Antioco il Grande
Il nome di Antioco III re di Siria (223-187 a.C.), detto il Grande, ricorre alcune volte nei Discorsi e nel Principe (il riferimento nell’Arte della guerra è marginale): il suo ruolo di importante nemico di Roma ne fa una figura funzionale a esaltare la virtù politica e militare dell’antica Repubblica.
La conquista della Grecia e il dominio sull’Oriente rappresentarono, come si legge nei Discorsi, l’ultima prova superando la quale definitivamente si affermò la grandezza romana: «Dopo la quale vittoria non restò in tutto il mondo né principe né republica che di per sé o tutti insieme che si potessero opporre alle forze romane» (Discorsi II i 19). La fonte di M. è Tito Livio (XXXII-XXXVI), che narra del tentativo di A. di inserirsi nella seconda guerra macedonica tra Roma e Filippo V a fianco di quest’ultimo, per espandere i propri domini verso l’Europa; e soprattutto, dopo la vittoria dei Romani (197 a.C.), della successiva guerra siriaca, che vide contrapposte, una volta abbattuta Cartagine, le due maggiori potenze che si affacciavano sul Mediterraneo e che si concluse con la sconfitta di A. (189 a.C.).
Nel Principe alcune caratteristiche della strategia romana nella campagna di Grecia vengono evidenziate ed elevate a regole da seguire. Nel capitolo iii, da cui sono tratte le citazioni che seguono, si raccomanda a chi intenda ‘occupare una regione’ di non permettere che in quel territorio un potente accresca la propria forza, tanto più se si tratta di un forestiero, che potrebbe essere accolto dagli abitanti del luogo come un possibile alleato contro i conquistatori (esattamente come avveniva in Grecia nel caso di Antioco, la cui presenza poteva costituire un’alternativa per i Greci scontenti del dominio romano). Di qui una norma di ordine più generale, ricavata dall’esempio dei Romani, che fecero «quello che tutti e’ principi savi debbono fare»: superare i pericoli presenti, e soprattutto prevedere le minacce future, e a quelle «con ogni industria ovviare», perché una volta cresciute è impossibile porvi rimedio. Questo precetto prudenziale fu seguito dai Romani nelle stesse vicende delle guerre contro Filippo e A., a cui non fu permesso di portare il conflitto in Italia, dove sarebbe stato più pericoloso per lo Stato romano: essi vennero affrontati, e sul loro terreno, non appena si manifestarono come minaccia, «perché [...] la guerra non si lieva, ma si differisce a vantaggio d’altri».
Questo tema si intreccia in parte con l’altro riferimento ad A. che ricorre nel capitolo xxi del Principe, dove M. tratta un argomento a lui assai caro (e la citazione latina di Livio lo dimostra), ossia quello della perniciosità delle ‘vie di mezzo’; anche in questo caso risulta esemplare lo scontro tra A. e Roma.
M. ricorda come A., chiamato in Grecia dagli Etoli per sostenere la guerra contro i Romani, esortò gli Achei alla neutralità, mentre gli ambasciatori romani li avvertirono di quanto dannosa fosse una simile posizione, che li avrebbe portati a essere il premio del vincitore, senza dignità e rispetto. «E sempre interverrà che colui che non è amico ti ricercherà della neutralità, e quello che ti è amico ti richiederà che ti scuopra con le arme» (xxi 16). M. registra la lezione degli antichi e la consegna alla politologia: non aderire a nessuna delle due parti in lotta finisce fatalmente per provocare risentimento in entrambi i contendenti e porta alla rovina di chi è rimasto fuori dalla mischia. Chi vince infatti non vuole amici inaffidabili e di nessun aiuto nelle avversità, mentre si ricorderà con benevolenza di chi si è mostrato utile nella guerra. Evitare dunque la neutralità e scoprirsi «gagliardamente in favore di una parte» sarà sempre più vantaggioso, perfino nella disfatta, «perché diventi compagno d’una fortuna che può resurgere» (xxi 19).