 49 a. C. Più tardi Antiochia favorì Augusto e usò in suo onore l'era aziaca (31 a. C.). Essa godette pure il favore di Agrippa e di Erode, di Tiberio, di Domiziano e di altri imperatori che di solito si trattennero volentieri in questa città al cui abbellimento contribuirono a gara con splendidi edifici. Quivi morì Germanico (19 d. C.) e il suo corpo fu arso nel foro della città. Traiano fece di Antiochia la sua base di operazioni nella guerra contro i Parti (114 d. C.). Non mancò in Antiochia un partito che favorì i Persiani al tempo di Sapore I (256); Aureliano vi fu accolto dalla popolazione con favore; forse qui alla morte di Tacito fu proclamato imperatore dalle milizie M. Annio Floriano. Giuliano l'Apostata fece chiudere le chiese di Antiochia ritenendo i cristiani autori dell'incendio del tempio di Apollo, e ad Antiochia egli scrisse anche i suoi libri contro i cristiani (362-363). Nel 387 vi scoppiò una ribellione determinata essenzialmente dagli aggravî finanziarî. Nell'età bizantina Antiochia rimase sempre il più importante avamposto del mondo greco-romano in Oriente; ma divenne per essa pericoloso il consolidarsi del nuovo impero persiano. Già Sapore I era apparso improvvisamente ad Antiochia e l'aveva saccheggiata (256). Al tempo di Giustiniano la città fu presa e incendiata da Cosroe (540), che trasferì gran parte degli abitanti nel centro del suo impero in una nuova città, Antiochia di Cosroe, a una giornata di marcia da Ecbatana. Per quanto ricostruita da Giustiniano, essa non riebbe più l'importanza che aveva serbato fin'allora dal tempo di Seleuco I. Durante il regno di Eraclio cadde in mano degli Arabi (638).
Ma, oltre gli assalti e i saccheggi, un'altra causa della decadenza di Antiochia furono i numerosi e gravissimi terremoti che la colpirono distruggendone gli edifici e facendo numerose vittime. Abbiamo notizia di due di essi nel 148 e nel 37 a. C., e poi nei primi secoli dell'era volgare, al tempo di Claudio (41-54), nel 115, nel 341. Assai grave fu quello del 457-458, di cui abbiamo un particolareggiato racconto in Evagrio. Più rovinoso fu quello che la colpì nel 526 e che fece, secondo Procopio, 300.000 vittime; rimasero ancora salve le mura, che rovinarono poco dopo a causa del terremoto del 528, anche più violento. Giustiniano provvide a restaurarla, e, quasi a propiziarsi la protezione di Dio, forse per incitamento di S. Simone Stilita, fu dato ad Antiochia il nome di Teopoli, città di Dio. Anche dopo la devastazione di Cosroe seguirono altri terremoti nel novembre 539 e nel 587; quello del 588 ridusse gli edifici superstiti a un mucchio di rovine. Questo flagello continuò a tormentare la città nel Medioevo, obbligando i patriarchi greci ad abbandonarla, e nell'età moderna fino ai terremoti del 1822 e del 3 aprile 1872.
I Giudei. - Una numerosa colonia giudaica fiorì ad Antiochia già dal tempo di Seleuco I, il quale concesse ai Giudei della città gli stessi privilegi di cui godevano i Greci. I Giudei ebbero una organizzazione a parte: costituivano una πολιτεία che godeva dell'autonomia, ed erano riuniti nel Cerataeum, sotto la direzione di un presidente o etnarca. Nel Cerataeum si innalzava la sinagoga principale; un'altra sorgeva nel sobborgo di Dafne. Le rappresaglie contro i Giudei furono frequenti; al tempo di Caligola la sinagoga fu bruciata e molti Giudei uccisi, ma ne prese vendetta il sommo sacerdote Finea accorso da Tiberiade alla testa di 30.000 Giudei e Galilei. Contro di loro pronunziò sei diatribe San Giovanni Crisostomo (verso il 370), e rappresaglie vi furono nel 415 e sotto l'imperatore Zenone. Sotto Anastasio fu incendiata la sinagoga a Dafne e al suo posto fu poi elevata una chiesa cristiana. La colonia giudaica era ancora fiorente al tempo dell'invasione araba.
Fonti. - Sulla fondazione di Antiochia, Iustin., XV, 4; Appian., Syr., 57. Alcuni, come Iulian., Misopog., 347, Syncell., 520, Chron. Pasch., 75, Suida s. v., derivano erroneamente il nome da quello del figlio di Seleuco. Le fonti giudaiche derivano il nome da Antioco senza dire di quale Antioco si tratti. Secondo un uso frequente nelle fonti rabbiniche, nel Midrash e nel Targum, Antiochia è identificata con città ricordate nella Bibbia, ad es. con Hamath e Ribla. Polyb., V, 59 ecc.; Diod., XX, 47; Ioseph., Ant. Iud., XII, 119; Bell. Iud., III, 3, 4; VII, 3, 3; 5, 2, ecc.; Strab., XVI, p. 719; Ioh. Chrysost.; Euagr.; Liban.; Malal., 199, 207, ecc.; Proc., Bell. Pers., II, 8 segg.; De aedif., II, 10 ecc.; Cic., Pro Arch., 4; Tac., Hist., II, 78; Ann., II, 73 e 83; Ammian. Marcell., XXII, 9, 14; Acta Apostol., XI, 26; Plin., Nat. Hist., V, 66, 79, ecc.; Papin., Dig., 42, 5, 37. Assai limitata è l'epigrafia di Antiochia: Corpus Inscr. Graec., II, 2810, 3425; III, 4465-4469, 4472, 4622, 5804; IV, 8956, 8958; Corpus Inscr. Lat., III, 6046 segg., 14165, 14-15; Ph. Le Bas, Inscr. Grecques et Lat., III, p. 614; Abel, in Revue biblique, 1911, p. 117.
Dalla conquista musulmana in poi. - Antiochia cadde in potere degli Arabi, insieme col resto della Siria settentrionale, l'anno 16 dell'ègira (637-8 d. C.). Le fonti arabe affermano che la città si arrese, dopo un breve assedio, sotto le solite condizioni di incolumità e di facoltà di emigrazione per gli abitanti, che erano state pattuite da altre città sottomesse dagli Arabi: ciò è indizio che le milizie musulmane, insufficientemente fornite di mezzi di assedio, non erano riuscite a espugnare la ben fortificata Antiochia. La città subì nei tempi successivi le stesse vicende della rimanente regione e cadde, nel sec. IV dell'ègira (X d. C.), in potere della dinastia degli Hamdānidi (v.), sotto l'alta sovranità, puramente nominale, dei califfi. I Bizantini la riconquistarono nel 966 o 969, durante il periodo della vigorosa ripresa dell'offensiva contro i musulmani, sotto il regno di Niceforo Foca; ma poco più di un secolo dopo essa fu nuovamente perduta per Bisanzio e cadde in mano dei Selgiuchidi (1084), tra le varie dinastie dei quali (sultani di Iconio, atābeg di Mossul) essa fu disputata per qualche anno.
Nel 1097 l'esercito dei Crociati poneva assedio ad Antiochia e dopo cinque mesi di ostinati sforzi se ne impadroniva il 2 giugno 1098, respingendo poche settimane dopo un ritorno offensivo dell'atābeg di Mossul, che era riuscito a rinchiudere a sua volta i Crociati nella città espugnata (a questo fatto si ricollega l'episodio del rinvenimento miracoloso della lancia di S. Longino). Per 170 anni Antiochia rimase nelle mani dei cristiani e fu capitale del principato omonimo, sotto la dinastia normanna di Boemondo (v.). Nominalmente questo principato dipendeva da Bisanzio, e ciò spiega forse perché Nūr ed-dīn e Saladino, nonostante il prevalere delle loro forze in Siria, rinunziassero ad occupare Antiochia, per evitare un conflitto diretto con l'impero bizantino; tuttavia il territorio del principato rimase notevolmente diminuito dalle successive conquiste musulmane. Finalmente, regnando Boemondo VI, il sultano mamelucco Baibars (v.), battuto l'esercito crociato nelle vicinanze della città, prendeva questa d'assalto il 19 maggio 1268 e vi commetteva incendî, devastazioni e stragi, deportando in seguito gran parte della popolazione; né Antiochia si rialzò più dal colpo ricevuto. Essa seguì poi le sorti del resto della Siria e passò dal dominio dei Mamelucchi a quello degli Ottomani (1517), e da questo, in seguito al trattato di Sèvres (1920), al mandato francese.
Il patriarcato di Antiochia.
Le origini della comunità cristiana in Antiochia ci sono narrate con molti particolari dagli Atti degli Apostoli (XI, 19 segg.; XIII, 1; XIV, 25 segg.; XV). I primi cristiani antiocheni ebbero naturalmente la loro origine dall'ambiente giudaico, ma ben presto anche dei pagani vennero guadagnati al Vangelo. Barnaba prima, poi S. Paolo stesso durante un anno intiero stettero in Antiochia, tra il 44 e il 50, secondo i varî calcoli. Appunto in Antiochia i seguaci della nuova religione furono nominati per la prima volta cristiani (Atti, XI, 26). La venuta di S. Pietro in Antiochia, attestata dall'epistola di S. Paolo ai Galati, II, 11, è certissima. Eusebio di Cesarea (Hist. eccl., III, 36, principio) non lascia dubbio che Pietro non sia stato veramente a capo della chiesa antiochena. Quanto alla durata e alla data probabile di questo soggiorno, non è possibile dire nulla di preciso.
Dei primi vescovi di Antiochia si conoscono appena i nomi: la loro cronologia è poco sicura, meno la data del martirio di S. Ignazio (20 dicembre 107, a Roma). Dei primi successori d'Ignazio occorre menzionare Paolo di Samosata, sostenuto dalla regina di Palmira Zenobia, ma condannato per la sua teologia adozionista da un concilio del 269, e deposto solo nel 292, quando Aureliano riconquistò la città. I suoi fautori cagionarono uno scisma a cui allude ancora il concilio di Nicea del 325, nel canone 19.
La persecuzione di Massimino Daia fece numerose vittime in Antiochia, ed anche quella di Licinio, che durò dal 321 al 323. Siccome la chiesa dei cristiani era stata demolita, probabilmente durante la persecuzione di Diocleziano, Costantino fece poi edificare una magnifica basilica con la cupola rivestita d'oro, che venne dedicata nel 341, sotto Costanzo II. In questa occasione i vescovi orientali vi celebrarono il sinodo "della dedicazione" (ἐν ἐγκαινίοις, in encaeniis), che confermò la deposizione di S. Atanasio. La controversia ariana cagionò anche in Antiochia lo scisma, provocato dall'elezione di Melezio come successore di Eudossio, e dalla consacrazione episcopale accordata da Lucifero di Cagliari al prete cattolico Paolino, quando già Melezio s'era riaccostato all'ortodossia. Iniziato nel 361, lo scisma terminò nel 398, col riconoscimento da parte della chiesa romana di Flaviano, ma lasciò, anche dopo, qualche strascico.
Già dai tempi remoti del cristianesimo il vescovo di Antiochia godeva di una certa autorità tradizionale su gli altri vescovi della diocesi civile romana d'Oriente, di cui Antiochia era la capitale. Il concilio ecumenico di Nicea sanzionò quel privilegio, e da quell'epoca il vescovo di Antiochia, chiamato dapprima arcivescovo, poi patriarca, cominciò ad essere denominato "di Antiochia e di tutto l'Oriente" (nel senso romano di diocesi civile: odierna Siria e Palestina). Man mano le missioni cristiane si erano estese fino alla Persia, e l'arcivescovo di Antiochia estendeva la propria autorità anche sull'isola di Cipro: il concilio ecumenico di Costantinopoli del 381 confermò l'estensione della giurisdizione del detto arcivescovo. Ma la Persia si staccò da Antiochia nel 424, a causa delle guerre continue tra Persiani e Romani, benché, fino alla controversia nestoriana, rimanesse in comunione con la Chiesa universale; l'isola di Cipro aveva sempre desiderato l'autonomia, e riusci a farla riconoscere dal concilio di Efeso (431); l'ambizione e l'abilità di Giovenale, vescovo di Gerusalemme, ottennero nel 451, in occasione del concilio ecumenico di Calcedonia, l'erezione della Città santa e delle tre Palestine in patriarcato distinto.
La celebre scuola teologica antiochena, fiorente nei secc. III e IV, fu piuttosto un movimento teologico che una scuola propriamente detta, come il Didaskaleion di Alessandria. Gli iniziatori furono forse i due sacerdoti e martiri Doroteo e Luciano, verso la fine del sec. III e la prima parte del IV. Il rappresentante più celebre fu Diodoro di Tarso (morto nel 394), che ebbe per discepoli Teodoro di Mopsuestia e S. Giovanni Crisostomo. Teodoreto di Ciro (ca. 386-458) ed Isidoro Pelusiota (morto nel 434) seguirono lo stesso metodo teologico ed esegetico. La scuola antiochena offre un perfetto contrasto con quella alessandrina: mentre questa era piuttosto speculativa, intuitiva e mistica, quella di Antiochia è più pratica e si avvicina abbastanza al metodo aristotelico, che doveva più tardi dare origine alla Scolastica. Nell'esegesi, la scuola alessandrina è allegorica, quella antiochena s'appoggia al senso letterale, storico e grammaticale; in ciò consiste il valore dei commentarî di S. Giovanni Crisostomo, sparsi nelle sue omelie. La scuola antiochena ha inaugurato la spiegazione razionale dei dogmi, ma si è lasciata trascinare da varie dottrine esposte principalmente da Teodoro di Mopsuestia e condannate in più sinodi, in primo luogo da quello ecumenico di Efeso (431).
La liturgia di Antiochia, derivata, per quanto si può dire, da quella iniziatasi in Gerusalemme, sviluppatasi nel decorso dei sei primi secoli, diede origine ad uno dei cinque riti orientali: l'antiocheno, con molta improprietà chiamato da alcuni moderni "siro", "siriaco". Prescindendo da documenti come forse la Didachè e le Costituzioni apostoliche (v. apostolo), il tipo del formulario per il sacrificio eucaristico è la cosiddetta Liturgia di S. Giacomo, attribuita a quell'apostolo soltanto per motivo di venerazione, ma che in realtà si è lentamente sviluppata nei primi secoli. Scritta originariamente in greco, fu ben presto tradotta anche in siriaco, lingua volgare non soltanto delle campagne, ma dei sobborghi delle grandi città e di uso famigliare nelle piccole. L'ufficiatura ebbe parecchi grandi innografi, per esempio in greco S. Romano di Emesa (sec. VI), e il patriarca Severo (512-518), ben presto cacciato dalla sede a motivo del suo monofisismo; e in siriaco S. Efrem (morto il 9 giugno 373). Gli inni o κοντάκια di S. Romano rimasero in uso fino all'introduzione del rito bizantino o poco prima, presso i cattolici, mentre i monofisiti traducevano in siriaco quelli di Severo. Quelli di S. Efrem furono adoperati soltanto dalla parte del patriarcato rimasta di lingua siriaca. Non si deve dimenticare che S. Giovanni Damasceno, antiocheno di giurisdizione ecclesiastica, è stato l'ordinatore dell'Ottoico (v.), ossia ufficio comune della settimana. Il rito antiocheno è stato adoperato da tutte le frazioni occidentali del patriarcato di Antiochia: ma mentre i giacobiti ed i monoteliti, ossia maroniti, lo hanno conservato fino ai nostri giorni, gli ortodossi, o melkiti, l'abbandonarono pian piano, durante il periodo tra il sec. X e il XIII, per quello di Costantinopoli. Le chiese della Persia ebbero di buon'ora un rito speciale, che si avvicina più o meno all'antiocheno, ma ne è abbastanza diverso per essere classificato a parte e formare il quarto dei riti orientali, il caldeo. Il rito di Antiochia, finalmente, diede in parte origine a quello di Bisanzio ed a quello degli Armeni.
Le controversie nestoriane avevano in parte cagionato la scissione della Persia dal patriarcato di Antiochia; l'eresia monofisita diede origine ad un'altra grande divisione. La sede antiochena venne disputata tra i due partiti, i quali finalmente si separarono nel 543-544. Dal nome del principale organizzatore della loro gerarchia, Giacomo Baradeo, i monofisiti ricevettero il nome di giacobiti. Essi aspiravano ad un cambiamento di dominio, per sottrarsi alla persecuzione; e diedero ai loro avversarî, rimasti fedeli alla Chiesa cattolica, il nomignolo di melkiti, ossia parteggianti per l'imperatore (gr. Βασιλεύς, siriaco malakh "re") di Costantinopoli. Originaria dell'Egitto nel sec. IV, quella denominazione si estese rapidamente alla Siria, ed è tuttora in uso. I melkiti, sia ortodossi non cattolici, sia cattolici, rappresentano oggi lo stipite storicamente e canonicamente autentico del patriarcato di Antiochia.
Le divisioni religiose erano state in parte un pretesto a rivendicazioni politiche: e l'anarchia religiosa e politica della Siria agevolò ancora di molto la conquista musulmana (638). I musulmani, stabilitisi in Damasco come centro del governo (dinastia degli Omayyadi), lasciarono le cose, dal lato religioso, nello stato in cui le avevano trovate. Gli Omayyadi non furono persecutori, e per la prima volta i cristiani conobbero la libertà di coscienza; ma non seppero approfittarne e continuarono a combattersi gli uni contro gli altri. Il monotelismo, imposto dall'imperatore Eraclio (619-641), condannato dapprima a Roma, poi nel concilio ecumenico di Costantinopoli del 681, scomparve pian piano dappertutto fuorché in Siria. Già a motivo delle continue guerre tra i due imperi arabo e bizantino, i califfi di Damasco avevano proibito ai melkiti di darsi un patriarca, e la sede melkita di Antiochia rimase vacante dal 702 al 742. Ne approfittarono i monoteliti. Il grande monastero di S. Marone, vicino ad Apamea, colmato di favori dagli imperatori e specialmente da Giustiniano, era stato il baluardo dell'ortodossia cattolica nel periodo delle controversie monofisitiche. Quei monaci, fautori dell'imperatore e delle sue dottrine, abbracciarono con slancio il monotelismo propugnato da Eraclio. O non ebbero conoscenza delle sentenze che lo condannavano, o non ne capirono tutta la portata: il fatto è che approfittarono della vacanza prolungata della sede antiochena per darsi un patriarca particolare, il quale risiedeva nel loro monastero. Nel 744-745, il califfo lasciò i melkiti scegliersi per la seconda volta un patriarca, e l'eletto, Teofilatto bar Qanbārā, approfittò della sua elevazione per perseguitare violentemente i monaci di S. Marone. Il Libano era stato aperto a tutti gli scontenti dai Mardaiti, gli antichi Mardi di Senofonte, mandati dagl'imperatori di Bisanzio contro i califfi ed ivi fortificatisi. Con tutti i loro affittuarî, i monaci di S. Marone si rifugiarono pian piano nel Libano e vi organizzarono un aggregato di principati più o meno indipendenti, ed una chiesa autocefala, da loro detta chiesa maronita: ritornarono poi al cattolicismo, per influsso dei Crociati, nel 1182 (v. maroniti).
Il patriarcato ortodosso di Antiochia era ormai rappresentato dai soli melkiti. Dal sesto canone dell'VIII concilio ecumenico del 869-870, in cui Fozio fu condannato, appare che i tre patriarcati melkiti di Alessandria, Antiochia e Gerusalemme non parteciparono allo scisma. Anche quando Michele Cerulario di Costantinopoli si separò in modo definitivo da Roma (1054), il patriarca di Antiochia, Pietro III, non volle seguirlo. Le relazioni dei melkiti con i Crociati furono dapprima buone; ma il principe di Antiochia, Boemondo, desideroso di rendersi indipendente da Alessio Comneno di Costantinopoli, costrinse il patriarca melkita a rifugiarsi a Costantinopoli: in quella città risedettero i patriarchi per circa un secolo, fino al 1206-1207. Furono, come ben s'intende, del partito opposto all'unione con Roma, mentre in Siria i vescovi ed il popolo non si occupavano di questioni che, a loro parere, riguardavano unicamente il loro capo gerarchico. Così man mano, senza rottura ufficiale, cessarono le relazioni della chiesa melkita antiochena con la sede romana.
Al posto del patriarca melkita cacciato dalla città, i Crociati insediarono un patriarca latino (circa il 1100) che fu residenziale, con alcune sedi suffraganee, fino alla presa di Antiochia da parte del sultano mamelucco di Egitto, Baibars (1268), e alla fine del dominio dei Latini. Da quell'epoca, il patriarca latino di Antiochia non è che uno dei tanti prelati titolari della Chiesa occidentale.
Il patriarcato di Antiochia aveva contato, prima della conquista musulmana, dodici metropoli con suffraganei, cinque metropoli senza suffraganei, ossia autocefale, sette arcivescovadi semplici e due vescovadi esenti, con una popolazione di circa quattro milioni di anime. Nel sec. XIII, alla vigilia delle invasioni mongoliche, poteva contare ancora un centinaio di vescovadi e circa due milioni di anime. Quel numero andò sempre decrescendo con le guerre e le stragi di cristiani che ne erano la conseguenza. Il patriarcato fu rappresentato al concilio di Firenze (1439) dal celebre metropolita di Kiev, Isidoro, e l'unione, dapprima tenuta in sospetto, fu riconosciuta solennemente da un delegato dei tre patriarchi melkiti a Siena nel 1460, e potrebbe essere durata fino alla conquista ottomana del 1516.
Impadronitisi della Siria, gli Ottomani non avrebbero tollerato relazioni con Roma, ed il concilio di Firenze cadde pian piano in dimenticanza: ma nel 1584 un legato pontificio, il maltese Leonardo Abele, vescovo titolare di Sidonia, gettò i semi di un rinnovamento cattolico, ch'ebbe il suo centro nella città di Aleppo. L'arcivescovo di quella città, Melezio, diventato patriarca sotto il nome di Eutimio, strinse relazioni con i missionari latini, specialmente dopo lo stabilirsi in Aleppo dei cappuccini, dei gesuiti e dei carmelitani (1625-1626). Un movimento in favore del cattolicismo si formò pian piano, e nella seconda metà del sec. XVII parecchi vescovi si erano dichiarati cattolici, alcuni patriarchi avevano iniziato relazioni con la Propaganda Fide. Nel 1687 Atanasio III Dabbās fu confermato dalla Santa Sede, ma dovette cedere il posto a Cirillo V, il quale, a sua volta, abbracciò più o meno sinceramente il cattolicismo nel 1716. Nel 1720, Atanasio rimase unico possessore del trono patriarcale, ma non volle mai dichiararsi apertamente, se non in articulo mortis (1724). Il partito cattolico gli diede immediatamente un successore nella persona di Cirillo VI Tānās, ma il patriarcato di Costantinopoli ed i Fanarioti, allora potentissimi nei consigli della Porta, gli opposero Silvestro di Cipro. Il patriarca cattolico dovette rifugiarsi nel Libano, rimasto in uno stato di semi-indipendenza civile. I successori di Cirillo VI governarono la loro chiesa in mezzo a molte persecuzioni, almeno fuori del Libano, fino all'epoca della conquista egiziana della Siria (1831): gli Egiziani diedero la libertà di coscienza a tutti, e nel 1834 Massimo III Maẓlūm tornò in Damasco, centodieci anni dopo l'espulsione di Cirillo VI Tānās.
L'emancipazione civile dei cattolici dal giogo dei patriarchi ortodossi, concessa in quell'epoca dalla Porta dietro molte pressioni della Francia, dell'Austria e della Santa Sede, permise a Maẓlūm di riorganizzare la sua chiesa. Il suo successore Clemente Bahūth introdusse nel 1857 il calendario gregoriano per richiesta di Roma, ma in modo troppo subitaneo: gli scontenti della sua elevazione al patriarcato ne approfittarono per fomentare uno scisma, al quale pose fine Gregorio II Yūsuf (1864-1897) lasciando a tutti la libertà di accettare o no la riforma. Sotto Gregorio II venne fondato a Gerusalemme, dai missionarî d'Africa (Padri Bianchi) del cardinale Lavigerie, il seminario di S. Anna, che fu la culla di un nuovo clero meglio istruito e meglio formato.
Già dal 1772 il patriarca melkita di Antiochia esercitava la propria giurisdizione, a modo di delegazione della Santa Sede, anche sui melkiti dei due altri patriarcati di Gerusalemme e di Alessandria. Nel 1894, Leone XIII l'estese a tutto il territorio ottomano. Quello che più difettava era un concilio che desse al patriarcato una legislazione ben sistemata. Dopo molte lotte, poté essere tenuto nel 1909 dal patriarca Cirillo VIII Giaḥā, ma in modo tale che non venne approvato a Roma. La guerra mondiale cagionò molte sofferenze ai melkiti come a tutti i cristiani orientali: oggi il territorio del patriarcato è diviso tra la Siria sotto mandato francese, la Palestina sotto mandato inglese, l'emirato semi-indipendente della Transgiordania, ed il regno d'Egitto. Prima della guerra i melkiti cattolici potevano ascendere a 160.000; oggi saranno ridotti a circa 80.000, con 12 sedi metropolitane o vescovili ed alcuni vicariati patriarcali, compresi quelli di Damasco (residenza del patriarca), di Gerusalemme e di Egitto. Il clero secolare, quasi intieramente celibe, può contare oggi circa 175 sacerdoti: i religiosi, sia monaci (congregazioni basiliane dei soariti e degli aleppini) sia piuttosto chierici regolari con organizzazione monastica (congregazione dei salvatoriani) contano circa 250 membri, quasi tutti occupati nel ministero parrocchiale. Vi è di più una piccola società di missionarî all'interno con sei o sette membri. I monasteri femminili sono tutti del tipo contemplativo ed in istato di grande decadenza. Non esiste per adesso una congregazione con vita attiva: quasi tutte le opere sono in mano delle congregazioni latine.
Nel 1724, i melkiti ortodossi caddero nelle mani di una gerarchia in maggioranza greca di stirpe e di razza, benché il popolo sia tutto o quasi di stirpe siriana e di lingua araba. Nel 1899, un movimento appoggiato dalla Russia ha portato sul trono patriarcale ortodosso di Antiochia (residenza a Damasco, come per il patriarca cattolico) un indigeno. La Chiesa ortodossa melkita è in uno stato di decadenza profonda, perché i Greci non hanno mai fatto nulla per sollevarne il livello spirituale. I melkiti ortodossi contano 12 sedi metropolitane senza vescovadi suffraganei, conforme all'uso dei moderni Greci, con una popolazione che può ascendere a circa 200.000 anime per la sola Siria. I patriarcati ortodossi di Gerusalemme e di Alessandria, a differenza dei cattolici, sono rimasti separati da quello di Antiochia.
L'arte ad Antiochia.
Una così splendida metropoli non poteva non irradiare l'arte sua per larghissima zona ed influire sui centri più lontani. Oggi peraltro noi non possiamo giudicare direttamente dell'arte antiochena fuorché da poche sculture decorative sparse nella regione (miserrimi avanzi che si ricollegano alle correnti generali siriache) e soprattutto da oggetti d'arte minore, specie in argento. È di questi ultimi tempi la controversia sul cosiddetto calice d'Antiochia, che sarebbe stato viceversa rinvenuto non sull'area dell'antica città, ma in una località della Siria non bene precisata. Gli ultimi possessori del calice hanno voluto attribuirgli un'antichità fantastica. Alcuni studiosi, e fra questi il Wilpert, hanno mosso dubbî sull'autenticità dell'oggetto. È peraltro verisimile che si tratti di un prodotto del sec. V-VI che ha comune l'ornato con tante sculture della prima età d'oro bizantina. È di questa corrente artistica anche il mosaico scoperto a Habr Hiram. Alcuni capitelli di S. Marco di Venezia e gli stessi pilastri d'Acri sulla piazzetta di S. Marco, rapiti dai Veneziani alle città d'Oltremare, hanno senza dubbio l'impronta dell'arte antiochena, caratterizzata dall'eccesso dell'ornato che tende di continuo ad effetti di policromia ottenuti con i sottosquadra, con il lavoro a trapano, con il variare dei materiali e quasi certamente anche con applicazioni di colore. Si ricordino inoltre gli accenni del Crisostomo alla passione per la figura umana, e all'abuso del ritratto.
Per la parte architettonica, non sono più che un lontano ricordo le chiese magnifiche descritte ed esaltate da Eusebio, dal Crisostomo da Malala, dallo pseudo Antonino di Piacenza. Fra esse aveva maggiore importanza la grande chiesa, l'"Apostolica", il dominicum aureum, eretta nel 331 da Costantino e terminata sotto il regno di Costanzo. Danneggiata nel terremoto del 526 e poi presto restaurata, non fu tocca nell'occupazione di Cosroe. Sappiamo che l'edificio, assai elevato, si trovava nel mezzo di un ampio recinto. La costruzione era a pianta centrale ottagona con tribune semicircolari. Questo "edificio unico per grandezza e bellezza" (al dire di Eusebio) era coperto da tutto lo sfarzo della decorazione orientale. Colonne, pareti e pavimenti erano materiati di marmi rari. Oro e bronzo erano impiegati con profusione mai vista. La copertura dell'edificio era a cupola (σϕαιροειδές, dice Teofane nel Cronografo, in Patr. gr., CVIII, col. 111) e aveva un rivestimento di lamine d'oro. La resistenza di questa cupola non fu pari alla sua arditezza. Nel terremoto del 526 essa crollò e fu ricostruita da un architetto di nome Efrem che devastò il boschetto sacro di Dafne per fare l'armatura di legno di cipresso. L'altare della basilica era volto ad occidente e non ad oriente.
Altro sacrario celebre posto fuori della città, oltre il fiume Oronte, era il martyrium di S. Babila (Evagrio, Hist. eccl., I, 16, in Patr. gr:, LXXXVI, col. 2468). Costruito presso il boschetto di Apollo, fece ammutolire il centro oracolare pagano e cessare ogni pratica divinatoria (Sozomeno, Hist. eccl., V, 19 in Patrologia graeca, LXVII, col. 1271 segg.). I pellegrinaggi al santuario disturbarono i convegni amorosi sulla strada di Dafne.
Lo pseudo Antonino di Piacenza parla di tutti questi santuarî e della chiesa dei Maccabei (Geyer, Itinera hierosolymitana, Vienna 1898, p. 190). Altri santuarî molto antichi erano: la chiesa della Madonna; la chiesa dei Ss. Cosma e Damiano; la chiesa di Cassiano; la chiesa di S. Ignazio, già tempio della Tyche; la chiesa di S. Stefano protomartire ad ovest della Citta; il martyrium di S. Leonzio; la chiesa di S. Tecla; la chiesa di S. Romano; la chiesa di S. Simeone; la chiesa ove, ai tempi di Melezio, officiava il vescovo Paolino, posta su di un'isola formata dall'Oronte; la chiesa di San Pietro posta su di una collina; la chiesa di S. Giovanni scavata nella roccia: la chiesa suburbana di S. Giuliano; la chiesa del Prodromo (con battistero) nel vicus Tiberinus; la chiesa di S. Michele a Dafne; un'altra chiesa giustinianea di Dafne. Più lontano, verso Aleppo, a un giorno di cammino da Antiochia, si trovano ancora i resti del celebre monastero di S. Simeone Stilita (Qal'at Sem'ān) sorto nel sec. V attorno alla colonna su cui visse il grande asceta.
Bibl.: E. R. Bevan, The House of Seleucus, Londra 1902, I, p. 179 segg., ecc.; A. Bouché-Leclerq, Hist. des Seleucides, Parigi 1913-14, p. 32 segg., ecc.; Ch. Diehl, Justinien et la civil. Byzantine, Parigi 1901, p. 567 segg.; S. Krauss, Antioche, in Revue des Études Juives, XLV (1902), p. 27 segg.; Förster, Antiochia an Orontes, in Jahrb. kais. deutsch. Archäol. Instituts, XII (1897), p. 103 segg. - Sempre fondamentale O. Müller, Antiquitates Antiochenae, in Comm. Societ. reg. Scient. Gotting., VIII (1841), p. 205 segg.
Per Antiochia musulmana, v. L. Caetani, Annali dell'Islām, III, Milano 1910, p. 795; G. Weil, Geschichte der Chalifen, I, pp. 79-86; III, pp. 163-169; A. Müller, Der Islam im Morgen-und Abendland, I, Berlino 1885, p. 259; R. Röhricht, Geschichte des Königreiches Jerusalem, Innsbruck 1898, passim; id., Geschichte des ersten Kreuzuges, Innsbruck 1901, pp. 108-152.
Sulla Tyche di Antiochia, v. Paus., II, 6; Malal., p. 200; Baumeister, Denkmäler, I, p. 519; da questa statua colossale derivarono numerose riproduzioni di marmo bronzo, e argento, cfr. Gardner, in Journal of Hellen. Studies, IX (1888), p. 75 segg. e tav. V.
Per la numismatica, v. V. B. Head, Hist. num., 2ª ed., Oxford 1911, p. 778 segg.
Per il patriarcato: C. Korovolevskij, Histoire des Patriarcats melkites, II, i, Roma 1910; III, Roma 1911: id., Antioche, in Dict. d'Histoire et de Géographie ecclésiast., III, coll. 563-703, con abbondante bibliografia ed una lista critica dei patriarchi melkiti sia ortodossi sia cattolici; v. anche giacobiti e maroniti.
Per l'arte antiochena: J. Strzygowski, Antiochemische Kunst, in Oriens Christianus, 1915; L. Bréhier, Les trésors d'argenterie syrienne et l'école artistique d'Antiochie, in Gazette des Beaux Arts, marzo 1920. Sul calice d'Antiochia in particolare, G. de Jerphanion, Le calice d'Antioche, in Orientalia Christiana, VII, n. 27, Roma 1926, e J. Wilpert, Antichità moderne, in Riv. di Archeol. cristiana, IV, nn. 3 e 4.
Per i martiri antiocheni e i loro santuarî, v. R. Delahaye, Les origines du culte des martyrs, Bruxelles 1912, p. 224 segg.