COSTANTINO, antipapa
Di influente famiglia originaria di Nepi (Viterbo), appare per la prima volta citato, nel 767, insieme con i fratelli Totone, Passivo e Pasquale tra gli esponenti più in vista dell'opposizione interna al governo di papa Paolo. Sul finire della primavera di quell'anno avrebbe infatti tramato per uccidere il pontefice, allora gravemente ammalato, allo scopo di farsi eleggere al soglio di Pietro, contando sull'appoggio dell'aristocrazia laica militare romana e su quello delle truppe che presidiavano i "castra" della Tuscia. La congiura fu sventata dal "primicerius notariorum" Cristoforo, una delle maggiori personalità dell'amministrazione pontificia e uomo di fiducia dei due ultimi papi, Stefano II e Paolo. Riuniti nella propria casa C. e gli altri "iudices", Cristoforo ottenne da loro l'impegno a non attentare alla vita del papa morente, a non provocare tumulti facendo entrare nella città soldati e "rustici" armati, e a far sì che, dopo la scomparsa di Paolo I, l'elezione avvenisse - come previsto dai sacri canoni - scegliendo tra i presbiteri ed i diaconi della Chiesa romana la persona adatta. Le vicende che avevano segnato la prima metà del sec. VIII - il dissidio tra Roma e Bisanzio per il culto delle immagini sacre; la concomitante ripresa della guerra di conquista da parte dei sovrani longobardi di Pavia; la pressione sempre più soffocante da questi ultimi esercitata sulle terre della penisola già di dominio imperiale (Esarcato, Ducati di Perugia e di Roma); la "translatio" della "defensio Ecclesiae" ai re franchi (incontro di Ponthion e di Querzy-sur-Oise); i ripetuti interventi di Pipino nelle cose italiane; la stessa costituzione di un complesso territoriale sotto il governo temporale della Chiesa di Roma - avevano portato ad una modificazione degli equilibri e dei rapporti di forza tra i gruppi di potere che agivano all'interno di Roma. Qui, di fronte al clero - diviso tra "sacerdotes" (i vescovi delle sette diocesi suburbicarie, i venticinque presbiteri e l'"archipresbyter"), "proceres [o "primates"] Ecclesiae" (i funzionari della Corte e della burocrazia pontificia) e "clericorum ordo" (gli ecclesiastici appartenenti agli Ordini Minori ed i chierici che non ricoprivano cariche nella Corte e nell'amministrazione pontificia; i monaci dei monasteri latini e greci della città) - stava il laicato diviso nei ceti tradizionali: quello militare - costituito dagli "iudices militiae" (i grandi proprietari terrieri, che militavano a cavallo e fornivano gli ufficiali superiori e i generali) e dall'"exercitus Romanus" o "cuncta militia Romanorum" (i piccoli proprietari, che formavano la massa dell'esercito e dai quali si traevano gli ufficiali inferiori, i quadri subalterni e la truppa) - e quello civile ("universa popoli generalitas" o "Romani populi minoris congregatio"), in cui si distinguevano, da un lato, il ceto dei commercianti e degli artigiani ("honesti cives") e, dall'altro, la massa dei lavoratori più umili e del proletariato. Era dunque sparita, dal quadro politico cittadino, la forza rappresentata dall'aristocrazia civile, colpita nella sua base economica dalle incessanti incursioni dei Longobardi ed esautorata di fatto dalle autorità militari, che per necessità di difesa avevano finito col riunire nelle loro mani anche i poteri civili. D'altro canto la formazione di un complesso territoriale sotto l'amministrazione della Chiesa di Roma (pace di Pavia, fine giugno 756) aveva rafforzato la posizione dei "proceres Ecclesiae" e, in particolare, quella degli alti funzionari della Corte e della burocrazia pontificia, gli "iudices de clero", che avevano esteso le proprie attribuzioni amministrative e giurisdizionali anche nell'ambito politico. Alleate durante il conflitto con Bisanzio, quando avevano cercato nell'autonomia politica dall'Oriente e nella indipendenza dai Longobardi la tutela - sotto l'egida dei sovrani franchi - degli interessi spirituali ed economici delle popolazioni italiane, le due maggiori forze politiche di Roma - l'aristocrazia militare e quella ecclesiastica - dovevano necessariamente venire a contrasto per il predominio nella gestione del nuovo organismo territoriale nato dal confronto della Sede apostolica con gli imperatori iconoclasti e con i re di Pavia. Il papa Stefano II aveva dimostrato di riconoscere, come i suoi predecessori, il peso dell'aristocrazia militare e di volerne appoggiare le ambizioni. Non così Paolo I (eletto nell'aprile, ma consacrato il 29 maggio 757), sotto il governo del quale la direzione politica era stata monopolizzata di fatto dai "proceres Ecclesiae". Come l'aristocrazia laica lo aveva in C., così anche gli "iudices de clero" ed i "primates Ecclesiae" avevano già un loro candidato: il presbitero di S. Cecilia, Stefano. Questi, sebbene siciliano, nel clero romano aveva percorso tutta la sua carriera ecclesiastica sotto Gregorio III, Zaccaria, Stefano II e Paolo I, giungendo ad essere ammesso al patriarchio lateranense, nell'ambito del quale era stato uno dei più diretti collaboratori dei tre ultimi papi. Quando le condizioni di Paolo I si fecero critiche, C. ed i suoi fratelli presero l'iniziativa: con ogni probabilità nella notte fra il 27 e il 28 giugno 767, fatte affluire a Roma le truppe dei presidi di Nepi e delle altre fortezze della Tuscia, nonché formazioni di "rustici" armati, si impadronirono dei punti strategici della città. Senza dubbio essi avevano dalla loro il ceto militare, perché le milizie romane non fecero nulla per contrastare il colpo di mano. Il 28 giugno, morto Paolo I, le autorità cittadine convocarono il popolo davanti alla basilica dei SS. Apostoli ed annunziarono la scomparsa del papa; fecero inoltre giurare ai capi laici ed ecclesiastici il rispetto dei diritti di ciascuna componente dell'elettorato. Non presero tuttavia alcuna misura per assicurare, insieme col mantenimento dell'ordine pubblico, anche un'elezione conforme alle norme canoniche. Scioltasi l'assemblea C., che vi aveva partecipato, tornò con i suoi fratelli verso la sua casa, davanti alla quale si andavano raccogliendo i loro fautori e i loro armati. Acclamato papa dalla folla tumultuante, C. fu immediatamente condotto nel patriarchio lateranense e presentato al "vicedominus", il vescovo di Palestrina Giorgio, perché gli conferisse gli ordini minori. Giorgio cercò di convincere C. a rinunziare al tentativo sacrilego di usurpare il seggio di Pietro - anche senza tener conto del fatto che C. era laico, alla sua designazione, avvenuta in modo senza dubbio eccezionale, non aveva partecipato il clero -, ma alla fine, temendo della propria vita, cedette. Non così fece Cristoforo, il quale, all'ordine perentorio di presentarsi nel patriarchio inviatogli da Totone, rispose di essere pronto a morire, piuttosto che essere coinvolto nell'usurpazione. Il 29 giugno, all'alba, nell'oratorio di S. Lorenzo (ora cappella del "Sancta Sanctorum"), nel Palazzo Lateranense, C. fu ordinato - in spregio a quanto prescritto dai canoni circa i tempi e i giorni in cui potevano avvenire le promozioni agli ordini sacri - dal vescovo di Palestrina prima suddiacono e diacono "forensis" poi. Lo stesso giorno ricevette l'omaggio del popolo di Roma, che gli prestò giuramento. C. si affrettò ad annunziare al re dei Franchi Pipino la morte di Paolo I e la propria elezione al soglio pontificio. Il 5 luglio, giorno di domenica, venne consacrato in S. Pietro dai vescovi Giorgio di Palestrina, Eustazio di Albano, Citonato di Porto. Sotto l'incubo suscitato dalla "multitudine armatorum exercituum" che aveva scortato fin nella basilica C., tutto il clero dell'Urbe - compreso il candidato dei "proceres Ecclesiae", il presbitero Stefano - sottoscrisse gli atti relativi all'elezione e alla consacrazione del nuovo pontefice. Non si piegò invece alla violenza il solo "primicerius notariorum" Cristoforo e questo fece comprendere che la questione non si era chiusa; così come fece pensare quanto accadde di lì a poco al vescovo Giorgio di Palestrina, rimasto gravemente minorato in seguito ad un colpo apoplettico, nel che si volle vedere il segno del castigo divino. Subito dopo C. per il tramite di un "missus" del re franco - forse lo stesso abate di Murbach, Ariberto, che era stato mandato a Roma per chiedere al papa alcune reliquie di santi - fece pervenire al re franco una lettera, in cui confermava la notizia della propria elezione, notificava l'avvenuta consacrazione e ne sollecitava il riconoscimento. Il testo della missiva lasciava tuttavia trapelare abbastanza chiaramente da un lato l'eccezionalità della situazione in cui si era realizzato l'avvento di C., e dall'altro le difficoltà reali che quest'ultimo si trovava a dover affrontare, con un patriarchio ed un clero combattuti tra la paura e il desiderio di non collaborare con lui. C. ammetteva infatti di essere stato eletto tanto dagli abitanti di Roma, quanto da quelli "subiacentium ei civitatum", e faceva sapere di non aver trovato altri - escludendo l'inviato del re franco - disposti a portare la sua lettera al sovrano. Concludeva esortando Pipino, di cui si professava fedele, a conservare alla Chiesa di Roma e a lui stesso quelle medesime solidarietà e protezione, che aveva sempre dimostrato per il passato. Il sovrano franco non rispose al messaggio, e questo dovette senza dubbio preoccupare Costantino. Nell'agosto, egli fece leggere pubblicamente il testo di una "synodica fidei" indirizzata a Paolo I e giunta a Roma solo il 12 di quel mese per il tramite di un presbitero inviato dal patriarca di Gerusalemme Teodoro. Nel documento, che era una risposta a precedenti lettere di quel pontefice, i patriarchi di Gerusalemme, di Antiochia e di Alessandria, nonché numerosi altri vescovi di Chiese orientali facevano solenne professione di fede ortodossa e confermavano la loro piena adesione al culto delle immagini sacre. Traendo pretesto dalla necessità di sottoporre a Pipino il testo della "synodica", C. gli inviò una nuova, più diffusa lettera con l'evidente scopo di giustificare la propria assunzione al soglio di Pietro e di sollecitare dal re una decisa presa di posizione nei propri confronti. Sollevato contro la sua volontà "ad tam magnum et terribile pontificatus culmen" dalla violenza popolare, doveva porre rimedio ai mali e alle ingiustizie compiute sotto il pontificato di Paolo I: questo il voto di quanti lo avevano eletto, ed egli sperava di poterlo assolvere con l'aiuto di Dio e con l'appoggio del re franco, sulla cui benevolenza egli confidava. Gli raccomandava i latori della missiva, il presbitero Cristoforo ed il "notarius regionarius" Anastasio: potessero tornare con l'assicurazione dell'amicizia del sovrano. Dava infine notizia della epistola synodica e ne accludeva una copia nel testo greco e nella versione latina, "ut agnoscat, qualis fervor sanctarum imaginum orientalibus in partibus cunctis Christianis immineat". Dopo le consuete formule di saluto ed ossequio, C. chiedeva che venissero rimandati a Roma il vescovo di Ostia, Giorgio, ed i presbiteri Marino e Pietro, che lo stesso Pipino aveva accolto presso di sé, quando erano fuggiti dalla città e dall'Italia per salvarsi dalle persecuzioni cui li sottoponeva il governo dell'ultimo papa. Anche a questa lettera il sovrano franco non rispose. Per prendere posizione aveva evidentemente bisogno che la situazione si chiarisse. Pur senza l'atteso riconoscimento di Pipino, nel corso dell'estate C. riuscì tuttavia a superare la crisi del trapasso dei poteri connessa con l'eccezionalità del suo avvento, sia eliminando fisicamente gli avversari politici, sia costringendo al silenzio le opposizioni con l'instaurazione di un regime assai fermo. Il duca di Roma - cioè il supremo comandante di quella regione militare - Gregorio, un sostenitore del primicerio Cristoforo e del suo gruppo di potere, fu ucciso per ordine di Totone, che ne assunse allora il grado e le funzioni. La Campania di dominio imperiale, dove il defunto duca aveva la sua base di forza perché originario di quella zona, si mantenne tranquilla sotto il ferreo governo del tribuno Gracile, il quale, risiedendo ad Alatri, fu pronto a reprimere o a prevenire ogni parvenza di opposizione. Quanto la situazione fosse tornata alla normalità lo si vide alla fine di settembre, in occasione di un avvenimento eccezionale: la traslazione della salma di Paolo I da S. Paolo fuori le Mura, dove era stata provvisoriamente inumata, a S. Pietro. Il feretro risalì il Tevere su di una chiatta, e fu solennemente tumulato nella cappella della Madonna nella basilica vaticana. La cerimonia si svolse secondo i programmi, senza dar luogo ad incidenti, nonostante tutta la popolazione di Roma, compresi gli stranieri residenti, vi avesse assistito. Probabilmente nel marzo del 768, C. fu costretto a recarsi nella basilica di S. Pietro per un abboccamento col primicerio Cristoforo, il suo grande nemico. Questi, temendo per sé e per i suoi a causa della sua irriducibile opposizione al nuovo regime specie dopo l'assassinio del duca Gregorio, si era infatti rifugiato insieme con i figli nella basilica vaticana, dove i suoi avversari non avevano osato farlo arrestare. Fallito il tentativo di convincerlo a uscire dal luogo sacro, C. ottenne dal primicerio e dal figlio di questo Sergio, allora "sacellarius" (cioè capo dell'ufficio che controllava le uscite della Chiesa romana), l'impegno solenne ad abbracciare dopo la domenica di Pasqua la vita religiosa in un monastero di loro scelta. Dovette tuttavia consentire al primicerio di poter far ritorno alla propria casa insieme con la famiglia, e dargli le più ampie garanzie sulla sicurezza personale. Concesse inoltre a Cristoforo, senza sollevare riserve od obiezioni, di potersi ritirare in un monastero che sorgeva fuori dei confini del Ducato, in territorio di dominio longobardo: S. Salvatore, presso Rieti. Lasciata Roma - come promesso - subito dopo la Pasqua, che fu il 10 aprile, ed oltrepassato il confine, Cristoforo e suo figlio Sergio, invece di recarsi a S. Salvatore, si rifugiarono presso il duca di Spoleto Teodicio, per il tramite del quale si misero in contatto col re dei Longobardi Desiderio, cui chiesero di liberare la Chiesa dall'usurpatore. Il sovrano accolse favorevolmente la richiesta, che gli offriva il destro di intervenire nelle vicende romane e di acquistare una decisiva influenza sulla Sede apostolica. Dette quindi di buon grado a Cristoforo l'incarico di scacciare C. e di rovesciare il governo di Totone con l'aiuto delle milizie spoletine, ed impartì pertanto al duca Teodicio le direttive del caso. A quali patti il primicerio avesse ottenuto l'appoggio di Desiderio non possiamo dire a causa del silenzio delle fonti note. Possiamo comunque ammettere che l'intesa avesse anche l'avallo di Pipino, il quale, non essendo allora in grado di affrontare con la necessaria tempestività il problema rappresentato dall'avvento di C., poteva aver autorizzato un intervento di Desiderio negli affari romani circoscritto negli obiettivi e limitato nel tempo. È certo, tuttavia, che né il primicerio intendeva rinnegare tutto il suo passato di convinto sostenitore dell'indipendenza di Roma e di una linea politica decisamente antilongobarda, né Desiderio, dal canto suo, rinunziare ad imporre la sua tutela ai vescovi di Roma. Affiancò infatti a Cristoforo e a Sergio un suo agente, il presbitero Waldiperto, col compito di organizzare, una volta entrato nell'Urbe, le cose in modo tale da far giungere al soglio pontificio una persona amica. Mentre Teodicio andava concentrando i suoi guerrieri a Rieti, dalla stessa città Cristoforo avviò segreti maneggi con i rappresentanti delle forze politiche romane, perché appoggiassero dall'interno il suo colpo di mano. Tali contatti sortirono ben presto il loro effetto: quando nel corso del mese di luglio i Longobardi ebbero terminato i preparativi, si erano dichiarati contro C. ed il regime da lui instaurato non solo uno dei maggiori esponenti del ceto laico militare, il "chartularius" Grazioso, ed uno degli "iudices de clero" più in vista, il "secundicerius notariorum" Demetrio, ma anche alcuni fra gli stessi reparti addetti al servizio di guardia alle mura e alle porte. Entrato in territorio romano, il corpo di spedizione spoletino, alla cui testa si trovavano il sacellario Sergio ed il presbitero Waldiperto, la sera del 29 luglio occupò il ponte sull'Aniene: il 30 passò il Tevere sul ponte Milvio e, tenendosi sulla riva destra del fiume, sfilò davanti alle mura di Roma e agli edifici annessi alla basilica vaticana, puntando su Porta S. Pancrazio, il cui presidio era composto da fautori del primicerio Cristoforo. Grazie alla connivenza di questi ultimi gli Spoletini poterono entrare nella città senza colpo ferire ed attestarsi sul Gianicolo. Qui vennero affrontati da Totone e da Passivo, in un brevissimo e singolare scontro. Le truppe da loro comandate, infatti, si sbandarono o fecero causa comune con i Longobardi non appena il duca di Roma - il quale, giunto sul posto, aveva assalito ed abbattuto un guerriero spoletino - fu aggredito alle spalle ed ucciso a tradimento da due dei suoi più stretti collaboratori, il "secundicerius" Demetrio ed il "chartularius" Grazioso. C. ricevette nel patriarchio, dalla voce del fratello Passivo, la notizia della tragica morte di Totone, dell'irruzione di Sergio e degli armati spoletini. Insieme con Passivo e col suo "vicedominus", il vescovo Teodoro, cercò allora rifugio dapprima nella stessa basilica lateranense, poi in una cappella presso il battistero, dedicata a s. Venanzio. Infine si barricò nella cappella di S. Cesario, da cui fu più tardi strappato e trattenuto in stato di arresto, con i suoi due compagni, sotto la sorveglianza degli stessi "iudices militiae", che sin'allora avevano sostenuto lui e il regime di Totone ed erano ora passati dalla parte dei vincitori. Il 31 luglio, giorno di domenica, vide i partigiani di Cristoforo e di Sergio padroni della città. Vide anche innalzato al soglio di Pietro il cappellano del monastero della diaconia di S. Vito sull'Esquilino, il presbitero Filippo, da un buon numero di romani, di "proceres Ecclesiae" e di "optimates militiae". Dell'iniziativa era stato anima e promotore il presbitero Waldiperto, il quale aveva evidentemente inteso far sì che assumesse il governo della Chiesa romana una persona di nessun peso politico, che avesse dunque bisogno per sostenersi della potente protezione del re Desiderio. Ma la ferma presa di posizione di Cristoforo, giunto a Roma in quello stesso giorno, portò alla deposizione di Filippo, che il "chartularius" Grazioso arrestò, traendolo dal patriarchio lateranense e ricondusse "cum magna reverentia" al suo monastero. Sempre nel corso di quella turbinosa giornata, Cristoforo assunse, in quanto "primicerius notariorum", le funzioni di "servans locum Sedis Apostolicae" e convocò per il giorno seguente nel Foro, nello slargo ai piedi del Campidoglio dinanzi all'antica sede in cui si riuniva il Senato, ora consacrata al culto cattolico e dedicata a s. Adriano, tutte le componenti della cittadinanza - "sacerdotes", "primates cleri", "optimates de militia", "exercitus", "cives honesti", popolo minuto - per procedere finalmente ad un'elezione pontificia che fosse regolare. L'unanimità dei voti si concentrò sul presbitero del titolo di S. Cecilia, Stefano, il candidato di Cristoforo. E nel titolo di S. Cecilia si compì, secondo le consuetudini antiche e le norme canoniche, la procedura dell'elezione di Stefano, che fu quindi solennemente insediato nel patriarchio. La consacrazione avvenne la domenica successiva 7 agosto nella basilica di S. Pietro. Erano già cominciate, allora, le feroci rappresaglie contro quanti avevano collaborato con Totone e con Costantino. Furono condotte secondo un piano determinato, che aveva lo scopo di eliminare, da un lato, gli esponenti più in vista della consorteria di C. e di Totone, e, dall'altro, quello di troncare definitivamente i legami che Desiderio poteva aver stabilito in Roma. Caddero vittime della barbara repressione il vescovo Teodoro, già "vicedominus" di C., il fratello di quest'ultimo Passivo, il tribuno Gracile ed il presbitero Waldiperto. Occhi e lingua furono strappati al primo, che fu poi rinchiuso nel monastero "ad Clivum Scauri" e lasciato morire di fame e di sete; la stessa pena toccò al secondo, che fu internato nel monastero di S. Silvestro, e al terzo, fatto prigioniero dopo la capitolazione di Alatri. Tragica anche la fine di Waldiperto, accusato di tramare contro la vita del primicerio e l'indipendenza di Roma. Strappato da una folla in tumulto dalla chiesa di S. Maria ad Martyres, dove aveva invano cercato asilo, e rinchiuso nelle segrete del Laterano, ebbe anch'egli enucleati gli occhi e mozzata la lingua, e non tardò a morire pochi giorni dopo. C. fu costretto "ab aliquantis perversis" ad attraversare a cavallo Roma, stando su una "sella muliebri", con un "magnum pondus" attaccato ai piedi. Giunse così, tra gli oltraggi e l'irrisione della folla sino al monastero di S. Saba sul monte Aventino, dove fu rinchiuso. Il 6 agosto 768, "sabbato die, ante unam diem ordinationis" come precisa il biografo di Stefano III, nel corso di una solenne cerimonia svoltasi nella basilica lateranense, dopo la lettura dei sacri canoni, venne ufficialmente deposto da un'assemblea di vescovi, di presbiteri, di chierici. Il suddiacono Mauriano dapprima gli tolse dal collo il pallio e lo gettò per terra, poi gli tagliò le cinghie delle calzature pontificie. Rinchiuso nuovamente nel monastero di S. Saba, ne fu tratto, qualche giorno dopo la consacrazione di Stefano III, dal protospatario Grazioso, che si era presentato al cenobio con un gruppo di armati della Tuscia e della Campania ed aveva preteso con la forza la consegna del prigioniero. Trascinato via dai suoi persecutori, C. ebbe - secondo quanto narrano le fonti - gli occhi strappati e venne abbandonato agonizzante in mezzo alla piazza. Venne soccorso con ogni probabilità dagli stessi monaci di S. Saba, che dovettero riportare il ferito nel loro cenobio. Ne sarebbe uscito solo il 12 aprile dell'anno successivo, quando fu condotto a deporre dinanzi al concilio, che il papa Stefano III aveva convocato per affrontare e risolvere i problemi aperti dalla crisi del 767-768. Di fronte all'assemblea costituita da cinquantadue prelati rappresentanti tredici diocesi franche e trentanove italiane, da tutto il clero romano, dai religiosi inviati dai monasteri latini e greci della città, dai "proceres Ecclesiae"; davanti agli "optimates militiae seu cuncti exercitus et honestorum civium et cunctae generalitatis populus", C. fu "subtilius exquisitus": gli si chiese perché avesse osato usurpare la Sede apostolica ed avesse avuto la temerità di compiere "talem iniquae novitatis errorem in Ecclesia Dei". Ripeté ai padri sinodali, senza suscitare reazioni, quanto aveva già scritto a Pipino: contro la sua volontà era stato sollevato sino al soglio di Pietro dalla violenza del popolo scatenata dalle durezze e dalle ingiustizie del governo di Paolo. Poi cadde in ginocchio e, riconoscendosi responsabile di innumerevoli peccati, chiese umilmente perdono all'assemblea. L'indomani, nella seconda sessione del sinodo, C., chiamato ancora una volta a deporre, affermò che "nihil novi se fecisse", lasciandosi consacrare papa pur essendo laico, "quia et Sergius archiepiscopus Ravennantium laicus existens archiepiscopus effectus est, et Stephanus episcopus Neapolitanae civitatis et ipse laicus repente episcopus consecratus est". Il peso del richiamo fatto dall'accusato ad esempi di fresca data e di enorme valore, quali quelli di Sergio e di Stefano, entrambi laici quando erano stati consacrati sotto Paolo I arcivescovo di Ravenna l'uno, vescovo di Napoli l'altro, è dimostrato dalla violenza con cui i padri conciliari reagirono alle parole di C., che fu scacciato a schiaffi dalla basilica. Quindi furono bruciati nel presbiterio gli atti relativi alla elezione di C. e tutti quelli promulgati durante il suo pontificato per cancellare, insieme con le prove materiali, ogni testimonianza del suo pontificato. La sessione si concluse con una solenne cerimonia penitenziale ed espiatoria, durante la quale il clero e il popolo tutto di Roma si dichiararono colpevoli di aver ricevuto la comunione dall'"invasor Apostolicae Sedis". La sentenza definitiva contro C. fu pronunziata nel corso della terza sessione, il 14 aprile 769: condannato alla "paenitentiae correctio", fu rinchiuso in un monastero, di cui le fonti non hanno tramandato il nome. È questa l'ultima notizia che abbiamo su di lui. Il concilio non mancò di pronunziarsi anche sull'attività pastorale, liturgica e sacramentale svolta da C. nel periodo in cui era stato a capo della Chiesa di Roma. Nella terza sessione fu deciso che i sacramenti da lui impartiti dovevano essere considerati invalidi, ad eccezione del battesimo e della cresima. Pure invalide dovevano venir considerate le ordinazioni da lui compiute. Pertanto gli otto vescovi da lui consacrati vennero retrocessi al grado da loro rivestito in precedenza nella gerarchia ecclesiastica, se avevano ricevuto un ordine minore. I padri conciliari ammettevano tuttavia che essi potessero venire rieletti all'episcopato e potessero ricevere la consacrazione relativa. Quanto agli otto presbiteri ed ai quattro diaconi ordinati da C., se laici al momento dell'ordinazione, dovevano passare "in religioso habitu" ed in clausura monastica il resto della loro esistenza; se chierici, venivano retrocessi al grado ricoperto in passato. Avrebbero potuto, in futuro, essere innalzati al presbiterato, ma sarebbe stata loro interdetta la pienezza del sacerdozio: il grado episcopale. Il concilio stabilì inoltre la procedura che si sarebbe da allora dovuta seguire nell'elezione papale, stabilendo, "ut nullus unquam praesumat laicorum, neque ex alio ordine, nisi per distinctos gradus ascendens diaconus aut presbyter cardinalis factus fuerit, ad sacri pontificatus honorem promoveri". In ogni caso, la scelta del candidato - si stabilì - sarebbe stata di competenza esclusiva del clero di Roma nelle sue tre componenti: "sacerdotes", "proceres Ecclesiae", clericorum ordo". Al laicato, sia militare sia civile, sarebbe spettato il compito di concludere la procedura elettorale riconoscendo "sicut omnium dominum" il nuovo pontefice, una volta che questi avesse preso possesso del patriarchio lateranense. Solo dopo l'omaggio del laicato, infatti, si sarebbe potuto procedere alla stesura del documento solenne, "decretum", contenente gli atti dell'elezione. Fu infine vietato di far entrare in Roma, mentre si stava eleggendo un nuovo pontefice, militari provenienti dalle fortezze della Tuscia e della Campania e di radunare armati sul luogo dell'elezione (seconda e terza sessione: 12-13 aprile 769). Il sinodo aveva dunque escluso di fatto e di diritto l'intervento del laicato nella scelta del papa, riducendo tale intervento al semplice atto formale dell'omaggio che avrebbe dovuto porgere al nuovo papa. Era un fatto di enorme portata. "Il primo tentativo dell'aristocrazia militare di Roma [...] d'imporre sulla cattedra di S. Pietro una propria creatura con la speranza di foggiarsi nel Papato un prezioso strumento per il predominio politico di una delle sue consorterie, era dunque non soltanto fallito, ma aveva raggiunto il risultato opposto" (O. Bertolini, Roma di fronte a Bisanzio, pp. 639 s.). Fonti e Bibl.: quanto resta degli atti del concilio lateranense del 769 è pubblicato in I.D. Mansi, Sacrorum conciliorum nova et amplissima collectio, XII, Florentiae 1766, coll. 713-22; Pauli Diaconi Continuatio Tertia, in M.G.H., Scriptores rerum Langobardicarum et Italicarum saec. VI-IX, a cura di G. Waitz, 1878, pp. 211 s.; Le Liber pontificalis, a cura di L. Duchesne, I, Paris 1886, pp. 463 s., 468-77; Codex Carolinus, nrr. 98-9, a cura di W. Gundlach, in M.G.H., Epistolae, III, a cura di W. Gundlach-E. Dümmler, 1892, pp. 649-53; Concilia Aevi Karolini, in M.G.H., Leges, Legum sectio III: Concilia, II, 1, a cura di A. Werminghoff, 1906, pp. 83-8; W. Martens, Die römische Frage unter Pippin und Karl dem Grossen, Stuttgart 1881, pp. 86-97; C. Bayet, Les élections pontificales sous les Carolingiens au VIIIe et au IXe siècle, 757-885, "Revue Historique", 24, 1884, pp. 49-91; L. Duchesne, L'historiographie pontificale au huitième siècle, "Mélanges d'Archéologie et d'Histoire. École Française de Rome", 4, 1884, pp. 232-73; L. 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