CLEMENTE VII, antipapa
Roberto di Ginevra, di illustre famiglia feudale che faceva risalire la sua affermazione politica all'epoca carolingia, nacque nel castello di Annecy nell'anno 1342, ultimo di cinque figli, da Amedeo III, conte del Genevese, e da Marie de Boulogne. Egli era unito da legami di parentela o di affinità alle maggiori famiglie europee, da quella reale di Francia a quella dei conti del Lussemburgo (una sua nonna, Maria di Brabante, era cognata dell'imperatore Enrico VII); al fonte battesimale gli fu imposto il nome del nonno materno, conte di Alvernia e di Boulogne. Destinato sin dall'infanzia alla carriera ecclesiastica, a otto anni faceva già parte della famiglia del potente zio, il cardinale Guy de Boulogne; a undici presentò a papa Innocenzo VI una supplica per ottenere un beneficio ad uno dei suoi familiari. Negli anni successivi completò la sua formazione culturale; tra l'altro, si ritiene che abbia studiato diritto canonicopresso lo Studio di Parigi, quando risiedette in quella città come canonico di Notre-Dame. Notaio papale a diciotto anni, a diciannove era arcidiacono di Astorga, cancelliere della Chiesa di Amiens, decano di Saint-Martin e prevosto di Léré in diocesi di Tours, nonché prevosto di Saint-Barthélemy di Béthune in diocesi di Arras. A tutti questi benefici dovette rinunziare allorché, il 3 nov. 1361, dopo avergli concesso la dispensa necessaria per la sua giovane età, Innocenzo VI lo creò vescovo di Thérouanne, diocesi fiamminga fra la Canche e l'Yser, e città dalla quale dipendeva Boulogne, assai cara allo zio card. Guy de Boulogne, e ritenuta molto ricca (la Camera apostolica valutava a 15.000 fiorini le sue rendite annuali).
Il nuovo presule, tuttavia, non si stabilì nella sua sede episcopale, ma governò la sua diocesi per mezzo di un vicario generale, che fu un suo antico compagno di studi di Parigi, Jean de Murol, arcidiacono di Praga; egli preferì infatti rimanere presso la sede della corte papale, ad Avignone, dove da allora risiedette abitualmente nell'abitazione dello zio cardinale. In nome di quest'ultimo Roberto intervenne regolarmente come esecutore di numerose grazie richieste; ma in particolare si preoccupò di far eseguire le grazie richieste da alcune diocesi, quelle della sua terra d'origine, Sion, Losanna, Basilea, ma soprattutto Ginevra. L'11 ott. 1368 Urbano V lo trasferì alla sede di Cambrai, che era più importante e più ricca di quella di Thérouanne (la Camera apostolica ne stimava il reddito annuo a 18.000 fiorini). Tale promozione, tuttavia, non modificò la vita del giovane prelato, il quale rimase ad Avignone ed inviò a Cambrai, come suo vicario generale, il fidato Jean de Murol. Solo intorno al 1370 avrebbe lasciato la corte pontificia per compiere una visita pastorale nella sua nuova diocesi.
Dalle lettere di Gregorio XI (il nuovo papa, succeduto a Urbano V morto il 19 dic. 1370) veniamo a sapere che, nel corso di questa visita pastorale, Roberto, uscito dai confini della diocesi di Cambrai, era stato catturato e tenuto prigioniero nel castello di Quiévrechain nello Hainaut. Qui, sotto la pressione delle minacce e della paura, si era lasciato estorcere concessioni ai danni della sua Chiesa (in un secondo tempo il pontefice sarebbe intervenuto in sua difesa, ed avrebbe scomunicato gli aggressori).
Il 31 maggio 1371 Roberto di Ginevra venne elevato alla porpora da Gregorio XI e creato cardinale prete del titolo dei Dodici Apostoli. L'importanza della sua posizione alla corte avignonese e il favore di cui godeva presso il pontefice sono chiaramente testimoniati dai benefici che gli furono attribuiti a partire da questo momento: gli arcidiaconati, nelle sue antiche diocesi, di Cambrésis e di Fiandra, e poi quelli di Lione, in Francia, e di Dorset in Inghilterra; un canonicato con prebenda a Bonn ed un'aspettativa a Colonia, in Germania; la prevostura di S. Donaziano di Bruges (diocesi di Tournai); il rettorato di Orten e di Bois-le-Duc (diocesi di Liegi); alcuni priorati, come quelli di Vico de Sos (diocesi di Pamiers), di Bollène (diocesi di Avignone), di Etoy e di Payerne (Vaud), di Douvaine (Savoia). Notevole una concessione dell'8 sett. 1371, con cui Gregorio XI gli conferì benefici per una somma che non doveva superare 4.000 fiorini, da dividere tra le diocesi di York, in Inghilterra, di Vienne, in Francia, e di Salisburgo, ma ciascuna di queste Chiese avrebbe dovuto concedergli un beneficio; ed altrettanto avrebbero dovuto fare le diocesi della Scozia. Non sappiamo se il nuovo cardinale si sia circondato di quel fasto, che la sua posizione gli avrebbe permesso; sappiamo però che egli, oltre a quella di Avignone, possedeva una seconda residenza a Villeneuve-lès-Avignon, e che aveva inoltre nella contea di Ginevra almeno i castelli di Beauregard e di Gaillard (quest'ultimo fu in seguito permutato con quello di Cruseilles). Poco dopo essere stato creato cardinale, Roberto si recò ad Annecy, dove soggiornò per qualche tempo presso la madre Mahaut ed il fratello Pietro, divenuto nel 1370 conte del Genevese.
Motivi di interesse e di politica familiaredovevano aver indotto il nuovo cardinale a lasciare la corte avignonese. Suo padre, il conte Amedeo III, era infatti morto nel 1367: in rapida sequenza si erano succeduti alla testa della contea i fratelli maggiori di Roberto: Aimone, scomparso subito dopo il padre; Amedeo IV (m. 1369), Giovanni (m. 1370), e Pietro. Giovanni, prima di morire, aveva sì nominato suo erede universale il fratello Pietro, ma aveva indicato in Roberto l'erede presuntivo di quest'ultimo. Fra il 3 e il 5 dic. 1371 Roberto costituì la commissione che dette esecuzione al testamento del padre.
Al suo rientro in Avignone il giovane cardinale si vide affidare alcuni incarichi di notevole rilievo: tra essi si ricordano qui la missione relativa al ristabilimento della pace tra il conte di Savoia, Amedeo VI, ed il marchese di Saluzzo, per la quale aveva ricevuto dal papa i pieni poteri (16 maggio 1374), e quella relativa ai negoziati con Firenze (un dispaccio della Signoria in data 8 luglio 1375 prova che Roberto di Ginevra aveva cercato di evitare che lo stato di tensione esistente fra la Chiesa e il Comune fiorentino sfociasse in conflitto aperto). Il pontefice dovette rimanere soddisfatto dell'abilità dimostrata dal suo inviato, se nel 1376, in un momento particolarmente critico per il potere temporale della Chiesa in Italia, minacciato allora, dopo l'efficace azione restauratrice promossa dal card. Albornoz, da Firenze e da Milano, lo creò legato pontificio per la Romagna e la Marca.
Era allora in atto la guerra degli Otto Santi: Firenze - che si riprometteva verosimilmente di estendere la sua signoria sulle fertili terre umbre di dominio pontificio - aveva dato inizio al conflitto, dopo aver saputo sapientemente sfruttare il malcontento delle città suddite della Chiesa ed averne appoggiato e fomentato le tendenze autonomistiche ed i movimenti secessionisti. La sostennero nella lotta Barnabò Visconti, signore di Milano, i Comuni toscani, quasi tutti i signori e le città suddite del pontefice, che tra il 3 dic. 1375 ed il 20 marzo 1376 si sollevarono tutte - tranne Ascoli e Foligno - al loro legittimo sovrano, cacciando le sue guarnigioni ed accedendo alla lega capeggiata da Firenze. Il compito assegnato da Gregorio XI al cardinale di Ginevra - così Roberto fu comunemente chiamato dai suoi contemporanei - era dunque quello di restaurare l'autorità pontificia in Romagna, nella Marca e nel Bolognese, riportando all'obbedienza i rivoltosi, di pacificare l'Italia centrale rintuzzando le manovre di Firenze; e di preparare in tal modo le condizioni necessarie per il ritorno definitivo del papa e della Sede apostolica a Roma, già deciso da tempo.
Il cardinale cominciò con l'arruolare al servizio della Chiesa le bande dei mercenari bretoni di Jean de Malestroit e di Silvestro Budes, che, rimaste senza ingaggi per la stasi nel conflitto franco-inglese, minacciavano allora di devastare la valle del Rodano e la stessa Avignone (maggio del 1376). I contingenti di venturieri, che il cardinale di Ginevra passò in rivista a Carpentras, ricevettero per due mesi uno stipendio di 31.000 fiorini complessivi; un nuovo contratto, stipulato nell'estate del 1376, prevedeva una condotta di sei mesi ed un soldo di diciotto fiorini mensili per ogni "lancia". Preparata in tal modo la spedizione, il legato mosse quindi dalla Provenza, attraversò il Delfinato, le Alpi, la Lombardia, e si presentò nell'Emilia alla testa del suo corpo d'esercito forte di circa 10.000 uomini, preceduto da una fama di selvaggia ferocia e di efficienza militare. Erano chiari i suoi due primi obiettivi: congiungersi con la compagnia di Giovanni Acuto e riconquistare Bologna, ribellatasi alla Chiesa il 20 marzo 1376 e subito passata alla lega capeggiata da Firenze.
Quest'ultima, prevedendo il pericolo, aveva cercato di indurre Barnabò Visconti a negare al cardinale il passaggio per i territori di dominio milanese; ma inutilmente. Il 3 luglio Roberto di Ginevra entrò in Modena, il 4 iniziava l'invasione del territorio bolognese. La lotta si concentrò subito intorno a Bologna, città in cui si era rinchiuso Roberto da Camerino, comandante generale della lega antipontificia: la città fu cinta d'assedio mentre le campagne venivano sottoposte a selvagge devastazioni e le popolazioni taglieggiate e terrorizzate. Il fallimento di una congiura per rovesciare il gruppo al potere e restituire la città alla Chiesa, congiura ordita dal cardinal legato d'intesa col marchese d'Este e con la fazione dei Maltraverso (11 settembre), ma ancor più la durissima repressione che le tenne dietro indussero Roberto di Ginevra ad accentuare le durezze dell'assedio e a rendere ancora più drastiche le misure contro gli avversari - fossero civili o no -, nella speranza di poterli più facilmente convincere a cedere grazie all'uso indiscriminato del terrore (massacro di Montegiorgio).
Accanto alle vie dell'intransigenza implacabile, il legato nonmancò tuttavia di tentare anche quelle della diplomazia, avviando personalmente negoziati, tra l'altro, conMilano e con Napoli. Le trattative con Milano si conclusero con un accordo, che venne sottoscritto ad Oliveto di Val Salmaggia, il 9 luglio 1376, nello stesso accampamento del cardinale di Ginevra, alla presenza del protonotaro pontificio Stefano Colonna e del cancelliere del Regno di Napoli, Niccolò Spinelli. Anche per la questione del Monferrato si giunse ad un compromesso, che Roberto di Ginevra rese di pubblica ragione il 28 ottobre successivo: Galeazzo Visconti rinunziò allesue pretese in cambio del matrimonio di sua figlia Violante con Secondotto, figlio del marchese Giovanni II.
Interrotte, per ordine di Gregorio XI che si disponeva a rientrare definitivamente in Italia, le operazioni di assedio intorno a Bologna, del resto validamente sostenuta dai Fiorentini, Roberto di Ginevra si ritirò col suo corpo d'esercito nella Marca e nella Romagna, dove pose i suoi quartieri d'inverno, concentrando le sue truppe fra Cesena, Forlì, Faenza e Rimini. Il ritorno a Roma del papa (17 genn. 1377), se tolse agli avversari del pontefice - e, in particolare, a Firenze - una delle principali motivazioni di lotta, non valse tuttavia - almeno per il momento - a riportare la pace nella penisola. La guerra continuò a insanguinare laMarca, l'Emilia e la Romagna, dove si fronteggiavano i dueopposti eserciti. D'altra parte, i mercenari al soldo della Chiesa, ricevessero o meno le paghe pattuite, seguitarono a devastare campagne ed abitati, taglieggiando e infierendo su quelle popolazioni che avrebbero dovuto difendere. Le selvagge angherie dei bretoni del cardinal legato e degli inglesi di Giovanni Acuto provocarono odi e risentimenti, che non dovevano tardare ad esplodere in aperta rivolta. Ciò avvenne proprio a Cesena, dove Roberto di Ginevra aveva posto la sua residenza. Qui, il 2 febbr. 1377, provocati da un trascurabile contrasto sorto fra mercenari bretoni ed alcuni macellai, scoppiarono tumulti, che non si riuscì a sedare rapidamente, e ben presto tutta la città insorse in armi. Negli scontri, che si susseguirono nel corso di tutta la giornata, i mercenari ebbero la peggio: molti di loro trovarono scampo, insieme con il cardinal legato, nella cittadella, dove si asserragliarono; gli altri, parecchie centinaia (i cronisti contemporanei parlano di trecento o quattrocento "bretoni"), perirono in combattimento o vennero linciati dalla folla. La rivolta fu tuttavia soffocata dai soldati della compagnia di ventura di Giovanni Acuto, che Roberto di Ginevra aveva fatto subito chiamare in soccorso da Faenza. Alla repressione seguì la rappresaglia sui civili, che fu tremenda: la città ed i suoi abitanti furono abbandonati alle soldatesche "inglesi" ed ai "bretoni", usciti dalla cittadella avidi di vendetta. Il 3 di febbraio cominciò il sacco, e con esso il massacro degli abitanti di Cesena, che pure avevano deposto le armi con la promessa del perdono. Non furono risparmiati né donne né bambini. Dopo tre giorni di sangue la città era ridotta a un silenzio innaturale; impossibile a calcolarsi il numero degli uccisi, che furono forse oltre quattromila. Ancora l'anno successivo, così riportano i cronisti contemporanei, nei granai, nelle cisterne, sul greto dei fiumi, si trovavano i miseri resti delle vittime dell'eccidio.
Le responsabilità dirette del cardinale di Ginevra per questo atroce fatto di sangue vennero denunziate senza mezzi termini già il giorno 8 febbraio, in una lettera che il Comune di Firenze inviò, per informarle dell'accaduto, alle città alleate, Perugia, Arezzo, Fermo, Ascoli, Siena. Nel dispaccio, infatti, si mette in rilievo il consenso al massacro dato dal legato - "permittente domino Gebennensi" -, e si sottolinea la vergogna eterna, che dovrà ricadere su colui che ha permesso l'eccidio: "0 aeternum dedecus consentientium!". Tuttavia, gli autori della lettera contrappongono alla figura e alle responsabilità del cardinal legato quelle degli autori materiali della strage, che vengono definiti "non homines, sed monstra teterrima": i mercenari, cioè, comandati da capi come Jean de Malestroit, Silvestre Budes, Giovanni Acuto, e lo stesso Alberico da Barbiano, allora al seguito, con duecento lance, del condottiero inglese. Alcune settimane dopo, sia la successiva lettera del 21 febbraio, indirizzata al re di Francia ed agli altri principi europei per informarli dell'accaduto, sia l'epistola del Salutati ai Romani, del 25 marzo, ribadiscono le responsabilità del legato: ora egli avrebbe non "permesso" ma fatto compiere l'eccidio di propria iniziativa. Le loro affermazioni sono confermate dalla concorde testimonianza delle fonti coeve - tutte italiane, però, e per lo più ostili al cardinale di Ginevra. Secondo una di queste ultime, Giovanni Acuto, non intendendo rinnovare gli orrori del sacco di Faenza, compiuto dai suoi soldati l'anno precedente, si sarebbe offerto di consegnare al cardinale i responsabili della rivolta, ma avrebbe urtato contro l'ostinata volontà di rivalsa del prelato. "Voglio sangue, sangue e giustizia!", avrebbe risposto al condottiero Roberto di Ginevra. Per quanto poco oggettivo possa esser questo racconto, più sincera sembra la reazione della Cronaca di Bologna (edita dal Sorbelli), nella quale è scritto: "Quasi la gente non volea più credere né in papa né in cardinali: perché queste erano cosa da uscire di fede".
Per quanto Firenze avtsse cercato di sfruttare a suo vantaggio l'ondata di generale riprovazione che seguì le stragi di Cesena, questo atroce fatto di sangue non sortì altro effetto che quello di raffreddare gli entusiasmi degli avversari della Chiesa per la causa propugnata dalla città toscana. Bologna si acconciò ad avviare trattative col cardinal legato: Roberto di Ginevra il 17 di marzo firmò una tregua con la città ribelle, tregua che fu convertita in pace il 4 luglio successivo. L'esempio di Bologna fu ben presto seguito dagli altri Comuni e dai signori della Romagna e delle Marche, mentre Roberto di Ginevra, per poter pagare le sue milizie ed impedire così nuovi saccheggi ed ulteriori violenze ai danni della popolazione civile, prendeva la decisione di vendere la sua argenteria, la sua mitra, i suoi gioielli (novembre 1377). Nel marzo del 1378 - Roberto era rientrato in Curia il 13 - il convegno di Sarzana preparò la pace tra Firenze e la Chiesa, pace che, voluta da Gregorio XI, venne tuttavia sottoscritta a Tivoli dal suo succescessore, Urbano VI, il 26 luglio di quello stesso anno. In un dispaccio al re di Francia il governo fiorentino poneva in evidenza il fatto che tale pace era stata stipulata sotto gli auspici del cardinale di Ginevra: tale notizia deve tuttavia con ogni probabilità interpretarsi come una mossa propagandistica dello stesso governo fiorentino.
La prematura scomparsa di Gregorio XI, morto il 27 marzo 1378, colse la Chiesa in un momento di grave crisi: voci di contestazione e fermenti scismatici si erano già fatti sentire durante la permanenza avignonese di Gregorio XI, ed il pontefice ne era stato tanto conscio, che aveva fatto quanto stava in lui per evitare dissensi che portassero a lacerazioni difficilmente sanabili e per assicurare una pronta e concorde elezione del suo successore. Il 19 marzo 1378 aveva infatti emanato la bolla Futuris periculis, con la quale stabiliva, fra l'altro, che subito dopo la sua morte i cardinali presenti in Curia si sarebbero dovuti riunire nel luogo che avessero ritenuto più opportuno, ed avrebbero potuto eleggere il suo successore nel più breve tempo possibile e a maggioranza semplice. Quest'ultima era un'innovazione di particolare momento, perché modificava le disposizioni del diritto da due secoli vigente, che richiedevano invece, per l'elezione del pontefice, la maggioranza dei due terzi. A parte il fatto che per procedere all'elezione del nuovo papa non si attesero gli assenti da Roma - sei porporati erano rimasti ad Avignone, ed uno si trovava presso Pisa per i negoziati di pace -, dai documenti coevi da noi conosciuti non risulta invece che i cardinali abbiano fatto uso dei poteri e delle deroghe alle norme canoniche loro concessi dalla bolla, soprattutto per quanto riguardava il calcolo della maggioranza; anzi, non è nemmeno provato che essi fossero a conoscenza della bolla stessa. Tale modo di procedere seguito dal Sacro Collegio si deve molto probabilmente spiegare, da un lato, con la profonda formazione giuridica dei cardinali, quasi tutti canonisti di fama; e dall'altro, con il peso della tradizione di rigoroso rispetto delle norme che, a partire dal 1179, avevano regolato le elezioni papali. Ad ogni modo la designazione del successore di Gregorio XI fu unanime e pronta quanto l'aveva desiderata il defunto pontefice: apertosi il conclave la sera del 7 aprile, già prima del mezzogiorno dell'8 la maggioranza dei consensi si raccolse sul nome di un prelato estraneo al Sacro Collegio, Bartolomeo Prignano, arcivescovo di Bari, che venne eletto con quindici voti su sedici; negò il suo suffragio il solo card. Giacomo Orsini, romano. I lavori del conclave si svolsero e si conclusero fra tumulti popolari e manifestazioni di piazza: storia troppo conosciuta perché sia necessario ricordarla dettagliatamente. Ci si limiterà qui, pertanto, a porre in evidenza il ruolo che in questi avvenimenti ebbe il cardinale dei Dodici Apostoli.Roberto di Ginevra, cui importava soprattutto infliggere una sconfitta decisiva al partito limosino, spezzando finalmente la tradizione che da Clemente VI a Gregorio XI, voleva un papa appartenente generalmente alla famiglia Roger o comunque ad essa legato, ebbe certamente una parte di rilievo nelle trattative e nei maneggi avviati dai cardinali in vista del prossimo conclave già prima della morte di papa Gregorio XI. In quanto principale esponente della frazione "gallica" del Sacro Collegio, il cardinale di Ginevra si recò dal vecchio cardinale Francesco Tebaldeschi, il quale era allora immobilizzato da una malattia, per proporgli di appoggiare, col suo suffragio, la candidatura di un prelato italiano estraneo al Sacro Collegio, l'arcivescovo di Bari. Questi, legato per la sua origine partenopea agli Angiò di Napoli, era molto noto in Avignone ed in Roma, dove aveva ricoperto importanti incarichi per conto della Curia. In alternativa - anche se in via subordinata - alla candidatura del vescovo di Bari, il cardinale di Ginevra prospettò al Tebaldeschi la propria, che poteva apparire vantaggiosa, dato che la sua famiglia dominava su terre confinanti con l'Italia. L'adesione dell'anziano porporato era molto importante per il partito "gallico": nipote di Giacomo Stefaneschi, già priore dei canonici di S. Pietro, e vicario papale della città eterna, il Tebaldeschi era il più romano dei cardinali presenti nella città, e romano "o almanco italiano" doveva essere il nuovo papa, secondo quanto chiedevano le magistrature municipali ed esigeva, tumultuando, il popolo dell'Urbe. Come molti dei cardinali francesi, Roberto di Ginevra non dovette cogliere il valore e il peso dei motivi che spingevano i Romani a rifiutare la prospettiva di un pontefice straniero, né dovette comprendere il significato profondo delle loro richieste. Come altri cardinali francesi, si sdegnò del fatto che circolassero per Roma popolani armati, venuti dal Lazio per seguire i lavori del conclave e salutare il nuovo papa. La presenza, accanto alle milizie cittadine e agli armigeri delle magistrature comunali, di tanta gente in armi poté sembrare minaccia e suscitò in cardinali e conclavisti turbamento e paura: in particolare, in Roberto di Ginevra, che si sapeva odiato - o almeno malvisto- dal popolo. Lo stato di terrore fisico in cui viveva in quei giorni sarebbe chiaramente palesato da questo episodio: quando, la sera del 7 aprile, egli si recò nei palazzi vaticani per entrare in conclave, prima di uscire dalla sua abitazione indossò, se si deve credere a un suo familiare, la corazza sotto la tonaca e il rocchetto. Così protetto, attraversò la piazza S. Pietro con la cappa cardinalizia sulle spalle, circondato dai suoi cappellani e dai suoi conclavisti, tra due ali di popolo tumultuante.
Nel primo scrutinio, Roberto votò per sesto e certamente in favore dell'arcivescovo di Bari, Bartolomeo Prignano, il cui nome era stato fatto dallo stesso Jean de Cros, capo della fazione limosina, mentre il card. Pietro Corsini aveva proposto - inascoltato - la candidatura dell'anziano card. Tebaldeschi. Il Prignano ottenne tredici suffragi su sedici, superando quindi la maggioranza dei due terzi: gli oppositori poterono accedere. Roberto si espresse per Bartolomeo Prignano anche in un secondo scrutinio, suggerito "ad cautelam" dal card. Tebaldeschi, il quale aveva inteso prudentemente prevenire, in tal modo, accuse che potessero inficiare - per vizio di consenso - l'avvenuta elezione del Prignano. In questo secondo scrutinio, secondo le fonti più antiche, l'arcivescovo di Bari venne confermato eletto al soglio pontificio, col solo voto contrario del card. Orsini, mentre tre cardinali non parteciparono a questo voto. L'elezione non venne subito resa di pubblica ragione, perché l'arcivescovo di Bari non si trovava nel palazzo del conclave, ne si poteva, d'altro canto, prescindere da un suo formale atto di accettazione. Intanto il popolo romano, eccitato da voci contrastanti che avevano indicato il nuovo papa dapprima in un limosino e poi nel card. Tebaldeschi, irruppe tumultuando nelle sale del conclave. Di fronte ai facinorosi i porporati non ebbero il coraggio di annunziare la verità, e rivestirono degli abiti pontificali l'anziano cardinale di S. Pietro. Un vescovo di Pesaro, devotissimo a Roberto, lo cita come autore principale di questa triste buffonata. Mentre il popolo manifestava la sua esultanza rendendo omaggio al Tebaldeschi - il quale per altro si affannava a ripetere di non esser lui l'eletto -, alcuni cardinali, temendo per la loro vita se si fosse venuta a sapere la verità, approfittarono della confusione per abbandonare i palazzi vaticani. Tra di loro vi fu anche Roberto di Ginevra, che del resto già in precedenza aveva cercato di fuggire attraverso un passaggio segreto, ma era stato preso in mezzo dalla folla, e costretto a tornare sui suoi passi: a cavallo, cercò scampo dapprima nel suo palazzo presso S. Maria in Trastevere, e poi, temendo sempre la collera popolare, si rifugiò nel castello di Zagarolo, a 32 chilometri da Roma, nella rocca del suo amico Agapito Colonna.
Prima di abbandonare Roma, però, Roberto aveva avuto un abboccamento con lo stesso futuro card. Agapito, allora vescovo di Lisbona, cui aveva raccomandato di proteggere il papa appena eletto ("Salvate Bari, e Agapito sarà cardinale!", aveva consigliato ai familiari del Colonna), ed aveva cercato di indurre il card. Pedro de Luna a seguirlo nella fuga. Aveva anche riferito - sia pure sotto il vincolo della massima segretezza - ad un vescovo del suo seguito che era stato eletto papa non il Tebaldeschi come si vociferava per Roma, ma il Prignano.
Il 9 aprile, venerdì, dopo che funzionari del Comune ebbero presentato, a nome del popolo, le scuse per gli incidenti del giorno prima ed ebbero assicurato che la situazione nella città era tornata normale, i dodici cardinali presenti a Roma si riunirono nella cappella del conclave, dove convocarono l'eletto. Da questo momento si procedette secondo il tradizionale rituale: il nuovo pontefice venne solennemente intronizzato e fu quindi presentato al popolo romano col nome di Urbano VI. Prima della cerimonia il Prignano aveva inviato Agapito Colonna a pregare Roberto di Ginevra di far ritorno a Roma. Il cardinale dei Dodici Apostoli aderì di buon grado all'invito e la mattina dell'11, domenica delle Palme, giunse nella città durante la prima messa di Urbano VI. Al termine del rito Roberto si affrettò a prosternarsi ai piedi di quel papa, che diceva di aver fatto eleggere. Fu allora che mostrò al vicario pontificio e all'arcivescovo di Lisbona un anello d'oro, che intendeva offrire ad Urbano VI: oggetto preziosissimo, stimò il card. Colonna, del valore di 400 fiorini, ereditato dalla madre, Mahaut de Boulogne. Come tutti gli altri cardinali, Roberto non avanzò allora dubbi sulla legittimità dell'elezione dell'8 aprile, né si attentò a proporre di riunire il Collegio cardinalizio per un nuovo conclave; partecipò anzi zelantemente - come gli altri prelati, del resto - a tutti gli atti di governo del nuovo pontefice, cui fu in quei giorni molto vicino.
Il 14 aprile, per espresso desiderio del papa, scrisse all'imperatore Carlo IV, per comunicargli l'elezione al soglio pontificio dell'arcivescovo di Bari. Nel documento il cardinale di Ginevra sottolineava il fatto che l'elezione era stata compiuta nel pieno rispetto delle norme canoniche, e che il Sacro Collegio aveva all'unanimità espresso i suoi suffragi in favore del Prignano, tanto che si era potuto concludere il conclave in una giornata. Il sabato santo celebrò la messa davanti ad Urbano VI nella cappella "presistina" ed il 3 aprile, Pasqua di resurrezione, durante la cerimonia solenne dell'incoronazione, ed il corteo al Laterano, non sembra aver dato che segni di gioia. Il 19, con tutti gli altri cardinali, scrisse, ancora per desiderio del nuova papa, ai membri del Sacro Collegio rimasti ad Avignone per informarli della definitiva elevazione alla cattedra di S. Pietro dell'arcivescovo di Bari. Partecipò, inoltre, ai concistori convocati da Urbano VI, come quello del 25 aprile in cui fu ricevuto il cardinal legato Jean de la Grange, rientrato dalla Toscana.
E suo entusiasmo per il nuovo pontefice, tuttavia, non doveva tardare a raffreddarsi. Sembra infatti che già nel maggio avesse cominciato a esprimere dubbi sulla validità dell'elezione di Urbano VI o sulla opportunità di aver innalzato al soglio pontificio una persona come l'antico arcivescovo di Bari. Appunto in quel torno di tempo, secondo la narrazione fatta in Avignone dall'ambasciatore imperiale a Roma, Roberto avrebbe contestato, nel corso di un colloquio segreto, la legittimità - e, quindi, la validità - dell'elezione di Urbano VI fondandosi sul canone "Si quis pecunia" del Decretum Gratiani, che equipara alla simonia il tumulto - popolare o militare - ed attribuisce ai cardinali il potere di deporre un papa intruso. Il cardinale dei Dodici Apostoli avrebbe concluso le sue argomentazioni affermando che, una volta fuori Roma e liberi di agire a loro grado, i cardinali avrebbero proceduto ad una nuova elezione papale secondo i canoni. Il 23 maggio sarebbe tornato sull'argomento, sempre parlando in privato, con l'ambasciatore di Castiglia, cui avrebbe dichiarato che tutto il Sacro Collegio, eccetto il card. Tebaldeschi, era d'accordo sulla necessità di deporre Urbano VI. Il vero motivo del suo dissenso, tuttavia, si deve molto probabilmente ricercare sia nel venir meno delle speranze che egli riponeva nel nuovo pontefice - sul cui appoggio aveva contato per acquistare un ruolo di maggiore rilievo nella Curia -, sia nel fatto che Urbano VI aveva fin dal primo momento dimostrato e di voler prescindere dai suggerimenti dei cardinali per quanto atteneva al governo della Chiesa, e di essere seriamente intenzionato ad attuare una severa riforma dei costumi sacerdotali, cominciando proprio dall'alto clero e dal Sacro Collegio. È provato infatti che Roberto rimase assai scontento, perché il papa gli aveva preferito Bertrand Lagier, quando aveva dovuto provvedere alla nomina del cardinale vescovo di Ostia, titolo cui egli ambiva; e che ai primi di giugno del 1378 ebbe a lamentarsi con l'archiatra pontificio Francesco Casini di non essere ancora riuscito a ottenere dal papa alcun beneficio di particolare rilievo. Allo stesso modo sappiamo che mise con durezza in guardia il pontefice dal voler deprimere troppo l'autorità e il prestigio dei cardinali, se non intendeva venir egli stesso esautorato dal Sacro Collegio. Eppure non sembra che egli avesse ancora preso una posizione netta nel dissidio che contrapponeva Urbano VI al Sacro Collegio, quando i cardinali francesi, con la scusa di fuggire la calda estate romana, avevano chiesto ed ottenuto dal papa licenza di abbandonare la città, raggiungendo l'uno dopo l'altro Anagni, dove si erano posti sotto la protezione di Onorato Caetani, conte di Fondi, ora ostile al pontefice perché non lo aveva confermato nell'incarico di rettore di Campagna. Infatti, se il 24 giugno faceva gravissime dichiarazioni dinnanzi agli inviati del conte di Fiandra e del re di Castiglia, cui riferiva che il Collegio cardinalizio non considerava più papa il Prignano, Roberto di Ginevra non si peritava però di chiedere in quello stesso torno di tempo al card. Tebaldeschi di adoperarsi per ottenergli dal pontefice alcuni benefici; e se ai primi di luglio dava ordine alle bande di mercenari bretoni e guasconi, che tratteneva di nuovo ai suoi stipendi, di spostarsi nel Lazio per coprire Anagni e difendere da eventuali offese i cardinali lì rifugiati - le milizie romane, che tentarono di impedire la manovra, furono sbaragliate al ponte Salario (16 luglio) -, il 27 luglio faceva pervenire al vescovo di Faenza suppliche, perché le trasmettesse al pontefice. Sappiamo tuttavia che, quando alla fine abbandonò anch'egli apertamente Urbano VI e si unì ai cardinali non italiani convenuti in Anagni, ebbe a svolgere una parte di rilievo, insieme con i cardinali Pierre Flandin e Jean de Cros, nelle convulse trattative subito avviate dal pontefice per impedire una rottura irrimediabile e scongiurare lo scisma, che ora si profilava inevitabile dopo la solenne declaratio del 2 agosto, il documento nel quale i porporati dissidenti avevano dato il loro resoconto dei lavori del conclave, sottolineando l'irregolarità dell'elezione di Urbano VI. Nei colloqui presso Palestrina del 5 e 6 agosto il ginevrino sostenne col Flandin la tesi della necessità di procedere ad una nuova elezione papale, attesa forse l'impossibilità di confermare sul soglio di S. Pietro una persona dimostratasi incapace; e, sempre col Flandin, respinse la richiesta dei cardinali italiani di convocare un concilio per dirimere la questione (il concilio poteva venir convocato solo dal papa, e ciò avrebbe ostacolato il gioco dei dissidenti). Il 9 agosto, finalmente, nella cattedrale di Anagni fu letto il solenne documento con cui i dodici cardinali non italiani affermavano l'invalidità dell'elezione di Urbano VI, perché avvenuta solamente "timore mortis", ed annunziavano la vacanza della Sede apostolica. Sul finire di agosto i cardinali non italiani si trasferirono, per motivi di sicurezza, a Fondi, e qui, il 20 sett. 1378, nella cappella del castello dei Caetani, elessero all'unanimità papa Roberto di Ginevra: i tre italiani - Giacomo Orsini, Simone da Brossano, e Pietro Corsini; Francesco Tebaldeschi era morto a Roma il 7 settembre - si astennero. L'eletto fu intronizzato e fu quindi presentato al popolo col nome di Clemente VII dal cardinale diacono Pierre Flandin: alla scelta del nome non doveva essere rimasto estraneo il desiderio di compiacere la frazione limosina del Sacro Collegio. Il 31 ottobre C. VII fu incoronato nella cattedrale di Fondi, S. Pietro: la tiara, che il camerlengo Pierre de Cros aveva portato via da Castel Sant'Angelo, gli fu imposta non da un cardinale, ma dal conte Onorato Caetani.
Era lo scisma. E dal problema dello scisma fu dominato il regno di C. VII: tutti gli sforzi e tutta l'attività del ginevrino sia nel campo politico, sia in quello più propriamente pastorale e religioso furono condizionati dalla stessa esigenza e rivolti allo stesso fine, quello di farsi riconoscere come il papa legittimo. Per raggiungere questo scopo egli contò essenzialmente sulla forza delle armi e su una ben orchestrata azione propagandistica; si fondò inoltre sull'appoggio del re di Francia, Carlo V, che fece di tutto per rafforzare con la propria l'autorità di C. VII, né lasciò intentato alcun mezzo diplomatico per accrescere il numero dei seguaci dell'antipapa. Come il re di Francia, così anche il fratello di questo, Luigi duca d'Angiò, i re di Castiglia, di Aragona e di Navarra - sia pure dopo qualche incertezza - sostennero il pontefice eletto a Fondi; mentre si schierarono per Urbano VI, insieme con l'Inghilterra, il Portogallo, le regioni francesi sottoposte all'influenza inglese, e l'Impero, salvo isolate eccezioni di principi - come Leopoldo III d'Austria - e di città tedesche. Ma l'epicentro e l'oggetto della contesa rimasero Roma e l'Italia. Giovanna I di Napoli fu, la prima tra i sovrani europei a riconoscere l'eletto di Fondi (22 nov. 1378), e si affrettò a fargli pervenire 64.000 fiorini arretrati del censo, che il Regno doveva alla Sede apostolica. Seguirono il suo esempio il conte di Savoia Amedeo VI, il marchese del Monferrato - allora sotto la tutela di suo zio Ottone di Brunswick, marito della regina di Napoli -, il conte di Fondi Onorato Caetani - che C. VII aveva confermato rettore di Campagna - ed i comandanti di alcune importanti piazzeforti pontificie, come quelli di Ravenna, Cesena, Ancona, Viterbo. Nella stessa Roma, i fautori di C. VII tenevano saldamente occupato Castel Sant'Angelo.
Sia C. VII sia Urbano VI credettero di poter risolvere la questione dello scisma apertosi a Fondi ricorrendo alla forza delle armi. Alle bande dei mercenari brettoni di Jean de Malestroit e di Silvestre Budes, ai venturieri guasconi di Louis de Montjoie e di Bernardon de la Salle, che C. VII manteneva ai suoi stipendi, Urbano VI contrappose Alberico da Barbiano e la sua temibile e ben addestrata Compagnia di S. Giorgio, costituita esclusivamente da italiani, i quali presero immediatamente l'iniziativa nella lotta. Sconfitto il Montjoie a Carpineto (febbraio 1379), occupata saldamente Roma ed assediato Castel Sant'Angelo dalle milizie del condottiero romagnolo, vedendo che i suoi erano incapaci di contrastare i progressi degli avversari, il papa di Fondi credette opportuno rivolgersi per aiuti militari al re di Francia. Con bolle del 17 e del 20 aprile investì il duca Luigi d'Angiò, fratello del sovrano, di un complesso di territori di dominio pontificio - la Romagna con Ravenna e Ferrara, Bologna con le sue pertinenze, la Massa Trabaria, la Marca d'Ancona, Perugia, Todi e il ducato di Spoleto -, che il fratello del re di Francia avrebbe dovuto riconquistare, insieme con Roma, entro lo spazio di due anni al pontefice di Fondi. La nuova entità politica, cui venne dato il nome di regno di Adria, sarebbe dovuta diventare, nelle intenzioni di C. VII, il secondo Stato angioino dell'Italia, anche se sul Regno di Napoli e sul costituendo regno di Adria non avrebbe mai dovuto regnare il medesimo sovrano. L'atto non sortì l'effetto desiderato: Luigi non intervenne direttamente nella lotta, ed i successi di Alberico da Barbiano proseguirono. Il 27 aprile, dopo un lungo assedio, la guarnigione di Castel Sant'Angelo capitolò; il 29 il condottiero romagnolo sbaragliò presso Marino i contingenti del La Salle, del Budes e del Malestroit: Urbano VI poté fare ritorno in Vaticano, di cui prese possesso con grande solennità. Questi rovesci e le defezioni di Ravenna, di Cesena e di Ancona, che si erano in un primo tempo dichiarate per lui, sgomentarono C. VII, che abbandonò Fondi e si rifugiò - già il 30 marzo - a Sperlonga, dietro le fortificazioni del ben munito castello; il 9 maggio, tuttavia, temendo per la sua sicurezza, s'imbarcò a Gaeta per cercare protezione presso l'amica corte di Napoli. Nella città partenopea, dove giunse il 10, fu ricevuto con ogni onore dalla regina e alloggiato splendidamente in Castel dell'Ovo. Ma i sentimenti e gli interessi filofrancesi della sovrana e dell'ambiente di corte poco poterono contro i sentimenti del popolo della capitale, intransigente nella sua fedeltà ad Urbano VI: atterrito dai tumulti e dai disordini provocati dalla sua presenza nella città, C. VII decise di cercar riparo altrove. Il 13 maggio era di nuovo a Sperlonga, che lasciò definitivamente sette giorni dopo, quando la situazione generale lo convinse ad abbandonare per sempre l'Italia (20 maggio). Un mese dopo il papa di Fondi fece il suo solenne ingresso in Avignone. Questo gesto, se permise a C. VII di rendere più stretti e immediati i suoi rapporti con la corona francese, rafforzando in tal modo la propria posizione nei confronti dell'antagonista, ebbe tuttavia gravi conseguenze per la sua causa in Italia, dove la contesa religiosa provocata dallo scisma si innestò su antichi contrasti e su motivi di lotta propri della particolare situazione politica della penisola, come avvenne, per esempio, nel Regno di Napoli.
Qui l'autorità di Giovanna I era minata all'interno dagli intrighi dei grandi e dall'opposizione del popolo, fedele al papa napoletano, ed era minacciata all'esterno dalle mene del re d'Ungheria, dalle aspirazioni successorie di Carlo d'Angiò Durazzo, erede presuntivo della regina, e dall'ostilità di Urbano VI. Questi sapeva molto bene che l'adesione all'obbedienza romana bandita per ordine di Giovanna I nel Regno subito dopo la partenza di C. VII (18 maggio 1379) era stata puramente strumentale ed aveva come scopo di tenere tranquillo il popolo sino al rientro di Ottone di Brunswick e dei suoi mercenari tedeschi; sicché, quando effettivamente la sovrana, ristabilito con le armi l'ordine nella capitale, ebbe di nuovo e definitivamente riconosciuto C. VII come il papa legittimo, si affrettò a citarla a Roma per rispondere delle accuse di eresia e di scisma (17 giugno). Non solo, ma si rivolse al re d'Ungheria e allo stesso Carlo d'Angiò Durazzo, chiedendo il loro aiuto contro la regina scismatica.
C. VII, cui interessava conservare l'Italia meridionale nell'orbita della sua obbedienza, dovette intuire i pericoli che sovrastavano la sovrana: si affrettò pertanto ad inviarle sovvenzioni in danaro e si rivolse a cercarle un valido protettore. Lo trovò nella persona del fratello del re di Francia, lo stesso che aveva investito dell'effimero regno di Adria. A Giovanna I e a Luigi duca d'Angiò il pontefice avignonese presentò uno schema di successione al trono di Napoli, vantaggioso così per la sovrana, cui avrebbe assicurato l'appoggio di una grande potenza, come per il principe e per lo stesso Carlo V, perché avrebbe riconosciuto al primo una corona e confermato all'altro che il Regno sarebbe rimasto nell'ambito della sfera d'influenza francese. Il progetto venne discusso alla corte d'Avignone nel gennaio del 1380 e trovò la sua formulazione definitiva nelle bolle del 1º febbraio di quello stesso anno: esso prevedeva che Giovanna adottasse segretamente come figlio ed erede Luigi d'Angiò, il quale da parte sua si impegnava a fornirle ogni aiuto in danari, mezzi navali e uomini contro Carlo d'Angiò Durazzo. I piani di C. VII sull'Italia meridionale erano tuttavia destinati a fallire sia per la riluttanza con cui la sovrana tenne fede ai patti, sia per l'insorgere di circostanze imprevedibili: solo il 29 luglio, quando Urbano VI l'aveva già scomunicata (21 aprile) e deposta perché eretica e scismatica (11 maggio), Giovanna I, sollecitata da C. VII, si indusse ad adottare formalmente Luigi d'Angiò, cui concesse il titolo di duca di Calabria. Da Avignone l'antipapa si affrettò a ratificare il provvedimento con bolle del 22 e del 23 luglio, ma non poté ulteriormente interferire - nonostante i suoi sforzi ed i suoi desideri - sugli sviluppi della questione napoletana. Il 16 settembre morì Carlo V, e Luigi d'Angiò, trattenuto in patria dagli obblighi della reggenza che amministrò in nome del nipote Carlo VI appena dodicenne, fu costretto ad abbandonare Giovanna I sola di fronte ai suoi nemici.
Entrato in Roma l'11 novembre, investito da Urbano VI del Regno di Sicilia il 1º giugno 1381, coronato il 2 col nome di Carlo III, l'8 di giugno l'avversario della sovrana partiva con il suo esercito di ungheresi rinforzato da elementi della Compagnia di S. Giorgio alla conquista del Regno. Il 16 luglio entrava in Napoli; il 2 settembre accettava la capitolazione di Castel Nuovo e faceva prigioniera la regina Giovanna. Con la solenne conferma di Carlo III sul trono di Napoli (15 novembre) venne sanzionato il passaggio del Regno dall'obbedienza avignonese a quella romana. La persecuzione contro quanti, chierici o laici, avessero sostenuto C. VII era stata tuttavia iniziata da tempo: il legato del papa avignonese a Napoli, il card. Leonardo Griffone, nella chiesa di S. Chiara, il 18 settembre, era stato spogliato degli abiti pontificali ed aveva dovuto riconoscersi pubblicamente cardinale illegittimo e dichiarare che l'eletto di Fondi era un papa intruso.
C. VII non si perse d'animo e tentò ogni strada per convincere Luigi d'Angiò ad intervenire in Italia. Il 22 febbr. 1382 il principe era ad Avignone, dove si abboccò col pontefice, il quale, nei tre mesi successivi, intensificò i contatti diplomatici con le potenze della penisola, assicurandosi, in vista della spedizione, l'appoggio militare del conte di Savoia Amedeo VI e la collaborazione di Barnabò Visconti. C. VII aumentò inoltre e moltiplicò i sussidi finanziari in favore del principe, sino a quando poté metterlo in grado di raccogliere un corpo d'esercito forte di 12.000 cavalleggeri: con esso, nel giugno, Luigi superò le Alpi, traversò il Piemonte e la Lombardia e, poiché le città della Toscana avevano costituito una lega per impedirgli il passo, si diresse verso il Sud dell'Italia, passando per le Marche e gli Abruzzi senza incontrare particolari resistenze e riconquistandoli, insieme con una parte del Lazio, all'obbedienza avignonese. Anche se con questa spedizione non riuscì a raggiungere il principale scopo per cui l'aveva progettata e finanziata, l'eliminazione definitiva dalla scena politica del suo diretto antagonista, Urbano VI - nel settembre Luigi d'Angiò si trovava col suo esercito forte ormai di oltre 30.000 cavalleggeri a poca distanza da Roma, e gli sarebbe stato facile occuparla appoggiandosi a Francesco di Vico, a Rinaldo Orsini, alle bande di Bernardon de la Salle, ma aveva preferito puntare subito alla conquista del Regno -, grazie ad essa, tuttavia, C. VII poté allargare la sfera della sua influenza alle terre della Calabria, della Basilicata, della Puglia, del Napoletano, che il principe arrivò a strappare, tra il settembre del 1382 e l'agosto del 1384, a Carlo III.
Nella speranza di una rapida e felice conclusione del conflitto, C. VII continuò a dare tutto il suo appoggio al'Angioino, che il 30 ag. 1383 assunse, come Luigi I, il titolo di re di Sicilia: seguitando a fargli pervenire consistenti sussidi finanziari, lanciando la scomunica contro Carlo III e la città di Napoli, spingendo il re di Francia, Carlo VI, ad inviargli un esercito di rincalzo, che fu comandato da un valente capitano, Enguerrand de Coucy. L'improvvisa morte di Luigi d'Angiò, sopravvenuta a Bari la notte fra il 20 e il 21 sett. 1384, sbigottì C. VII e la sua corte: essa poteva significare la sconfitta definitiva della causa angioina nel Regno e segnava un ulteriore fallimento della politica italiana di Clemente VII. L'esercito di Luigi d'Angiò si dissolse, Enguerrand de Coucy, che era giunto sino in Toscana, nel novembre riprese la via della Francia, lasciando da parte ogni velleità di proseguire la sua marcia verso sud; sacche di resistenza continuarono a persistere nel Regno, ma erano controllate dai feudatari devoti a Carlo III. Contando su di esse, tuttavia, e più ancora sul dissidio che andava profilandosi tra il re di Sicilia e il papa di Roma, C. VII non esitò a proclamare re col nome di Luigi II di Sicilia il figlio del defunto principe angioino e della sua consorte, Maria di Blois, un bambino di appena sette anni, che egli investì del Regno (Avignone, 21 e 25 maggio 1385). Quindi, accordatosi con la vedova di Luigi I, incoraggiò in tutti i modi e, finanziò una nuova impresa militare in Italia. Dopo lunghe ed estenuanti trattative, il 3 ott. 1386 affidò il comando del corpo di spedizione angioino ad Ottone di Brunswick, che gli prestò giuramento di fedeltà il 14 di quello stesso mese. Poco prima di imbarcarsi per Napoli, il condottiero tedesco prestò giuramento di fedeltà anche a Maria di Blois (25 ottobre).
C. VII aveva saputo scegliere il momento adatto per intervenire, perché il Regno stava attraversando una grave crisi istituzionale e politica: il 27 febbraio era morto, in un castello nei pressi di Buda, Carlo III, e a Napoli, dove serpeggiava la rivolta contro i durazzeschi provocata dai maneggi di Urbano VI, teneva la reggenza per il figlio Ladislao) appena decenne, la vedova del re, Margherita di Durazzo. Profittando di questa difficile situazione interna e, soprattutto, grazie ad un accordo con i partigiani del pontefice di Roma e con gli Otto del buono stato (la magistratura che, dopo i disordini dell'autunno, governava la città), fu facile ad Ottone di Brunswick e a Tommaso di Sanseverino, che Luigi aveva da poco nominato suo vicario nel Regno, entrare a Napoli ed occuparla, costringendo la reggente a fuggire con i figli (10-13 luglio 1387). L'intesa con i fautori di Urbano VI, tuttavia, era stata puramente strumentale e finalizzata alla conquista di Napoli; essa sarebbe stata pertanto denunciata non appena il vicario angioino ed il suo capitano generale avessero consolidato il nuovo regime. Ciò avvenne l'11 dicembre, quando anche Mergellina, dopo altre fortezze, si fu arresa: su Napoli venne innalzato lo stendardo di C. VII accanto a quello degli Angiò, e fu proclamato il passaggio del Regno all'obbedienza avignonese. C. VII venne riconosciuto come il papa legittimo, e si ordinarono in suo onore cerimonie sacre e profane, luminarie, processioni.
Fu questo il momento in cui il pontefice di Avignone dovette ritenere di avere esteso la propria sfera d'influenza a gran parte dell'Italia. L'esasperato modo di fare e il carattere autoritario di Urbano VI avevano avuto infatti come risultato quello di rivoltargli contro i suoi stessi partigiani ed i suoi collaboratori più stretti, a cominciare da Carlo III d'Angiò Durazzo sino ai cardinali Pileo da Prata e Galeazzo Tarlati da Pietramala. Questi ultimi, che erano stati elevati alla porpora proprio da Urbano VI, finirono con l'abbandonarlo per passare al suo antagonista, e accompagnarono questo loro gesto con una lettera circolare di spiegazioni che fece molto scalpore (estate del 1386): C. VII, cui resero omaggio, si affrettò, da buon conoscitore di uomini, ad accoglierli nel suo Collegio cardinalizio (15 giugno 1385). Città dell'Umbria e della Toscana si dichiararono allora per il papa d'Avignone, col quale intrattennero normali rapporti diplomatici - sebbene non lo avessero mai riconosciuto - anche Bologna e Firenze. Il 25 nov. 1389 C. VII accordò a Gian Galeazzo Visconti, che si era rivolto a lui per averla, la dispensa per il matrimonio di Valentina, figlia del signore di Milano, con Raimondo di Turenna. Il resto della penisola rimase sempre diviso in parti pressocché uguali fra le due obbedienze. Nell'Italia centrale Francesco di Vico, prefetto di Roma, continuò a mantenere Viterbo nell'orbita clementina; gli Orsini erano divisi: Giordano, signore di Marino, servì prima il papa di Fondi, poi Urbano VI, poi nuovamente il papa di Fondi; Rinaldo, conte di Tagliacozzo, già uomo di fiducia di Urbano VI, divenne il peggior nemico del papa romano, che osteggiò sino a quando non venne assassinato nel 1390, dopo aver conquistato Orvieto, L'Aquila, Pescara, Spoleto e Corneto, ufficialmente per C. VII, ma in realtà per costituirsi un proprio piccolo Stato. Un altro Orsini, Tommaso di Manoppello, fu cardinale prima di Urbano VI e poi di Bonifacio IX, il suo successore nell'obbedienza romana; i Colonna, i Conti, i da Ceccano si combatterono nei due partiti.L'influenza di C. VII si fece tuttavia sentire in modo sempre più pesante nel Regno di Napoli man mano che la dominazione angioina andava assumendo caratteri sempre più marcatamente francesi: il 18 ott. 1388 uno dei nipoti di C. VII, Louis de Montjoie - il condottiero che era stato sconfitto a Marino da Alberico da Barbiano -, giunse a Napoli e vi assunse, in sostituzione di Tommaso Sanseverino, la carica di vicario generale del Regno; il 1º nov. 1389, in Avignone, C. VII incoronò re di Sicilia col nome di Luigi II il giovane duca d'Angiò, alla presenza del re di Francia Carlo VI. Nominò quindi il nuovo arcivescovo di Napoli, Guidazzo, che prese solennemente possesso della sua sede il 13 ag. 1390, il giorno prima dell'arrivo di Luigi II, che raggiunse la sua capitale con una considerevole flotta. Il giovane principe, che aveva tredici anni, era stato posto sotto la tutela del legato del papa avignonese, Pierre de Thury, cardinale del titolo di S. Susanna, che seppe prendere abili provvedimenti politici ed amministrativi. Più tardi Pierre de Thury venne sostituito, come tutore di Luigi II, da Louis de Montjoie. Nel 1394, quando le bande bretoni e guascone avevano riconquistato a C. VII importanti piazze del Lazio settentrionale, l'area dell'obbedienza avignonese s'era senza dubbio allargata, ma le sue basi restavano pur sempre deboli, dato che la Corona francese non intese mai impegnarsi a fondo e in prima persona per portare C. VII ad insediarsi sulla cattedra pontificale romana. Anche il tentativo di guadagnare alla sua causa Gian Galeazzo Visconti, investendolo di un regno nell'Italia centrosettentrionale, si risolse in un nulla di fatto. "L'antipapa - ebbe a - scrivere nel 1391 Thomas Walsingham - promette al re di Francia la corona imperiale; al duca di B0rgogna, onori; a qualcun altro [Gian Galeazzo], la corona di re di Toscana e di Lombardia; al duca di Angiò, di rafforzarsi sul trono di Napoli". La fine della vita gli impedì di raggiungere tale scopo.
Il 16 sett. 1394, colpito da un attacco d'apoplessia, C. VII morì, nel palazzo dei papi in Avignone, dopo aver impetrato l'intercessione del defunto cardinale Pietro di Lussemburgo per la remissione dei propri peccati.
Amante della guerra, della diplomazia e degli studi, così come del fasto, degli artisti e della cultura, C. VII fu un vero principe ecclesiastico della fine del Medioevo, dotto e amico di umanisti e di letterati. Non è possibile enumerare gli artisti, gli architetti, gli artigiani e gli operai che furono al suo servizio; ed è impossibile farsi, ora, un'idea del suoi interessi culturali basandosi sul catalogo della sua biblioteca, che pure sappiamo essere stata assai grande e variata. Di essa conosciamo infatti solo alcuni volumi, troppo pochi per poter giungere a conclusioni di una qualche attendibilità: una Bibbia con commento di Niccolò di Lira (Bibl. Ap. Vat., Vat. lat. 50-51), una Storia dei conti di Boulogne (Parigi, Bibl. nat., Fr. 5227), un Messale (Ibid., Lat. 848), un Tito Livio donato a Jean Muret nel 1393 (Ibid., Lat. 5740), ilPrisciano di Londra, donato al Berry nel 1387 (London, Brit. Libr., Burney 275). Possedeva case a Villeneuve-lès-Avignon, e alcuni castelli prediletti nei dintorni, conosceva l'arte del ricevere ed amava tenere la tavola imbandita. I suoi libri di conto, anche se sovraccarichi di spese militari, testimoniano sempre una cucina raffinata. Buon conoscitore degli uomini, sapeva come trattarli e mostrava a grandi e a minori una straordinaria cortesia, che gli valse, insieme con l'uso sistematico e sapiente di grazie e di favori, gli appoggi di cui poté godere. Basta scorrere i registri delle suppliche siglate con la sua "G" (Gebennensis), per ritrovarvi i nomi dei principali esponenti, laici ed ecclesiastici, della obbedienza avignonese e tutta una folla di postulanti esauditi, che si raggruppavano intorno ai cardinali, ai vescovi, ai signori, alle università o alle città che li raccomandavano.
Fin dal periodo di Fondi il suo sistema di governo fu quello tipico della vecchia burocrazia pontificia precedente ad Urbano VI. I suoi registri, caratterizzati da una copiosa corrispondenza "comune", lo mostrano presente ovunque, attento a quanto accade nell'ambito della sua obbedienza. I documenti registrati rappresentano tuttavia, per il regno di C. VII, una piccola parte rispetto agli originali conservati fuori dell'Archivio Vaticano, e rispetto a quelli perduti: non resta, per esempio, alcun registro delle lettere "chiuse" e inviate con bolla o "sub signo nostro secreto", che sole ci permetterebbero di conoscere meglio le trame politiche del suo pontificato. Anche se ricevette qualche interessata sovvenzione da parte di alcuni principi, C. VII finanziò essenzialmente la sua politica spremendo danaro dal clero a lui fedele ed attingendo largamente dalle imposte ecclesiastiche che si levavano in tutta la sua obbedienza. Le diocesi a lui sottoposte furono ferocemente tassate, e gli oboli dei fedeli si trasformarono in paghe per i mercenari: così come quella romana, anche la Camera apostolica avignonese non ebbe clienti più avidi dei condottieri. La cronica mancanza di danaro, che fu una delle cause principali della scarsa incisività della politica italiana di C. VII, fu tuttavia dovuta anche alla larghezza con cui il ginevrino volle sempre ricompensare i suoi sostenitori. Egli concesse, per esempio, al re di Francia Carlo V tre anni di sussidio che, a partire dal 10 nov. 1378, gli dovevano venir versati dal clero del suo Regno; né ebbe scrupolo a concedere in feudo terre di dominio pontificio, come fece con i duchi d'Angiò o col conte Onorato Caetani, che ebbe per sé e per i propri discendenti fino alla quarta generazione ampie zone nella Campagna e nella Maremma romana.
All'azione militare, d'altro canto, C. VII affiancò sempre l'uso delle armi spirituali, della predicazione, della diplomazia, con cui cercò di dimostrare la legittimità dei suoi poteri. Così, in preparazione del giubileo del 1390, quando rinnovò gli anatemi contro Urbano VI e confermò la scomunica contro quanti, ecclesiastici o laici, rimanessero fedeli al papa di Roma o si attendessero grazie da lui, ribadendo, per questi "scismatici impenitenti", il provvedimento della confisca dei beni da essi posseduti nell'ambito della sua obbedienza. Lanciò pure la scomunica contro quanti, dai paesi a lui fedeli, si erano - o si sarebbero - recati in pellegrinaggio a Roma per venerarvi le memorie apostoliche. Così favorì l'azione di predicatori come Vincenzo Ferreri o Jean de Murol - che contestarono la legittimità dell'elezione di Urbano VI -, o di apologisti come il dotto cardinale Pierre Flandin, il fanatico Nicolas Eymeric, l'ingenuo Jean Le Fèvre, abate di St-Vaast di Arras e futuro vescovo di Chartres. Così, infine, curò le ambascerie solenni, allo scopo di guadagnare alla propria causa i diversi sovrani, inviando nella penisola iberica e presso i principi sottoposti all'Impero come suoi legati rispettivamente il card. Pedro de Luna e il card. Guillaume d'Aigrefeuille, e come suoi nunzi in Inghilterra, Fiandra e Paesi Bassi Jean de Cros, e in Francia Guy de Malesset. In gran conto tenne il Sacro Collegio, di cui rispettò i privilegi e col quale condivise il proprio potere; anche quando i porporati pretesero di governare la Chiesa, sia nel campo spirituale sia in quello temporale, solo in concistoro. Molti furono i cardinali da lui creati tra di essi merita di essere ricordato Pietro di Lussemburgo, vescovo eletto di Metz, nominato a sedici anni cardinale diacono di S. Giorgio in Velabro, morto in fama di santità a meno di diciotto anni (Villeneuve, 2 luglio 1387); ma alla loro scelta non furono quasi mai estranei motivi di opportunità politica o di parentela, come per esempio fu il caso di Jean de Brogny e Jacques de Mentoney, "romandi" di origine, o quello di Amedeo di Saluzzo, di Jean de Neufchâtel, di Pietro di Lussemburgo, che erano suoi cugini o provenivano da regioni da conquistare o da conservare alla obbedienza avignonese.
Tra gli Ordini religiosi, appoggiarono per lo più C. VII i francescani sin dal loro capitolo generale di Napoli nel 1379, i certosini, dopo il capitolo generale del 1380, e buona parte dei domenicani; e agli Ordini religiosi C. VII pensò, negli ultimi anni della sua vita, con numerose fondazioni "pro remedio animae". Di esse ricordiamo i tre monasteri di celestini a Gentilly, ad Annecy, ad Avignone.
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